Leggo sul Corriere della Sera del 23 gennaio, la recensione di Aldo Cazzullo del libro di Pierluigi Battista dal titolo: “Mio padre era fascista”.
Questo incipit per il sensibile Cazzullo è come “un pugno nello stomaco” perché illumina crudamente la “doppiezza” di quella figura paterna che il figlio Pierluigi così descrive: “Mio padre erano due. C’era mio padre integrato. E c’era quello apocalittico. C’era il borghese tranquillo che osservava con orgoglio una sua rigorosa etica del lavoro. E c’era il fascista sconfitto e piagato che rimuginava senza sosta, nel suo foro interiore, risentimento e rabbia. C’era il conservatore e c’era il ribelle. C’era il professionista di successo, l’avvocato stimato nel mondo forense, che esibiva con fierezza la sua casa arredata con gusto tradizionale, la sua famiglia numerosa, i simboli del benessere. E c’era l’uomo intimamente devastato da una storia che lo aveva condannato, tormentato da un dolore indicibile, schiacciato da un’ombra pesante, mangiato dentro da un’ossessione che non lo abbandonava mai. C’era l’italiano solare, socievole, spiritoso, con un senso dell’umorismo che mi piace ricordare ancora arguto e sottile. E c’era un uomo, mio padre, divorato dal suo lato notturno, esacerbato, cupo, talvolta lugubre.”.
Non leggerò il libro di Battista. Francamente me ne frego dei turbamenti e dei rimpianti di Pierluigi tanto quanto delle sue gioie o delle sue riconciliazioni postume con la memoria del padre. Anzi, confesso che queste sue personali emozioni, insieme al compassionevole e patetico panegirico che ne fa Cazzullo, mi indispongono.
Anche mio padre, nato negli anni ’20 e cresciuto sotto il Fascismo era rimasto legato a quell’idea, a quella concezione di una società operosa e frugale, ordinata, asciutta, essenziale. Era l’idea di un fascismo assimilato con l’educazione e gli studi e che gli ricordava gli anni della giovinezza. Tanti, come lui, restarono legati a quell’esperienza, a quella stagione nella quale s’erano formati.
Io, invece, diventai fascista nonostante la stagione della mia giovinezza fosse percorsa da un antifascismo grottesco e di seconda mano e diventai fascista con rabbia e convinzione, oltrepassando di molto mio padre in oltranzismo politico.
Per questo, anch’io ho vissuto le esperienze descritte da Battista, ma senza lacerazioni famigliari, anzi sempre amando e rispettando mio padre, leggendo lo sgomento e il disappunto nei suoi occhi, ma anche vivendo intimamente il travaglio e la rabbia rispetto alla realtà ostile e aliena che ci circondava.
Quella lacerazione tra l’essere cittadini di un Paese che ci rinnegava, tra il nostro agire nel quotidiano, il lavoro e la famiglia e il nostro impegno civile e politico era un tormento che ha accompagnato tutti i nostri anni dal ’69 in poi.
A differenza di Battista, infatti, io non avevo scelto la parte a lui opposta, non militavo contro mio padre né mi vergognavo del suo passato. Non solo perché non ci si vergogna mai dei propri padri, dei loro limiti, dei loro errori e della loro povertà, ma anche perché non avevo nulla di cui vergognarmi.
Mio padre non aveva mai ucciso, picchiato e minacciato nessuno. Non aveva mai impedito a qualcuno di esprimere le sue idee. Non aveva mai rubato, corrotto e truffato nessuno. Ma soprattutto non s’era mai venduto, non aveva mai rinnegato e nutriva le stesse idee che aveva da ragazzo. Senza covare propositi di rivincita, ma senza pentirsi di nulla e si dichiarava di destra senza rancori.
La mia generazione aveva letto di quei “giorni terribili seguiti alla guerra civile” di quelle “scene da girone dantesco: i prigionieri di Salò in catene che sfilano tra due ali di folla che li insulta, li minaccia, rifiuta loro un sorso d’acqua, sputa, tira sassi. E poi la prigionia a Coltano, il compagno falciato dai mitra dei vincitori solo per essersi avvicinato ai reticolati, Ezra Pound nella «gabbia del gorilla»” e ne aveva ricavato tutta l’avversione possibile verso quella mattanza chiamata pomposamente “Liberazione” e i suoi artefici patibolari.
A noi sono toccati i loro epigoni, una schiatta di nuove leve dell’assassinio, senza neppure l’alibi dei loro padri che avevano conosciuto la guerra. No, questi erano cresciuti nella bambagia, erano i figli del boom economico e molti di loro come Battista provenivano da famiglie agiate. Ma erano già marci dentro, inquinati dalle infezioni provenienti d’oltre oceano che qui avevano ulteriormente contaminato coi veleni del comunismo e della farsa resistenziale.
Era la generazione dei Mughini, Cerami, Mazzantini, Sofri, Ferrara, Capanna, Liguori, Ardito, Strada, Toscani e tantissimi altri, troppi per poterli elencare in una pagina. La generazione che tornava a casa rauca dal corteo in cui aveva urlato “Lollo libero” e ignorava le carte del processo, da cui si deduceva con chiarezza che Lollo e gli altri compagni erano responsabili del rogo di Primavalle. Mentre “…i padri della patria antifascista non erano turbati da nessuna scossa, da nessun soprassalto emotivo, da nessun senso di sconfinata ingiustizia per la morte atroce di un bambino bruciato vivo, solo perché era figlio di un fascista.”
Passati quegli anni, costoro si sono integrati nel sistema che avevano finto di combattere, ma molti non hanno rinunciato alla loro pratica di odio e di settarismo. Sono tutti quelli per i quali “uccidere un fascista non era reato” e lo hanno messo in pratica vigliaccamente ma, senza fare i conti con quel passato, oggi chiedono sanzioni e pretendono divieti per le commemorazioni di vittime innocenti come Sergio Ramelli.
Questa generazione di malnati e malvissuti mi indigna, mi fanno ribrezzo le loro storie, disprezzo tutto di loro, anche i loro ripensamenti.
E leggendo quanto Cazzullo scrive: “E alla fine anche chi non ha alcuna accondiscendenza per il fascismo nelle sue varie forme — il regime, Salò, la nostalgia — finisce per provare simpatia per questo padre pieno di humour e di amore frustrato per l’Italia e per i propri figli.”, ho pensato che io, invece, per quei figli e per tutti i loro compagni non proverò mai simpatia né comprensione.
Alle spalle di quella generazione ci sono troppe sigle criminali, troppa violenza gratuita, troppa vigliaccheria atavica, c’è una mitologia fasulla confezionata da migliaia di voltagabbana, ci sono fatti di sangue e vergogne che non si possono dimenticare.
E se a Fiuggi, Battista, osservando la fine del mondo del padre e dei “decenni della marginalità voluta come simbolo di fedeltà a se stesso”, finalmente ha trovato sfogo al suo senso di colpa, al rimpianto per non aver siglato in vita la riconciliazione col padre fascista, io trovo invece una ragione in più per maledire anche quella classe politica che, confondendo miserabili farse con tragiche grandezze, ha tradito e svilito la storia di un’intera comunità, di chi la fece e di chi la patì.