7 Ottobre 2024
Religione

Alcune osservazioni sull’ateismo

Su queste pagine, come avete senz’altro avuto modo di osservare, mi sono occupato spesso di religioni e fenomeni religiosi, non con il taglio del teologo (non credo che quelle serie di lambiccamenti cerebrali che sono chiamate “teologia”, cristiana o coranica, possano essere in alcun modo considerati alcunché di scientifico), ma con quello di chi osserva gli effetti delle credenze religiose sulla dimensione umana, civile, politica.

In questa ottica, mi sono occupato del cristianesimo, dell’islam e anche, recentemente, del buddismo. A dire la verità, non mi sono occupato molto di induismo, taoismo e confucianesimo, ma non credo che queste ultime religioni abbiano al presente un gran peso sulla nostra cultura, la nostra società, i nostri modi di vita.

C’è però una religione, anch’essa piuttosto diffusa oggi nel nostro mondo, a cui non ho finora dedicato una trattazione specifica: l’ateismo.

Il punto di vista dal quale parto l’ho spiegato più volte, ma repetita juvant. Io penso che nessuno abbia la verità in tasca per quanto riguarda il soprannaturale, il destino post mortem, l’esistenza della o delle divinità e al riguardo preferisco praticare quella che gli antichi filosofi scettici chiamavano epoché, cioè la sospensione del giudizio riguardo a ciò che non può essere deciso né mediante l’esperienza né razionalmente. Un ateo, al contrario, è un credente, perché crede di poter affermare l’inesistenza del soprannaturale e dell’esistenza post mortem.

Mi era già capitato di far osservare che la differenza fra i monoteismi abramitici (ebraismo, cristianesimo, islam, marxismo) e le religioni tradizionali (induismo, scintoismo e quel che impropriamente è chiamato paganesimo) non consiste nel numero delle divinità ma nel tipo di etica. Queste ultime basano i valori morali sulla civitas, la stirpe, il radicamento in un’identità etnica e storica, quindi ciò che chiamiamo tradizione, nel senso letterale di una consegna che passa da una generazione all’altra. Per la mia sensibilità etica, non posso non dirmi pagano.

In maniera completamente diversa od opposta, le religioni abramitiche basano i loro valori morali sul rapporto del credente con un supposto Dio trascendente. I comportamenti buoni sono quelli che si suppongono prescritti da questa divinità, anche quando si tratta della persecuzione o dello sterminio degli “infedeli” e dei dissidenti “eretici”. L’islam e il marxismo ne sono oggi gli esempi più evidenti, ma non è che il cristianesimo nei tempi del suo splendore, quelli che vanno grosso modo dall’editto teodosiano di Tessalonica al XVIII secolo, fosse differente. C’è tutta una lunga storia che occorre ignorare per far passare il cristianesimo per una religione della mitezza e della bontà.

L’ebraismo, beh, basta leggere l’Antico Testamento per vedere che razza di macellai fossero gli antichi ebrei. Se per un periodo della loro storia sono stati un popolo di perseguitati, in origine erano un popolo di persecutori, e oggi, come dimostrano avvenimenti recenti, sono tornati a esserlo.

Il marxismo rientra pienamente nello schema abramitico: il Dio trascendente è diventato il Dio immanente della storia il cui volere si chiama “progresso” e i cui precetti si identificano con la “rivoluzione proletaria”.

Proprio perché fra l’etica tradizionale e l’etica abramitica esiste un’inconciliabilità assoluta, parlare di “tradizione cristiana” o di “tradizionalismo cattolico” è un ossimoro, come dire “acqua asciutta”.

Rispetto a ciò, come si colloca l’ateismo?

Una domanda che mi sono sentito fare è: “Ti fideresti di un ateo?”. Al che rispondo che se dovessi scegliere se affidare tutti i miei beni e la mia vita nelle mani di un ateo di elevata moralità come il filosofo John Stuart Mill o in quelle di un cattolico come Torquemada o il cardinale Bellarmino, preferirei mille volte il primo. Il sottinteso di una domanda di questo genere è che ateo sia sinonimo di persona amorale, che occorra avere una fede religiosa per avere un’etica. E’ inutile dire che si tratta di un’idea prettamente abramitica, quindi di un presupposto del tutto falso.

L’etica non è collegata alla religione, l’averlo fatto è un tratto tipicamente abramitico che rende la morale stessa uno spregevole “do ut des”: mi comporto bene, faccio la volontà del mio Dio per evitare le punizioni che potrebbe infliggermi e ottenere le ricompense che mi ha promesso, è la logica del bastone e della carota. Si tratta in poche parole di un mercanteggiamento meschino, e le persone religiose in senso abramitico, che ritengono che chi non condivide la loro “fede” debba essere per forza una persona priva di moralità, significa che concepiscono tutti gli altri al loro infimo livello etico.

