Ora, con il “progresso sociale”, l’uomo occidentale ha cominciato ad estendere questi fantomatici diritti naturali, dapprima – nei secoli del liberalismo – a tutti gli uomini, successivamente a uomini e donne, poi ad uomini di tutte le razze, secondo la tendenza livellatrice e tendenzialmente anti-gerarchica di tali asserzioni. Questi diritti non possono esistere, perché nessuno può garantirli veramente. Chi potrebbe infatti garantire un diritto alla felicità? Un diritto alla serenità? Un diritto ad avere figli? Sono condizioni che dipendono da fattori ben diversi rispetto ad una decisione legislativa o ad una dichiarazione di principio.
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Fabio Mazza
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Animalismo moderno, segno dei tempi
- by Ereticamente
- 8 Gennaio 2014
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- 11 anni ago
Di Fabio Mazza
Uno dei fenomeni attuali più significativi, quale segno dei tempi, è indubbiamente l’animalismo, inteso come la militanza per i “diritti” degli animali. Si va sempre più diffondendo una “sensibilità” per l’animale, normale portato della simpatia che esso ispira in linea di massima all’uomo attuale. Sensibilità che, partita da un sacrosanto riconoscimento dell’animale non più come mera res (come fu per almeno un certo periodo dei secoli industriali e come per molti versi è tuttora, nella civiltà che ne ha fatto oggetto di sfruttamento da catena di montaggio), ma come essere senziente, e quindi sensibile, si è trasformata gradatamente in qualcosa di affatto diverso.
In primis è d’uopo uno sguardo su un fenomeno affermatosi col primo liberalismo nel 1700, ma che trova antecedenti illustri nella visione del “diritto naturale” del 1600. Si cominciò, in quei tempi, a sostenere che l’essere umano avesse determinati diritti che gli sono connaturati dalla nascita e che sarebbero inalienabili e intangibili. In quell’epoca ci si riferiva soprattutto al diritto di proprietà e di libertà, binomio prediletto della rampante casta mercantile, o borghesia. Gradualmente a tale primigenio binomio si affiancarono altri “diritti fondamentali” che, a detta dei loro sostenitori, lo Stato doveva solamente riconoscere, in quanto preesistenti ad esso. Che all’epoca ci si riferisse solo ad una determinata classe, ad un dato sesso, ad una certa razza, poco importa, perché, come la storia insegna, una china è tale proprio perché porta al basso e, una volta imboccatala, non è certo facile risalirla. Da qui nei secoli successivi, passando attraverso “libertà, uguaglianza e fraternità” di francese memoria, e le prime costituzioni, tra cui quella americana che ebbe l’ardire di sancire un fantomatico ed improbabile “diritto alla felicità”, si è giunti, dopo gli sfaceli dell’ultima Guerra e il tracollo delle forze che avrebbero potuto imprimere diversa direzione alla Storia, alla proliferazione attuale dei diritti, alla ideologia diritto-cratica.
L’impulso è stato dato con le costituzioni moderne, tra cui quella italiana, che all’epoca si preoccupava di riconoscere alcuni diritti o libertà fondamentali, ma i cui compilatori, di certo, non immaginavano la deriva a cui il sentiero avrebbe portato. Si cominciò a parlare di diritti, di libertà personale, di corrispondenza, domiciliare; fino ad arrivare a sostenere che esista un diritto alla felicità, alla serenità d’animo, ad avere figli a tutti i costi e in qualunque situazione, a non invecchiare (o ad essere considerati diversamente giovani), ad amare chiunque o qualunque cosa ci passi per la mente; e magari un giorno si sosterrà un fantomatico diritto di non morire.
Infine è stata la volta degli animali. E con spirito tipicamente moderno e tipicamente occidentale, l’uomo attuale ha passato il segno dimenticando quella famosa “mezza misura” su cui tanto i greci quanto i latini hanno tanto insistito, sembra, inutilmente.
