Di Enrico Desii
Dopo qualche difficoltà, sono riuscito a vedere Sangue sparso. Per la verità, mi ero precipitato alla prima proiezione del primo giorno di programmazione a Firenze, il 12 giugno. La visione, però, mi era stata impedita. Non da un presidio militante di compagni arrabbiati, come avevo immaginato forse troppo influenzato dall’atmosfera anni settanta che aleggia intorno al film, ma, molto più prosaicamente, da un blocco tecnologico che impediva a quella che una volta era la pellicola ed adesso non so minimamente cosa sia, di proiettare le immagini.
Testardo, mi sono ripresentato al medesimo cinema dopo alcuni giorni. Mentre le luci in sala si abbassavano, mi è venuto da pensare che, forse non a caso, era il sedici giugno: trentacinque anni prima, in quelle ore, era avvenuto il martirio di Francesco Cecchin. E poi, a proposito di altro sangue versato nelle strade, di altri giovani caduti, di altre speranze spezzate, un’analogia di luogo si è confusa alle prime immagini del film. In fondo non era lontana da dove mi trovavo quella Santa Maria Novella che assisté alla fucilazione dei giovani fascisti ricordata anche da Curzio Malaparte ne La pelle, unico fiore di dignità in quel libro popolato di macerie morali e di abiezione, momento idealmente culminante della sostituzione del tipo di italiano uscito sconfitto dalla guerra con un altro del tutto diverso, quello che sarebbe sopravvissuto ad ogni costo e con ogni compromesso, fino ai nostri giorni.
Detto questo, permettetemi di esprimere la mia opinione su Sangue sparso.
Il film ha chiaramente dei limiti e non parlo solo di quelli cinematografici. Da questo punto di vista, per quanto ne posso capire, è inevitabile notare che si tratta di una produzione artigianale, con attori dilettanti e mezzi assai limitati. D’altronde, si deve ammettere che la nostra area, anche in momenti teoricamente più favorevoli (non dimentichiamo, ad esempio, che Franco Cardini è stato per due anni consigliere d’amministrazione della Rai), non ha saputo realizzare prodotti più importanti, più emozionanti, più evocativi.
I limiti ai quali mi riferivo sono quelli di impostazione ed approfondimento dell’ambiente e dei personaggi. Troppe macchiette, molti saluti romani che sembrano vergognarsi, eccessivo indugio su particolari poco significativi, troppe frasi fatte che, tra l’altro, appartengono più al linguaggio della sinistra che al nostro, sono le prime cose che mi viene in mente di sottolineare. I protagonisti, tutti poco spontanei ed assai legnosi, tendono, oltretutto, come altri hanno scritto, in maniera eccessiva al pianto ed a chiedersi (inutilmente, tra l’altro) il perché di certi accadimenti. Pare che non si rendano conto per quale motivo una società che, altrimenti, avrebbe tranquillamente continuato a galleggiare nella sua opulenza e nel deserto di valori prodotto dalla democrazia consociativa capital-comunista, aveva loro dichiarato (anzi, nemmeno dichiarato) una guerra senza esclusione di colpi.
Che peccato, poi, quelle frettolose e parziali inquadrature delle scritte sui muri delle sezioni, quel mostrare la frase di Julius Evola incorniciata senza darti nemmeno il tempo di leggerla.
Di certo non aiutano un’oggettiva considerazione del film i resoconti che hanno sottolineato la sfilata di personaggi che si sono presentati a Roma all’anteprima del medesimo. Si è trattato, infatti, di molti figli di quell’ambiente e di quel periodo che, proprio su quel sangue, hanno costruito improponibili carriere politiche, dando un’interpretazione del tutto personale di quegli anni e di quelle lotte. Figure sbiadite, impalpabili, pronte all’ennesimo tradimento, oggi alla ricerca di una ricostruzione di verginità politica dal momento che l’astro berlusconiano, che li ha folgorati negli ultimi venti anni, ha imboccato la sua parabola discendente. E’ stata segnalata anche la presenza di una ricca signora che per hobby siede sugli scranni parlamentari, perennemente alla ricerca di momenti di visibilità e di polemiche da talk show.