L’etica ha altre basi, nasce dal senso della dignità personale, dal rispetto di se stessi, dal fatto di sapere che compiere azioni indegne ci sminuisce, e qui la lezione di Socrate mantiene tutta la sua validità.

Partiamo dunque dal presupposto che la credenza in un sistema religioso-metafisico non ci dice nulla nei confronti del livello etico di una persona, e che semmai è preferibile un ateo a un credente in una fede di tipo abramitico che comandi l’intolleranza verso coloro che non la condividono.

Senonché la questione è un pochino più complessa di così. Come ho detto in apertura, quando parliamo del soprannaturale, del trascendente, dell’ultramondano, entriamo in un campo nel quale nessuno può allegare certezze fondate né sull’esperienza né sulla ragione (e c’è da ringraziare Immanuel Kant che nella Critica della ragion pura ha dimostrato l’impossibilità della metafisica come scienza e tagliato la ragnatela di secoli di speculazioni pseudo-filosofiche che tendevano a una finzione di dimostrazione razionale dei dogmi religiosi). Da questo punto di vista, è chiaro che anche l’ateismo è una fede. Ora, che cosa implica la – perdonatemi l’espressione – “fede nel non-Dio”?

Non è difficile comprendere che si tratta di una “fede” di genere esclusivamente negativo, e bisogna vedere quali concezioni positive l’accompagnino. Mi pare che si possa dire che in sostanza tale “fede” si accompagna perlopiù a due tipi di concezioni “positive”; una, che credo sia quella largamente maggioritaria, è quella marxista, e possiamo dire che è proprio “grazie a” o “per colpa di” Karl Marx che l’ateismo è diventato un fenomeno di massa, l’altra invece dipende da un eccesso di razionalismo (si badi bene, non di razionalità).

Ora, per quanto riguarda il marxismo in tutte le sue varianti (che poi si riducono alla scelta dei mezzi con cui realizzare la palingenesi rivoluzionaria-escatologica, cioè se la via rivoluzionaria-insurrezionale o quella riformista, non del fine, che rimane sempre il medesimo), anche dal punto di vista etico, la struttura è quella delle religioni abramitiche: il paradiso a cui gli adepti ritengono di poter accedere è rappresentato dal “sol dell’avvenire”, dalla “società senza classi”. Semmai, la differenza è rappresentata dal fatto che, non attendendo un intervento soprannaturale per garantire l’inferno ai reprobi, deve essere “il devoto” militante stesso ad adoperarsi in tal senso, e la storia dei movimenti “rossi” con lo spaventoso solco di violenza che hanno scavato nella storia del XX secolo, da Stalin a Pol Pot, ci ha dato parecchi esempi in questo senso.

Si tratta in sostanza di un millenarismo violento la cui matrice cristiana è facilmente riconoscibile, e non privo di antecedenti nel cristianesimo stesso, basti pensare ad esempio a fra’ Dolcino, e a cui – di conseguenza – sul terreno etico si applicano tutte le riserve che abbiamo visto verso l’etica delle religioni abramitiche.

L’ateismo razionalista è certamente un fenomeno minoritario, esso è solitamente tipico di quel “razionalismo in cui c’è più passione antireligiosa che ragione” e ha spesso una proiezione politica in quei movimenti democratico-estremisti contrassegnati oltre che da un vivace anticlericalismo (nei Paesi cattolici), da un individualismo estremo che li porta a concepire come fine della lotta politica la rimozione di tutte quelle leggi, istituti, tradizioni che si oppongono al totale e sfrenato soddisfacimento dei bisogni, degli istinti, delle passioni, dei piaceri individuali.

Qui occorre però introdurre una distinzione: un conto è quello che paradossalmente potremmo chiamare “individualismo sociale”, tipico ad esempio dei pensatori positivisti dell’ottocento che si proponevano “la maggior felicità possibile per il maggior numero possibile di persone” e che non mancava di una certa patina di ethos, e un altro conto è l’individualismo molto più limitato – da Partito Radicale – che invoca la soppressione di tutti i limiti al soddisfacimento degli istinti individuali anche a detrimento del corpo sociale, e che oggi si è ridotto a battersi per la libertà di aborto, tossicodipendenza, pederastia, e per il matrimonio omosessuale.