Si è arrivati cosi a delle vere e proprie degenerazioni per le quali, per molti autodefinitisi “animalisti”, l’animale è diventato più importante e più meritevole di considerazione dell’uomo, sulla base di un assunto intellettuale demenziale che suona più o meno cosi: “l’uomo è un essere abbietto e crudele, l’animale invece è buono e nobile e non fa del male, quindi è migliore dell’uomo”. Ora, che dietro a questo ragionamento si celi uno dei tanti “segni dei tempi” andremo presto a spiegarlo. Ci preme però prima fornire una breve disamina della visione e considerazione dell’animale che fu propria di quello che chiamiamo “mondo della Tradizione”, ovviamente in linea generale e approssimativa, sia per lo spazio concessoci, sia per la ragione fondamentale che molte furono le civiltà tradizionali, in secoli e latitudini diverse.
Per l’uomo della Tradizione l’universo era animato. Il Kosmos era pulsante, vivo: si era nell’ “innocenza del divenire”. Prima che mentalità economiciste e considerazioni basate sul mero profitto invadessero la mente e il cuore dell’uomo, specie europeo, e lo portassero alla pazzia (perché non in altro modo si può definire la malattia che gli ha ottenebrato il giudizio), non esistevano uomo e natura, ma esisteva l’uomo nella natura, l’uomo come parte di un tutto più grande. Ciò non si risolveva però in un panteismo spurio e in una sorta di animismo, come credono molti “professori” e accademici, bensì in una visione unitaria e organica, sì, ma anche gerarchica dell’esistente. Era normale quindi per l’uomo considerarsi un essere privilegiato, inferiore agli Dèi prima, a Dio poi (e ciò anche prima della rivelazione cristiana e della concezione della “creazione” come molti si ostinano a negare), ma superiore agli altri esseri. Basti far parlare Platone: «Ci fu un tempo in cui esistevano gli dei, ma non le stirpi mortali. Quando giunse anche per queste il momento fatale della nascita, gli dei le plasmarono nel cuore della terra, mescolando terra, fuoco e tutto ciò che si amalgama con terra e fuoco. Quando le stirpi mortali stavano per venire alla luce, gli dei ordinarono a Prometeo e a Epimeteo di dare con misura e distribuire in modo opportuno a ciascuno le facoltà naturali. Epimeteo chiese a Prometeo di poter fare da solo la distribuzione: “Dopo che avrò distribuito – disse – tu controllerai”. Così, persuaso Prometeo, iniziò a distribuire. Nella distribuzione, ad alcuni dava forza senza velocità, mentre donava velocità ai più deboli; alcuni forniva di armi, mentre per altri, privi di difese naturali, escogitava diversi espedienti per la sopravvivenza. In quel momento giunse Prometeo per controllare la distribuzione, e vide gli altri esseri viventi forniti di tutto il necessario, mentre l’uomo era nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi. Intanto era giunto il giorno fatale, in cui anche l’uomo doveva venire alla luce. Allora Prometeo, non sapendo quale mezzo di salvezza procurare all’uomo, rubò a Efesto e ad Atena la perizia tecnica, insieme al fuoco – infatti era impossibile per chiunque ottenerla o usarla senza fuoco – e li donò all’uomo» (Platone, Protagora).
Ciò, in una concezione sana e normale quale era quella di quelle Civiltà, non significava che l’animale andasse torturato e strumentalizzato (questo è anzi uno dei portati della modernità, con la sua concezione massificata e il suo considerare qualsiasi cosa, viva o inanimata, in termini di possibile guadagno e di utile), ma nemmeno consisteva nell’attribuirgli caratteristiche e sentimenti propri dell’uomo, o mancargli di rispetto a tal punto da trattarlo come un proprio pari. L’animale andava piuttosto trattato con riguardo, per il fatto che da lui dipendeva la vita e la salute dell’uomo stesso. Fa specie dover ricordare esempi lampanti come quella dei popoli solari delle Americhe, che vivevano in simbiosi e in rapporto strettissimo con il bisonte, animale sacro, incarnazione della divinità, ma che non di meno veniva ucciso per il sostentamento della comunità; o pensiamo alla venerazione tributata a determinati animali da parte di egizi, indiani e tutti i popoli del Nord tra cui gli stessi greci e romani, che non per nulla agli Dèi sacrificavano animali, cosa che per la concezione di quei popoli era tutto tranne che uno spregio, vista l’importanza fondamentale del rito. Nessuno di questi, a fronte di un animale innanzi a sé, lo vedeva come un tenero e dolce pelouche, ma lo considerava, appunto, per ciò che era, e vedeva indubbiamente la sacralità che emanava da esso. Da qui il ricorrere di divinità in forme animali, di teofanie del Divino e di associazioni a Deità dei vari animali presenti, a diverso titolo, in tutte le civiltà tradizionali. In ciò possiamo vedere come l’uomo antico non vedesse l’animale come mero essere vivente, e nemmeno con un buonismo sentimentalista assurdo e intimo sintomo di decadenza, ma come parte di un mondo pulsante e adombrante significati supermondani. L’animale, con le sue caratteristiche, i suoi istinti, i suoi ritmi, adombrava ritmi e significati cosmici.
