10 Ottobre 2024
Punte di Freccia Solstizio

Aneddoti e misteri in giorni di un lontano dicembre – Mario Michele Merlino

Mio padre aveva il posto a capotavola, due delle mie sorelle ad un lato, l’altra ed io dall’altro. Mia madre sedeva in fondo là dove si apriva la porta per la cucina. La prima ad alzarsi, l’ultima a sedersi. Accanto al piatto ognuno di noi riconosceva il portatovagliolo di un bel colore fiammante (l’uso di quelli di carta e, poi, dei piatti in plastica tardò a venire, come segni di rigetto del consumismo e di quanto ‘puzzasse’ di americanismo, ivi compresa la televisione). Era un rito consolidato sicuro stabile. Primo ad essere servito mio padre, in successione noi figli. Non c’era, in verità, nessuna regola scritta risalente al tempo arcaico di quel mondo contadino, quando gli uomini si sedevano a tavola tenendosi il cappello, come il re con la corona, per riaffermare d’essere essi i ‘domini’. Confesso che entrambi, i miei genitori, furono comunque in anticipo coi tempi come consentire alle mie sorelle di poter viaggiare anche all’estero. Mio padre, un sedentario che conosceva il mondo e ogni paese il più lontano tramite la geografia dei libri, per ciò che non era stato e avrebbe voluto essere (credo), mia madre, che aveva, in nome della famiglia, rinunciato al suo spirito ardito (a ventidue anni se n’era andata in Francia ad insegnare nelle scuole del Fascismo all’estero, dopo aver trascorso l’infanzia e l’adolescenza in collegio), per riversarne sui figli (credo). Amavano, però, senza spocchia, le ‘sane’ abitudini di cui pranzo e cena erano componente essenziale. Il ‘decoro’ che noi s’irrideva ed oggi, forse, si rimpiange…

Mio padre era un grande affabulatore, lettore vorace e di memoria granitica (sarebbe stato, di sicuro, un professore di valore e amato dai suoi allievi, se non si fosse immerso in studi giuridici), in ufficio affettuosamente soprannominato ‘Treccani’. Un sapere enciclopedico, soprattutto di carattere storico (avendo studiato al prestigioso, allora, liceo Tasso aveva tratto dagli studi umanistici quella linfa vitale che – ad esempio, secondo la riforma di Giovanni Gentile – avrebbe dovuto forgiare la futura classe dirigente). E questo sapere lo riversava a noi figli, anche durante i pasti (suppongo per piacere personale per educarci e, nei primi tempi, per compensare il piatto scarso negli anni successivi la guerra. Non la miseria, ma modeste condizioni e un sobrio intento di vita). Quel valore dell’esistenza che era in procinto d’essere spazzato via dal nuovo modello ‘lavora produci consuma’ di cui, in qualche misura, siamo ormai tutti vittime e carnefici. Così, fin da bambini, con un linguaggio piano e adatto, ci introduceva nel mondo ampio e lontano ove nascevano le antiche civiltà Roma il Medio Evo il Risorgimento, a lui particolarmente caro, la Grande Guerra, che aveva vissuto da bambino attraverso i bollettini di guerra, trasmessi dalla radio, e da mio nonno, interventista sabaudo. Qui si fermava per non imporre – a suo dire – scelte e valutazioni su uomini e vicende troppo prossimi. Gli piaceva arricchire il raccontare, simile a fiaba e romanzo e quadro in movimento, con tutta una serie di aneddoti. Confesso che di molti mi sono servito nelle mie lezioni a scuola. Una storia di uomini, con eroismo o debolezze comprese. E mi rendo conto d’esserne stato forgiato. L’aderire, a sedici anni, ad un tempo eroico di uomini in piedi fra le rovine, sognatori e costruttori, illusi forse, ma sempre carne ossa e sangue di un ideale ‘di credenti e combattenti’. Perdenti e pur vincitori. Di uno di questi aneddoti, oggi, intendo qui riportarne il contenuto. Raccontava, dunque, mio padre come, durante una seduta del Parlamento del Regno d’Italia, il deputato radicale Felice Cavallotti (celebre avvocato grande oratore estroso nel vestire e nei modi duellante imperterrito tanto da essere ucciso al trentatreesimo, mi pare, duello con la sciabola) si rivolgesse a Giovanni Giolitti, Presidente del Consiglio, rimproverandogli come i suoi interventi fossero scarni, privi di passione, un elenco di cifre e di dati, mai un tono acceso coinvolto e coinvolgente. E Giolitti, senza neppure alzare il capo e guardarlo in faccia: ‘Io quando non ho nulla da dire taccio…’.

