Sono le nove di un sabato mattino ma le vie e le piazze del quartiere – tra i più popolosi e movimentati della città – sono deserte. Il mercato settimanale è pressoché inesistente: poche bancarelle, gli ambulanti ardimentosi – quasi tutti stranieri – sperano nelle ore successive. Infatti non piove, nonostante il cielo livido e l’allerta arancione diramata dalle autorità. Dovrebbe diluviare all’impazzata, ma un acquazzone di media intensità e breve durata arriverà solo dopo mezzogiorno. L’ amico edicolante è furioso per le scarse vendite ma capisce che la gente è rintanata in casa per paura indotta. Del maltempo, certo, ma in definitiva di vivere normalmente, di affrontare la realtà come si è sempre fatto. I rari passanti hanno quasi tutti i capelli bianchi; fa effetto che i giovani siano i più conformisti, i credenti più fedeli del verbo del potere.
Nessun dubbio che gli eventi climatici vadano affrontati con prudenza e che le istituzioni abbiano il dovere di approntare ogni strumento per diminuire i rischi. Il punto è un altro; riguarda la docilità della gente, la sua passività, la credulità ammaliata dalla “scienza”. Facciamo spontaneamente, persino con disciplina, ciò che vuole chi comanda. Il sistema delle allerta meteo è una spia formidabile. In autunno le piogge sono normali, generalmente copiose. Quest’anno più del consueto, è vero, ma non giustificano lo stato di allarme continuo che poi non risolve granché. L’incuria di mezzo secolo, l’abbandono delle campagne, la volontà politica di non realizzare infrastrutture, determinano disastri, perdita di vite umane, sfigurano il territorio e gettano sul lastrico le attività umane. Così è accaduto in Emilia Romagna, mentre in Sicilia l’acqua piovana, benedetta in zone dove l’orgoglioso uomo tecnologico, nel terzo decennio del terzo millennio non è ancora riuscito ad assicurare l’acqua corrente in diverse città, viene fatta defluire in mare per le condizioni deplorevoli di pozzi, invasi, tubazioni.
In compenso abbiamo il sistema dell’allerta. All’erta stiamo, per quel che serve. Giallo se le piogge (che i meteorologi chiamano “fenomeni”) sono, per così dire, normali, arancione per i temporali, rossa per le emergenze. In una cittadina della riviera ligure un tabellone stradale prevede anche la comica allerta verde, ovvero rende allarmante anche la condizione ordinaria. Lì casca l’asino, ovvero si manifesta il vero volto del sistema in cui siamo immersi. Dobbiamo stare sempre all’erta, ovvero ci obbligano a vivere impauriti, ansiosi. Pioverà, non pioverà, ci sarà o no il diluvio universale? Nel dubbio, tutti in lockdown volontario. A Bologna il sindaco, autopromosso podestà, ha vietato la partita di calcio nonostante non sia piovuto il giorno dell’incontro. Timore esagerato o senso di responsabilità che sia, la vita normale è stata interrotta per un evento previsto che non si è verificato.
Il tema che ci appassiona – facciamo parte di un’infima minoranza attaccata alla libertà concreta e perciò diffidente – è la paura inculcata nel corpo della società, nei singoli e nella comunità. Città deserte perché scatta il meccanismo di autodifesa, la vittoria della paura. All’erta sto, come i tremebondi della mascherina o i forzati delle vaccinazioni. Il giovane, premuroso medico della mutua ci invita “almeno” all’iniezione contro l’influenza, se proprio non vogliamo sottoporci all’ennesima punturina di siero genico anti coronavirus. Non si sa mai, lei ha una certa età. In fondo che le costa? Chi vive nella paura muore tutti i giorni, disse qualcuno. Giusta prudenza sì, ma non possiamo accettare l’allarme costante, la tensione che esaurisce e il cuore che sussulta mille volte al dì. L’allerta serve soprattutto al potere, che non risolve il problema – il temporale arriverà comunque; se non prenderemo l’influenza, ci buscheremo qualche altro malanno – ma finge di prendersi cura di noi. Materno, rassicurante, ci chiede “solo” obbedienza. Sta’ all’erta, perché pioverà. Come è sempre accaduto, in autunno. Il mercato si faceva ugualmente, la gente indossava impermeabile e galosce, si muniva di ombrello e continuava la vita.