Al contrario l’uomo moderno ha una visione sfaldata e sentimentale dell’animale, lo snatura profondamente, dimentico di qualsiasi significato superiore. Non sa, non può sapere, vista la sua visione materialista dell’esistenza, che in ogni animale di una determinata specie vive un Ente che comprende lo spirito e l’essenza di quell’essere. Secondo Massimo Scaligero (Tecniche della concentrazione interiore, pag.46, Edizioni Mediterranee, Roma) in ogni Leone della terra vive un Ente che è lo stesso dietro la Vita, le caratteristiche, le peculiarità e gli istinti di tutti i Leoni della terra. Conoscere davvero un animale significa entrare in contatto con questo Ente, che è la sua parte più autentica, quella, diremmo, libera dalla contingenza della forma, che vive anche senza la forma. Forma a cui invece si blocca l’uomo moderno, incapace di pensare altro che trascenda ciò che può essere pesato, contato e misurato. La visione organica di quei popoli poneva quindi l’animale sul giusto piano, lo rispettava con moderazione, con sobrietà ed equilibrio, che vedeva in esso una teofania e una concretizzazione di Enti e forze superterrestri, comprendendone probabilmente molto più di quanto qualsiasi moderno animalista possa mai comprendere.
Pensieri che indubbiamente possono risultare difficili a chi vive in una società consumista, abituato a considerare il bene e il male solo in termini di benessere materiale e di ciò che si può toccare con mano e che non ha mai dovuto procurarsi cibo, ma che può acquistare costosissimi prodotti in negozi specializzati e sentenziare con la puzza sotto il naso, di fantomatici diritti animali.
Tornando alla visione attuale dei molti animalisti, è giusto segnalare la presenza di alcuni gruppi e correnti sani che si riallacciano alle idee sopra esposte, e che non a caso provengono da determinate esperienze e visioni del mondo, che vogliono appunto sottrarre gli animali alla strumentalizzazione moderna tipica della mentalità economicistica e mercantilistica degli ultimi secoli. Solo in tale significato un certo “animalismo” potrebbe avere un suo senso e valore, nel ricondurre l’animale ad una dimensione sua propria, al suo giusto posto, considerandolo con rispetto e tutelandolo, ma senza inutili sentimentalismi, specie alimentari, cosa che gioverebbe anche all’essere umano che con lui si relaziona, che con lui vive, che con lui si sostenta.
Ma queste sono correnti minoritarie, perché la maggioranza degli animalisti segue in pieno la china attuale e si pone sulla falsariga delle molteplici rivendicazioni che, lungi dal condurre all’Alto e ad un’ elevazione, conducono invece in basso, nonostante non lo diano, a prima vista, a vedere.
Si è infatti passati dalle prime rivendicazioni in favore degli animali, fino ad un certo punto giuste e sacrosante a fronte di una società moderna che li strumentalizza come bestie da super produzione, togliendogli qualsiasi dignità, ad un ribaltamento delle prospettive per cui, in soggetti “figli dei tempi”, si è arrivati a porre prima la bestia dell’essere umano, sulla falsariga del ragionamento per cui gli animali sarebbero migliori del crudele uomo, come prima facevamo notare. Questo atteggiamento mentale, lungi dal denotare intelligenza e sensibilità, dimostra solo il livello sub-umano di questa “civiltà”, la mancanza totale di punti di riferimento, non anche spirituali e metafisici, ma proprio valoriali e di percezione della realtà. Infatti paragonare animali ed uomo è di per sé ridicolo, perché, udite udite, l’uomo non è un animale. Asserzione tanto banale quanto rivoluzionaria, oggi, che andrebbe insegnata nelle scuole e scolpita nella pietra.