Mi pare, però, che non si possa e non si debba mandare tutto indistintamente al macero, facendosi prendere da una immotivata cupio dissolvi proprio quando qualcosa, sia pure in maniera discutibile, si muove. Credo che si debbano fare anche delle riflessioni di segno opposto, evidenziando alcuni particolari che non è giusto trascurare. Magari prendendone spunto per una futura occasione.
Di sicuro va dato atto, in primo luogo alla regista Emma Moriconi ma anche a tutti coloro che hanno lavorato al film, di un notevole coraggio. Hai voglia a pensare che non sono più gli anni settanta, ma, se ti interessa lavorare in certi ambienti, di certo non favorisci il tuo percorso professionale partecipando ad una produzione di questo tipo.
In ogni caso, un film del genere nessuno lo aveva mai pensato e realizzato. Del Fascismo e sul Fascismo si è detto, scritto, girato molto, anche troppo sotto certi aspetti. Chi vuole seriamente documentarsi ha a disposizione materiale di ogni genere. Sul Neofascismo c’è molto meno, poco o niente a livello audiovisivo. Ed allora acquisisce il suo significato il fatto che una pellicola distribuita a livello nazionale e che avuto un certo riscontro sui media, tramandi, oltre al ricordo delle persone che ci hanno rimesso la vita, anche il messaggio che nell’ambiente non c’erano solo, come la vulgata riferisce, truci golpisti collusi coi servizi o crudeli picchiatori in cerca del comunista di passaggio da aggredire. Divers
amente, in quegli angusti sottoscala c’erano persone normali, che in mezzo agli eventi quotidiani dell’esistenza, riuscivano, rischiando del loro, a pensare ed agire in maniera anticonformista, a fare attività politica, a creare una comunità che nel cameratismo aveva il suo tessuto connettivo.
amente, in quegli angusti sottoscala c’erano persone normali, che in mezzo agli eventi quotidiani dell’esistenza, riuscivano, rischiando del loro, a pensare ed agire in maniera anticonformista, a fare attività politica, a creare una comunità che nel cameratismo aveva il suo tessuto connettivo.
Infine, mi piace ricordare due scene del film. La prima, che comunque contrasta e, secondo me, riscatta la tendenza “buonista” alla quale accennavo sopra, è il netto rifiuto opposto dai protagonisti riuniti di fronte alla camera di ospedale dove Paolo di Nella sta morendo, alla visita compiuta da Sandro Pertini ed alla lettera di Enrico Berlinguer. Troppo facile, dopo aver assistito per tanti anni al diffondersi dell’odio senza battere ciglio, atteggiarsi improvvisamente a “presidente di tutti”. Ma troppo facile sarebbe stato anche cadere nella trappola di uno stucchevole “vogliamoci bene” e “scordiamoci del passato”. Mi pare che Sangue sparso non lo faccia.
Infine, la scena con la quale si conclude la storia, finalmente un momento corale e di maggior profondità. Una sera di gennaio di tanti anni dopo ad Acca Larentia, una folla numerosa, compatta e disciplinata, i nomi dei caduti scanditi dall’altoparlante. Credo che quei fotogrammi rappresentino un elemento importante. In fondo, quasi quaranta anni dopo, molti di noi sono ancora lì, il 7 gennaio come il 29 aprile o il 16 giugno o quando si voglia, a ricordare quei giovani ed a celebrare, davanti al sangue che su quel selciato è stato versato, una cerimonia che ci rinnova e ci fortifica, un rito che unisce, attraversando le generazioni, i camerati di ieri e quelli di oggi, noi che abbiamo avuto l’occasione di vivere da uomini adulti questo disastrato presente con i nostri quasi coetanei ben più sfortunati e valorosi di noi.
Il presidio dei compagni davanti al cinema, invece, non l’ho trovato. Quelli sopravvissuti, ormai, hanno fatto tutti carriera.