Di Mario M. Merlino
E’ il 4 gennaio 1960, una mattina fredda e nebbiosa, il conducente perde il controllo del volante – o è l’auto che non risponde più ai comandi? – e si schianta contro un albero. A cento chilometri da Parigi, su un rettilineo. Muore l’editore Michel Gallimard e lo scrittore e filosofo Albert Camus. Un tragico e banale incidente, l’asfalto umido, un colpo di sonno dopo una cena troppo prolungata, la visuale scarsa e alta la velocità si affretterà a sostenere la polizia e la notizia sarà ripresa da tutti i giornali. Acriticamente. Perché indagare avrebbe potuto portare lontano e rendere scomodo il ruolo degli intellettuali sempre così prossimi e proni ai dettami dell’Unione Sovietica. Jean-Paul Sartre che, dopo aver collaborato con lui alla rivista Combat, l’aveva accantonato quale artista classico(!) e rifiutato nel ruolo di filosofo esistenzialista. Sul palcoscenico può esserci solo una prima donna…
Della morte di Camus, del lato oscuro ignorato tenuto in ombra, un’ ipotesi certamente ma trascurata comunque, si torna a parlare tramite il poeta ceco e traduttore, Jan Zàbrana, perseguitato lui e la sua famiglia da quando, nel 1948, vi fu il colpo di stato comunista a Praga. Imprigionati i genitori, i beni confiscati, impossibilitato ad accedere agli studi universitari. Autore delle migliori traduzioni di scrittori europei e americani, nel 2009, in Italia, viene pubblicata con il titolo Tutta una vita l’antologia tratta dal diario da lui tenuto negli anni ’70-’84, cioè dopo la breve parentesi della primavera di Praga e l’anno della sua morte.
Sulla base di una sua annotazione ecco che Giovanni Catelli si adopera a cercare la conferma di come sia morto e perché Albert Camus. Ne esce un libro-denuncia, edito di recente, Camus deve morire(Nutrimenti editore), dove si accusa esplicitamente il KGB di aver manomesso il funzionamento dell’automobile per eliminare, senza suscitare polemiche eco e sospetti, lo scrittore in quanto inviso soprattutto al potente ministro degli esteri Dimitri Shepilov. Un Camus che s’era scagliato, sfruttando nel 1957 a Stoccolma la vetrina internazionale del Premio Nobel, contro l’invasione sovietica dell’anno precedente in Ungheria e per essersi adoperato affinché il medesimo premio venisse assegnato a Boris Pasternak, altro intollerabile motivo per le autorità sovietiche.
(Intorno alla vicenda della morte-omicidio dello scrittore e della continua e costante persecuzione nei confronti di Zàbrana l’autore si sforza di ricreare il clima tetro e grigio di questa cappa mefitica che fu l’Unione Sovietica, il comunismo verso gli intellettuali il dissenso l’opposizione. Ne esce un quadro tristissimo e miserrimo. Il romeno Vintilia Horia, ad esempio, vinse il prestigioso premio francese Goncourt per il libro Dio è nato in esilio. Premio a cui dovette rinunciare dopo che una campagna di stampa, orchestrata dai servizi segreti di Ceaucescu, lo aveva indicato al pubblico ludibrio quale ‘nemico del popolo’ (sebbene nel 1944-’45 i tedeschi lo avessero internato in Germania) per il suo rifiuto di rientrare nella terra d’origine e fare atto d’omaggio al comunismo. E gli ospedali psichiatrici divennero il luogo d’accoglienza per ‘una nuova malattia mentale’, la dissidenza in Russia mentre, nell’Europa ‘libera’, la sorte di tutti coloro che si facevano critici dell’Unione Sovietica e delle sue posizioni era l’ostracismo più becero e severo. Quando Gualtiero Jacopetti e Giorgio Prosperi realizzarono il documentario Africa addio!, sgradito alla sinistra, praticamente non riuscirono più a lavorare…).
Era mia intenzione scrivere qualcosa intorno alle opere di Albert Camus sia i romanzi – La peste, Lo straniero, La caduta – sia i saggi – Il mito di Sisifo e L’uomo in rivolta –, libri che hanno accompagnato la mia prima giovinezza insieme a quelli della mia formazione più prettamente politica (in effetti dovrei cancellare questa frase perché autori quali, ad esempio, Drieu la Rochelle Robert Brasillach Louis-Ferdinand Céline, per restare nell’ambito della cultura francese, sono a tutto tondo capaci di darti un senso compiuto alla tua esistenza!). Forse lo farò in altra circostanza (le notti sono lunghe da passare per chi le trascorre senza esser capace di contare le pecore per ritrovare il sonno – io sono una ‘pecora nera’ – ed Ereticamente conosce la virtù della sopportazione!).
