Per troppo tempo si è sostenuto che nel Novecento, in particolare nella sua prima metà, l’Italia è stata, dal punto di vista culturale, una provincia di secondo piano, nel panorama europeo. In tale posizione marginale essa sarebbe stata costretta, stando a tale vulgata storiografica, dall’egemonia esercitata nel nostro paese dal neohegelismo gentiliano. Questa tesi non è più sostenibile, almeno a partire dagli anni Ottanta: allora furono resi pubblici gli scritti di Andrea Emo, pensatore appartato, radicale ed aristocratico, che sviluppò il proprio iter speculativo muovendo dall’attualismo, corrente di pensiero che, peraltro, toccò snodi teoretici, che la filosofia europea avrebbe incontrato più tardi. Da allora, sono comparsi nelle librerie diversi volumi emiani, grazie al meritorio lavoro di Massimo Donà, Romano Gasparotti e Raffaella Toffolo, curatori dell’opera omnia del filosofo veneto. Usciamo, ristorati, dalla lettura della loro ultima curatela, In principio era l’immagine, edito dalla Bompiani, il volume raccoglie gli scritti del pensatore dedicati all’estetica (pp. 540, euro 15,00).
Emo ebbe la ventura di ascoltare a Roma le lezioni di Giovanni Gentile. Nello stesso periodo (1917-1918) iniziò l’esperienza del suo pensare scrivendo, cui si dedicò per l’intera esistenza, annotando il fluire dei suoi pensieri su quaderni per computisteria. In vita non volle pubblicare nulla, in quanto, come ricorda opportunamente Gasparotti nel contestualizzante saggio introduttivo, il pensatore: «Socraticamente […] è sempre stato fermamente convinto che il fare del pensare è un pragma, il quale, per la sua intima natura, non può essere reso pubblico» (p. 13). La scrittura, per definizione, conserva e pubblicizza la dimensione semantica del pensare, sottraendolo in tal modo all’assoluta autonegazione che investe, nella prospettiva di Emo, la natura di ogni accadimento. Ricorda, tra le altre cose, Gasparotti, che la filosofia emiana, in quanto pensiero dell’origine, incontra il medesimo problema che Merleau-Ponty rintracciò lungo il percorso teorico nel quale si era immesso: il filosofo autentico, indubitabilmente, cerca l’incontro con l’arché, ma prende coscienza che il mezzo con il quale si tende ad essa, il linguaggio, si trasforma in diaframma che allontana dal principio. E’ quanto comprese Tommaso d’Aquino, ideatore delle prove a posteriori per dimostrare l’esistenza di Dio. Questi, conversando, alla fine dei suoi giorni, con il discepolo Reginaldo, sostenne che, nel momento in cui pensava di essere pervenuto alla definizione di Dio, questa certezza svaniva nel nulla, si mostrava, ai suoi occhi, fuoco di paglia.
Emo tentò di uscire da tale impasse gnoseologica, avendo intuito, assieme a pochi altri, tra essi Julius Evola, che tale scacco è prodotto: «dalla considerazione astratta ed unilaterale del logos quale espressione […] della vox significativa» (pp. 15-16). Tale limite viene amplificato nella scrittura che crea, rispetto al reale, al dato, un doppio processo di separazione, sommando alla voce, il segno alfabetico. Emo ed Evola ebbero contezza che neppure l’idealismo attuale aveva superato la dicotomia soggetto-oggetto, essendo giunto ad assumere la prassi quale contenuto di una nuova teoria. L’impotenza dell’io: «dipende dal fatto che la tradizione di pensiero logico-idealistica presuppone […] la separazione dell’essenza dall’esistenza» (18). Si tratta di sottrarre l’esperienza filosofica all’egemonia del concetto, al fine di riscoprirne la valenza originaria, essenzialmente museale. La filosofia è prassi poietica che asseconda la metamorfosi della vita, in quanto, dice Emo, in principio era l’immagine. Le immagini non sono determinatezze, agiscono ritmicamente: in esse decade, come riconobbe in modo lungimirante Ludwig Klages: «Il principio onto-logico dell’identità/differenza» (p. 26). In questo spazio la filosofia può davvero realizzarsi come arte e l’arte: «rivela la sua intima natura musicale» (p.27). La filosofia emiana è registrativa del non pre-vedibile e delle irregolarità della stessa natura, esposta com’è sulla presenza, sul luogo di ogni manifestarsi.
Dagli eventi non trae la staticizzazione concettuale, non si sofferma, avrebbe chiosato Bergson, sulla fissità del bozzolo della crisalide, ma sul volo della farfalla. Gli aforismi emiani di questa bellissima raccolta conversano con le parole della filosofia, con i suoni della musica, con le strutture architettoniche, con le scene teatrali, la pittura e la scultura, e perfino con la fotografia ed il cinema. L’arte per Emo, ricorda Donà, ri-vela, nel suo farsi, il mistero di ogni esistenza, in quanto l’artista trasfigura l’essente: «dicendo, di ognuna delle cose da lui rappresentate, che è sempre altra da quel che è» (p. 39). Il vero, insomma, si dà soltanto come indeterminabile alterità, come nulla-di- positivo in cui, sostiene Emo in modo ancor più radicale della teologia negativa plotiniana, ogni cosa consiste. Per questo l’artista può utilizzare qualsiasi forma espressiva, ma l’oggetto della rappresentazione deve essere il vero: «vale a dire ciò che il mondo in ogni caso è» (p. 41). Per Emo: «Ogni immagine è immagine del nulla. E in questo senso l’immagine è ontologica» (p. 151). L’affermazione apodittica spiega il recupero emiano del cristianesimo tragico e negativo che, come commenta Donà, ha al proprio centro un’idea paradossale della morte, che non salva in vista di una possibile resurrezione, ma attraverso l’annichilimento. Si salva solo chi non ha intenzione di salvarsi, chi asseconda il flusso della negazione originaria che ci costituisce, esattamente come nelle corde dei creatori. La parola poetica è, per il filosofo patavino-veneziano, essenziale: trascrizione dell’eterna fugacità che ci costituisce, in quanto manifestazione dell’attualità del nulla.
Emo presenta, in queste pagine, i tratti connotanti le diverse epoche dell’arte. Nel mondo classico vi fu un’adesione piena dell’immagine con il senso morale, successivamente l’arte si è affidata alle pulsioni inconsce, alla libertà del fantasticare, alla gratuita volontà soggettiva. Ciò produsse la scissione di temporalità ed eternità e, dopo le algide geometrie della Rinascenza, la scoperta dell’infinito bruniano, aprì l’idea di spazio alle incursioni dell’ignoto: «L’arte è la resurrezione dell’infinito nelle forme dell’individuo» (p. 143). Riemerse, infine, la nostalgia romantica dell’Unità e l’arte iniziò a confrontarsi con lo smisurato. In tale iter storico emergono dei medaglioni di grande incisività e suggestione, come quelli dedicati a Dante, Rembrandt, Caravaggio. Ha, quindi, colto nel segno Gasparotti, nel suggerire al lettore, di abbandonarsi alle pagine di Emo, di immergersi nel loro ritmo, di obliare la loro dimensione meramente contenutistica. Un lettore siffatto potrà incontrare l’ingannevole bellezza prodotta da un poietes d’eccellenza, la medesima di cui è stata latrice l’arte in ogni epoca.
Giovanni Sessa