Adriano Romualdi

M’è tornato a mente di recente. Nell’anniversario del 12 dicembre, data della strage di Piazza Fontana. Quarantotto anni sono trascorsi da quel venerdì quando, alle otto di sera, tre agenti dell’Ufficio Politico suonano alla porta di casa e, con il pretesto di dover essere sottoposto ad un confronto, mi impongono seguirli in questura. Mentre mio padre, accesa la televisione (comprata pochi mesi prima su insistenza di mia madre, convinta così di trattenermi a sera in casa) mi annuncia di una bomba esplosa a Milano e mia madre di tenermi in caldo la minestra. Ne ho scritto, poche righe, sul mio profilo fb. E, di prassi, ho raccolto alcune centinaia tra commenti condivisioni ‘mi piace’ reazioni fra coloro che mi seguono e di cui, in gran parte, ignoro tutto o quasi. Questa è la realtà virtuale, di un mondo che mi appare, anche fuori da schermo e tastiera, ormai virtuale (senza scomodare figure quali Platone o Shakespeare)… Non ne traggo riflessioni filosofiche (da circa dieci anni sono in pensione), non di certo morali (ho superato le icone del sacro e l’estetico non mi offre salvezza), non esistenziali (le mie fondamenta sono riposte sul nulla, per dirla con gli amici Stirner e Nietzsche), ne traggo solo il modo per trascorrere lunghi e pigri e noiosi pomeriggi onde evitare come la cappa grigia del tempo s’irradi fino a penetrare nella mente confusa e nel cuore stanco. Ahahah… mi dico d’essere irriverente e strafottente, ma prendete sempre con cautela la veridicità delle mie affermazioni! Fra i commenti qualcuno – non ho annotato il nome – ha espresso il suo ‘dispiacere’ perché poco o nulla ho parlato della vicenda, se non per episodi minuti e mai dando una mia chiave d’interpretazione. La storia tramite particolari, mio padre; l’aneddoto intorno a Felice Cavallotti, nello specifico. Furono anni, quelli che si snodarono da Piazza Fontana, che s’accompagnarono, nella ferocia e nell’odio dell’uno contro l’altro armati, con il sospetto le ombre l’inquietudine di trame e di teoremi i ‘grandi vecchi’ i servizi segreti, deviati, le inquisizioni i linciaggi fiumi di parole montagne di cartapesta liste di proscrizione. E solo il sangue versato le sbarre e i chiavistelli la latitanza sembrarono essere cifra e misura. Nietzsche invita a prendere le distanze – e si potrebbe citare il ‘cavalcare la tigre’ o il ‘lasciare la presa’ della tradizione orientale; Giolitti a tacere se non a parlare solo sul concreto… Ed io, per sopravvivere, ‘faccia al sole e in culo al mondo!’.

Non è una risposta, lo so. Non me ne compiaccio, non me ne dolgo. Il domandare, già, del pensiero contro il dare risposta, preda del contingente dell’utile dell’inganno. Quando vennero a prendermi e, poi, nei giorni successivi, ero convinto – ingenuo, illuso – che sarei stato rilasciato entro pochi giorni. Nonostante che mi avessero trasferito dalla Questura al carcere di Regina Coeli, in cella d’isolamento. Qui, il 21 dicembre, mi venne consegnato il mandato di cattura dal capitano dei carabinieri Varisco, profugo dalmata e ucciso anni dopo dalle Brigate Rosse. Una vicenda che si è trascinata, per quanto mi riguarda, fino al gennaio del 1987 quando la Cassazione ha posto fine al balletto dei processi. Roma Milano Catanzaro Bari. Fine, va da sé, solo d’ordine giudiziario, perché altro è vivere la ‘propria’ storia ed essere segnato (a dito, anche, e le scritte sui muri e gli slogan durante i cortei dei ‘rossi’ e il bisbiglio fra colleghi e il loro disprezzo – ricambiato – altra la misura del tempo e dei giorni la ricerca di volti parole occasioni perdute). Basta; ‘uno schianto non una lagna’… Ecco: taccio perché, nel mio universo tolemaico, entra soltanto ‘la torre del nostro orgoglio e della nostra disperazione’ mentre m’annoia e resta fuori ogni interpretazione che pretende essere alta nobile esaustiva grintosa intelligente ultima definitiva e che, al contrario, m’appare il ruggito del topo…

Taccio perché nulla ho da dire; taccio perché non m’interessa più quello che potrei o meno avere da dire; taccio perché è trattasi di consegna che mi sono dato (a me stesso per sopravvivere, costruendomi mura di silenzio e non per adeguarmi ad una sorta d’ordine omertoso). E con ciò potrei chiudere qui, ma no, ancora un ricordo…Adriano Romualdi mi fu amico, nonostante le strade si diversificassero con la scelta, che non condivideva, di essere componente riconosciuta legittima auspicata in quella mattina di anticipata primavera che fu il 1 marzo del ’68 a Valle Giulia. Fu Adriano ad educarci al solstizio d’inverno, quando i popoli arya, nella notte più lunga, accendevano roghi a forma di ruota e di svastica. E la lezione ci rimase segno indelebile, rinnovata – per la militanza più giovane – da Peppe Dimitri. I Monti Lepini, il fontanile, il cerchio magico, i canti, l’attesa dell’aurora, faccia al sole e braccio teso. Oggi nella mia stanza, popolata nonostante tutto di miti di eroi di visioni di volti amici di una comunità, dispersa, ma viva nella memoria… E quella cella d’isolamento, note del 21 dicembre ’69 (a ridosso, dunque, di quell’attesa di ‘renovatio’). Sono rivolto verso la parete, sporca e trasudante umidità, sul letto i fogli del mandato di cattura, l’orrore e l’ingiustizia e l’angoscia di non trovare le energie atte ad affrontare il rovinio, il corpo fragile che domina ogni sforzo di essere placato, il pianto come solo da bambino ero capace d’avvertire. E l’idea della morte, consolatrice… Di altra consolazione in quella notte eco di lontani miti di misteri d’evocazioni di richiami di presenze, forse, non posso dare nome alle emozioni ai sentimenti, non do nome a quanto in quella notte avvenne e di Lei il fruscio dei capelli sulla mia schiena l’odore della carne la forma dei piccoli seni e, in un italiano stentato, il rassicurarmi. Mi addormento, profondo quieto ristorato. Al risveglio so che, comunque vada, non mi vedranno vinto, non sarò mai un vinto. Ho rispettato la consegna?

Mario Michele Merlino

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