Lo scrivano ricevette la più bella lezione a otto o nove anni, la prima nevicata che affrontò. La mamma impose di andare a scuola. Hai gli scarponcini, i guanti, la sciarpa, il berretto, la scuola è a cinquecento metri da casa, va’ e non fare storie. Poi fu bellissimo fare a palle di neve, costruire bianchi pupazzi, vivere un’esperienza nuova. Se fossero stati già inventati gli stati di allerta, avrebbero chiuso la scuola. Ovvio che occorra evitare il peggio, ma l’eccesso di protezione rende fragili, deboli, incapaci di reagire. Se ci chiudiamo in casa a finestre sbarrate per un’allerta arancione, che faremo in caso di soprusi, leggi antipopolari, negazione della libertà, abolizione di diritti? Nulla: si chiama resilienza, l’arte di sopportare senza battere ciglio.
Una vicina di casa, giorni fa, si lamentava della pioggia perché non era stata decretata l’allerta. Acquazzone improvviso: un rovescio abusivo, non autorizzato. La mania di controllo, il bisogno di previsione, la domanda di protezione introiettata diventa comportamento di massa. Siamo liberi immaginari e sani immaginari, bisognosi di farmaci, cure, iniezioni rassicuranti. Andrà tutto bene, ma solo se farete ciò che vogliamo noi, è il messaggio. Bambini impauriti dipendenti da una madre chioccia che non lascia crescere. La gatta pietosa fece i gattini ciechi, recitava la saggezza popolare quando le allerta climatiche consistevano nell’ interpretazione del vento, della direzione delle nuvole e, vivaddio, nell’attenzione al calendario. In estate ci hanno messo in guardia dalle inevitabili alte temperature, invitandoci a bere acqua e non alcolici, prendere pasti leggeri e non uscire sotto la canicola. Non è ciò che abbiamo imparato da bambini, dai genitori e dall’esperienza? Quanto al caldo meridiano, senza bisogno di allerta, avevamo la controra, le prime ore pomeridiane della giornata estiva, destinate al riposo per il calore.
Non servivano esortazioni o allarmi, sapevamo che in autunno piove, in inverno fa freddo e in estate caldo. Non a caso i radi passanti mattutini del sabato erano anziani, poco permeabili – per diversa educazione – al timore dell’allerta multicolore. L’ idea di controllo totale degli atti e degli eventi, di protezione dalle conseguenze, ci fa vivere in una bolla, sottraendoci un pezzo di vita, dell’avventura di esistere, di “esserci”. Le case diventano rifugi antitutto, dispensari farmaceutici, mentre la meteorologia è trasformata in spettacolo del circo mediatico . Finiamo con il discettare di isobare, corpi nuvolosi, anticicloni, aree di alta o bassa pressione al bar o al mercato. Timore e tremore – significativo titolo di un’opera dell’esistenzialista cristiano Kierkegaard – mascherati da attenzione, cura di sé, accortezza frutto di superiore civiltà.
Il kit del pendolare che abbiamo portato con noi per anni consisteva di ombrello, carta igienica, un analgesico. Oggi dovremmo riempire uno zaino di farmaci, abiti di ricambio, dispositivi di protezione individuale, oltre all’ app delle allerta varie ed eventuali. La paura – l’orrore, talvolta – per la realtà non permette di vivere in modo naturale, toglie gioia, opportunità, rinchiude in uno scafandro. Palombari per paura di affrontare il mare. Un po’ paranoici e molto ipocondriaci per volontà del potere, vittime di un’ansia incapacitante che fa vivere nascosti, sospettosi, guardinghi. Paura di respirare come i portatori sani di mascherine, trepidanti in attesa di pericoli da cui ci ritraiamo, nascosti – struzzi con la testa sotto la sabbia – per schivare conseguenze che arriveranno comunque e ci troveranno smarriti. Esattamente così ci vuole un potere simile all’ omino di burro di Pinocchio, che trasformava i bambini in asinelli per portarli a Mangiafuoco, non nell’immaginario paese dei balocchi. Ogni allerta, giustificata o meno, è un pizzico di timore in più, un nuovo tremore da scacciare sotto l’ala rassicurante dei tecnici, degli esperti, dei superiori.
Che faremo in caso di guerra, Dio non voglia? Come affrontiamo le vere emergenze della vita, dal lavoro alla precarizzazione, dalla malattia alla Grande Rimossa, la morte che attende in fondo al cammino ? Non sarà la paura, non sarà l’allerta a salvarci. Il padre Dante colse meglio di ogni altro il senso umano della vita, facendo dire a Ulisse che iniziava nonostante i rischi il suo viaggio (“l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto”) “ma misi me per l’alto mare aperto. “ Sconsigliato: allerta meteo. E se fa caldo, controra da mezzogiorno alle diciotto.
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