Volevo scrivere qualcosa su Camus tornandomi a mente una espressione, credo sia proprio quella di conclusione, da Il mito di Sisifo (sono troppo pigro e troppi sono i libri per verificare l’esattezza o meno). E mi è tornata a mente osservando, tra il distante e il coinvolto, il mondo che mi circonda. ‘Ci sono degli italiani che ancora non si arrendono’ o qualcosa del genere è apparso su striscioni e dietro lo sventolio del tricolore…Beh, le dinamiche del presente hanno un carattere edulcorato e, al contempo, sono certo più perverse e raffinate, ma l’insegnamento, il suo disvelare l’assurdo che ci circonda e di cui la nostra vita fa parte, può essere ancora di conforto. L’azione sola spezza le catene ma essere consapevoli di esse ci invita a liberarcene… Ed ecco la citazione: ‘Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice’. Per chi ha amato la montagna, il faticoso salire, il dirsi ancora un passo fin verso quell’albero quello spuntone un cespuglio di rovi, questa felicità è ben nota, anche se ormai solo nel ricordo. Ed è una intima felicità che ti accompagna nel quotidiano esperire, negli anni trascorsi e per i mesi a venire… simile alla tua libertà simboleggiata da Enea in fuga da Troia in fiamme, portando sulle spalle il vecchio padre Anchise – il passato che non t’abbandona e non puoi e non vuoi ripudiare – e tenendo per mano il figlioletto, quel futuro che, comunque e nonostante tutto, sono gli ideali che ti mantengono giovane e i sogni che ti preservano dal servaggio…
E, dunque, immaginiamoci Sisifo che sorride sotto la fronte imperlata di sudore e mentre arranca con il fiato mozzo su, verso la cima, e sulle spalle il gravoso macigno. Sale, passo dopo p
asso, i muscoli delle gambe tesi e le braccia a far sì che la dura pietra, l’infame eterno destino, non cada prima del tempo. E, già, perché egli è consapevole della condanna inflitta dagli dei e, raramente, gli dei perdonano (Sofocle li renderà ‘umani’ solo dopo che Edipo, affranto e disperato, si sarà accecato. Con Sofocle, almeno in questa Edipo a Colono, inizia quel travolgimento – Euripide lo porterà a compimento – del senso tragico dell’esistenza portandovi la razionalità consolatoria, giustificatrice, fondamentalmente menzognera). Giungere infine in vetta e qui assistere al rotolio del peso a valle ed esser costretto a riprendere la via del ritorno per quel re-inizio senza fine…
asso, i muscoli delle gambe tesi e le braccia a far sì che la dura pietra, l’infame eterno destino, non cada prima del tempo. E, già, perché egli è consapevole della condanna inflitta dagli dei e, raramente, gli dei perdonano (Sofocle li renderà ‘umani’ solo dopo che Edipo, affranto e disperato, si sarà accecato. Con Sofocle, almeno in questa Edipo a Colono, inizia quel travolgimento – Euripide lo porterà a compimento – del senso tragico dell’esistenza portandovi la razionalità consolatoria, giustificatrice, fondamentalmente menzognera). Giungere infine in vetta e qui assistere al rotolio del peso a valle ed esser costretto a riprendere la via del ritorno per quel re-inizio senza fine…
(Credo, seguendo Borges nella biblioteca di Babele, che Albert Camus abbia inteso cosa voglia dire Nietzsche quando ci propone l’amor fati – solo a chi ha la misura della propria esistenza quale dramma è dato trovare le forze per restare in piedi fra le rovine. Notte tra il cinque febbraio e alba del giorno successivo: ‘Ma mi sono sforzato il più possibile di accettare’, saranno le estreme parole vergate con il pennino, infilato nel beccuccio della pipa, da Robert Brasillach, il poeta, prima d’essere condotto al palo dei condannati a morte… egli, però, muore una volta sola senza prendersi carico dell’eterno ritorno dell’uguale… E mi sorge domanda inevasa: non c’è nell’ardito pensiero di Nietzsche qualcosa di malsano, della cristiana pietas – che non va confusa con quella originaria del mondo classico –, una sorta di pacca sulla spalla? L’intensità unica del dolore quanto è, nel suo irrompere improvviso e imprevisto, maggiormente ‘devastante’ rispetto alla sofferenza reiterata. Ripetere è in sé abitudine e l’abitudine uccide nel bene e nel male ogni passione. Il borgomastro Guglielmo ne è il simbolo, secondo Kierkegaard, in quella fase etica che si esaurisce in conformismo. A maggior ragione se si rende imperitura).
Sisifo, dunque, sorride – la sua felicità interiore è sfida agli dei. Eppure viene da chiedersi se si trasforma in ghigno – e questa è la sua vendetta. Perché, se è vero, come si esprime il pensatore cinese Lao-Tse, da cui il titolo dell’ ultima opera di Drieu la Rochelle, che ‘il cielo e la terra non sono umani o benevoli alla maniera degli uomini; essi giudicano tutti gli esseri come se fossero cani di paglia serviti per i sacrifici’. Gli uomini a strumento inconsapevole della divinità o del fato (Hegel, da moderno, affida il compito a ciò che definisce ‘astuzia della ragione’). E la divinità e il fato, però, cosa sarebbero senza l’oggetto del sacrificio? Un cielo vuoto, fredde le stelle, muta la terra e aride le zolle. Solo il vento agiterebbe i rami nodosi del frassino e della quercia, l’onda del mare, spinta da correnti sconosciute, andrebbe a infrangersi contro la roccia senza scopo; il fuoco arderebbe tra ciocchi e foglie secche…
Sisifo sorride perché, ormai, s’è fatto consapevole che la libertà è il premio del suo errare, non una colpa la sua semmai, avverte, è una condizione; che senza di lui il regno degli dei affogherebbe nella impotenza nella noia nella tristezza – e questa è la sua sfida. E il suo ghigno è l’immagine di come, nonostante ciò, o con voi o senza di voi, io sono colui che può rendere la propria sofferenza nobile destino…