Ciò è facilmente comprensibile. Sarebbe come paragonare uomo e pianta e decantare le meraviglie delle piante, perché più nobili e meno invasive per il mondo dell’essere umano. È un paragone assurdo che solo una mente disturbata come quella dell’uomo occidentale attuale può partorire, ma spiegabile se poniamo mente al fatto che da due secoli la superstizione darwinista ha convinto l’uomo che egli non è altro che uno dei tanti esseri che popolano il pianeta, un animale come tanti, una secrezione accidentale partorita dal “caso” (misteriosa entità che gli scientisti mettono sempre di mezzo quando non riescono a spiegare qualcosa). Se queste sono le premesse, è tanto più naturale che prima o poi si dovesse arrivare a pensare che animali e uomo non sono solo uguali ma, anzi, a ben pensarci, l’animale è migliore dell’uomo stesso: più puro, più istintuale, più libero, più tenero e “buono” (dimenticando che la natura animale non è né buona né cattiva, è semplicemente animale e istintuale, come qualsiasi documentario può confermare). Ciò,come molte altre correnti attuali di pensiero, sintomatiche di un modus interiore ormai diventato patologico, segna un’ ennesima caduta di livello, traccia un sentiero che, lungi dal condurre ad un’ elevazione, ad una miglior conoscenza dell’animale e tramite essa del Cosmo e dell’uomo stesso, porta invece ad una involuzione, ad uno scivolamento verso la materia, verso l’animalesco, l’istintuale e il sub-personale, ad un’ abdicazione al livello prettamente umano, scambiata invece per conquista di libertà e di spontaneità.
Perciò nulla quaestio per i sostenitori di questa visione nell’insultare e minacciare di morte chiunque provi a ricordare che sì, va bene, è giusto evitare la crudeltà verso gli animali, ma se mangio una bistecca non sono un essere crudele; se uccido un animale per cibarmene e non per mero divertimento, non sono un assassino. Secoli e secoli di rapporto con gli animali più sano di quello attuale, perché basati sulla comprensione della vera natura degli stessi, vengono considerati barbarici e bui mentre il verbo neo-illuminista dell’animalista-vegetariano (che guarda caso viene di norma da aree politiche da sempre convinte di essere detentrici della verità, del bene e della giustizia) sarebbe destinato a “liberare” l’animale. Magari, facciamo notare noi, “liberarlo” come è stata “liberata” la donna, e tutte le razze e gli uomini del mondo, che ora possono fruire dei suoi “meravigliosi” frutti. Tutto ciò si pone sulla falsariga di una sistematica, scientifica e mirata strategia, volta a far perdere all’uomo il senso di sé e ad abbassarlo, a sporcarlo e a renderlo inconscio della sua vera essenza e del suo ruolo sulla terra.
Per queste persone è inconcepibile quel senso della distanza,della differenza,della ontologica diversità tra uomo e animale propria dei tempi che furono e che, lungi dal significare sottomissione e sopraffazione, dovrebbe portare un uomo “integrale” a prendere coscienza della propria posizione e della propria responsabilità verso gli esseri inferiori del cosmo, posizione che anzi, in un uomo reintegrato nel giusto senso di Sé, porterebbe ad un miglior rapporto tra uomo e bestia.
Non mancherà molto, sull’onda di un individualismo sentimentale anarchico e impazzito, che vedremo uomini pretendere di legalizzare e riconoscere per legge il proprio amore con animali, sulla scorta di altri riconoscimenti connotati da un assurdità intrinseca che solo l’uomo attuale, degenere e dimentico di ogni forma e ordine, può non riconoscere. Queste brevi note per inquadrare uno dei tanti segni dei tempi, di cui l’uomo della Tradizione deve prendere coscienza.
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