Quanto meno, si può dire che è precisamente questa corrente che ha dato un grosso contributo a tenere in piedi l’idea che ateismo coincida con amoralità, cosa per cui non faremmo certo una tragedia, se non facesse fare indirettamente una immeritata bella figura al cristiano-cattolicesimo di cui l’Italia è sin troppo afflitta.

Qui sarà bene cogliere la palla al balzo e approfittarne per chiarire una volta per tutte una questione che mi sta a cuore da tempo. Come certamente saprete se avete già seguito i miei scritti su “Ereticamente”, io nei confronti del cristianesimo, della Chiesa cattolica, degli effetti che l’uno e l’altra hanno avuto in passato e hanno al presente sulla nostra storia, sulla nostra società, sulla nostra politica, sul nostro costume, non sono mai stato tenero. Alcuni ne hanno approfittato per accusarmi di rappresentare una specie di “ala destra” del Partito Radicale, dell’UAAR o del CICAP (associazione con cui per la verità ho avuto a che fare in passato, ma da cui mi sono distaccato, e vi ho spiegato con abbondanza i motivi di ciò e tutta la storia).

Io di tutti costoro condivido senz’altro l’anticlericalismo, ma non l’etica individualista. Bisogna comprendere che ogni sistema di pensiero, ogni ideologia, ogni Weltanschauung ha sempre una pars destruens, qualcosa che attacca o demolisce, e una pars construens, qualcosa di propositivo. Condividere la pars destruens di una qualche forma di pensiero, non significa condividerne anche la pars construens. Tanto per fare un esempio, anni fa fu pubblicato un testo, il Libro nero del comunismo, che metteva a fuoco tutte le mostruosità e gli orrori di cui questa ideologia si è macchiata nel corso del XX secolo, l’impressionante costo umano, i milioni di morti che essa ha comportato. Questo libro nasceva da ambienti liberal-democratici vicini all’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

Da parte comunista si rispose con un testo (di minor successo, bisogna dire), Il libro nero della democrazia, in cui si evidenziava che la democrazia in termini reali è molto lontana dall’immagine che tende a dare di se stessa, di rispetto delle libertà civili e dei diritti umani, e che anche i suoi campioni nel corso del XX secolo si sono macchiati di una buona dose di atrocità e di orrori, si pensi per tutti ai milioni di morti civili causati durante la seconda guerra mondiale dai bombardamenti aerei angloamericani.

Ora se io condivido la convinzione, sono al corrente del fatto che il comunismo è stato un pozzo di orrori senza fondo, questo non fa di me un berlusconiano, così come il fatto di sapere che la democrazia occidentale è sostanzialmente un inganno, e che i suoi paladini hanno spesso dimostrato di infischiarsene altamente dei diritti umani, non fa di me un comunista.

Ma penso di non avere dopotutto un gran diritto di lamentarmi, visto che un trattamento dello stesso genere è stato riservato al grande Friedrich Nietzsche. In un articolo apparso sul suo sito “EffeDiEffe” anni fa Maurizio Blondet spiegava che Nietzsche sarebbe stato in buona sostanza non un pensatore “nostro”, ma l’antenato ideologico di Marco Pannella. Questo può sembrare plausibile solo se si considera unicamente la pars destruens del pensiero nietzschiano, la dura e impietosa critica al cristianesimo, e se ne ignora la pars construens che non è certo rappresentativa o antesignana dell’individualismo radicale, ma è composta dall’idea del superuomo, dalla visione aristocratica e selettiva, dalla sanità della stirpe in vista della genesi dei tipi umani più elevati. Piaccia o non piaccia a cattolici e cristiani in genere, Friedrich Nietzsche rimane un pensatore “nostro” la cui opera ha dato un contributo importantissimo alla costruzione della nostra Weltanschauung, e sarebbe un errore enorme “regalarlo” alla sinistra.

A prescindere dal fatto che nel non certo esaltante panorama delle forze politiche italiane, il partitino di Pannella è quanto di più squallido si possa mai concepire, prono in maniera disgustosa al sionismo e all’americanismo, al punto da fare persino sistematicamente torto al suo presunto spirito pacifista e non violento, un’etica radical-individualista, basata sull’idea della rivendicazione assoluta dei diritti e il soddisfacimento dei bisogni ma anche degli istinti e dei piaceri, ha un qualche fondamento oppure no?

Questa parola: rivendicazione assoluta non l’ho messa a caso. Etimologicamente, “absolutus” significa “sciolto”. Da che cosa dovrebbe essere sciolto questo individualismo? E’ chiaro, dal legame con la civitas, con la comunità, con il corpo sociale. Noi possiamo leggere la sua ascendenza nelle dichiarazioni dei diritti dalla rivoluzione inglese del 1640, a quella americana del 1776, a quella francese del 1789, dichiarazioni di diritti che non lasciano intendere, anzi implicitamente negano che ai diritti corrispondano doveri e responsabilità. Questo individualismo è l’ultimo, caricaturale cascame dell’illuminismo.

A prescindere dagli sconquassi politici che tutto ciò ha prodotto, il cui esito finale è stato la perdita nel XX secolo di quell’egemonia che l’Europa aveva acquisito a livello planetario a partire dal XVI secolo, il soddisfacimento degli istinti e la ricerca del piacere possono essere obiettivi realmente perseguibili o, a maggior ragione, i fondamenti di un’etica?

I piaceri fini a se stessi saziano presto, e anche la felicità, se perseguita come unico scopo nella vita, si dimostra presto una chimera irraggiungibile.

Bisognerebbe andarsi a rileggere una pagina memorabile di John Stuart Mill, un filosofo inglese del XIX secolo che è stato uno dei padri del positivismo: Mill spiega che la felicità è una chimera se facciamo di essa lo scopo della nostra vita, ma che se ci impegniamo in qualche causa, in qualche passione, in qualche scopo più nobile del nostro benessere individuale, allora non mancheranno gioie, soddisfazioni, e neppure qualche brandello di felicità, ma questo non è ancora tutto, perché la scala a cui rapportiamo i nostri valori non può essere puramente e semplicemente quello della nostra esistenza individuale.

C’è un discorso che occorre avere la franchezza e il coraggio di fare: non solo il raggio d’azione dell’individuo, di ciascuno di noi, è limitato, ma è limitata la durata della nostra vita: sette, otto decenni se siamo fortunati, nove o poco più nei casi migliori e già eccezionali. Basta riflettere su questo per rendersi conto che in questo individualismo c’è qualcosa di malato. L’uomo psicologicamente sano non solo avverte il nesso con la comunità di cui fa parte, a cominciare dalla propria famiglia e dalle responsabilità che essa comporta, ma sa di avere verso la civitas responsabilità e doveri non meno che diritti, non solo, ma ha chiaro il senso di essere un anello di una catena che si perde indietro nella notte dei tempi, la catena degli antenati che l’hanno preceduto e che continuano in lui, catena che a sua volta ha la responsabilità di cercare di perpetuare. Detto fuori dai denti e in modo estremamente chiaro: l’uomo davvero psicologicamente sano è l’uomo della tradizione.

Fabio Calabrese

2 Comments

  • Luca Valentini 12 Agosto 2014

    “Questa parola: rivendicazione assoluta non l’ho messa a caso. Etimologicamente, “absolutus” significa “sciolto”. Da che cosa dovrebbe essere sciolto questo individualismo? E’ chiaro, dal legame con la civitas, con la comunità, con il corpo sociale. Noi possiamo leggere la sua ascendenza nelle dichiarazioni dei diritti dalla rivoluzione inglese del 1640, a quella americana del 1776, a quella francese del 1789, dichiarazioni di diritti che non lasciano intendere, anzi implicitamente negano che ai diritti corrispondano doveri e responsabilità. Questo individualismo è l’ultimo, caricaturale cascame dell’illuminismo”….in poche parole il senso dell’incompatibilità della visione tradizionale della vita sia con la superstizione devozionale che ha invaso l’Occidente da 2000 anni sia con la sua falsa opposizione modernista, illuminista, massonico-rivoluzionaria. Complimenti ed un caro saluto a Fabio!

  • Luca Valentini 12 Agosto 2014

    “Questa parola: rivendicazione assoluta non l’ho messa a caso. Etimologicamente, “absolutus” significa “sciolto”. Da che cosa dovrebbe essere sciolto questo individualismo? E’ chiaro, dal legame con la civitas, con la comunità, con il corpo sociale. Noi possiamo leggere la sua ascendenza nelle dichiarazioni dei diritti dalla rivoluzione inglese del 1640, a quella americana del 1776, a quella francese del 1789, dichiarazioni di diritti che non lasciano intendere, anzi implicitamente negano che ai diritti corrispondano doveri e responsabilità. Questo individualismo è l’ultimo, caricaturale cascame dell’illuminismo”….in poche parole il senso dell’incompatibilità della visione tradizionale della vita sia con la superstizione devozionale che ha invaso l’Occidente da 2000 anni sia con la sua falsa opposizione modernista, illuminista, massonico-rivoluzionaria. Complimenti ed un caro saluto a Fabio!

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