Da circa due secoli e mezzo le domande dello scetticismo militante sono sempre le stesse. A cosa serve saperne di più sull’Uomo preistorico, «il Primo Tempo», «le Quattro Età», «le Ere Precessionali» e cose del genere? La vita quotidiana sarà poi migliore? Ha senso frugare nel passato, conoscere sprazzi di vicende che riguardano i grandi viaggi degli dèi civilizzatori, le prodezze degli eroi, i maneggi dei re e delle regine? Perché non dedicarsi piuttosto all’economia quantistica, all’acquisizione di competenze digitali, alla geopolitica e alle prospettive dei vivi anziché agli antenati morti?
Premesso che il passato museificato e trasformato in oggetto di consumo qui non interessa, mettiamola così: conoscere più a fondo i primi passi dell’umanità nel momento in cui si tenta di farla fuori è un atto di resistenza e costituisce un richiamo alla vita reale, in opposizione al conformismo delle ideologie mortifere che avvelenano il presente.
Emblematica a tale proposito appare una curiosità biografica riguardante lo storico Henri Pirenne (1862-1935) e riportata da Marc Bloch nel suo Apologia della Storia. Giunto a Stoccolma il medievalista belga volle andare a vedere il Municipio appena inaugurato, giustificando così la sua scelta: “Se fossi un antiquario non avrei occhi che per le cose vecchie. Ma io sono uno storico. È per questo che amo la vita.”
Fa bene allo spirito passare in rassegna le difficoltà già affrontate in passato dal genere umano e toccare con mano l’ostinazione con cui esso tende a ripetersi, se pure in modo diseguale. Per esempio il canto del cigno dell’Illuminismo settecentesco, cioè la Fine dell’Uomo auspicata dal progetto transumanista, sarebbe una prospettiva agghiacciante se non sapessimo che anche stavolta l’istinto di sopravvivenza della specie avrà la meglio perché soltanto chi ha messo al mondo l’uomo può decidere come e quando toglierlo di mezzo.
Se un numero maggiore di persone conoscesse il Tempo da cui proviene anziché fomentare la dimenticanza dei ritmi atavici a cui tutto dovrebbe conformarsi, nessuno offrirebbe alla cellula anomala dell’amnesia la possibilità di costruire un suo diverso progetto genetico, né farebbe affermazioni discutibili del tipo “la Storia siamo noi”.
In qualità di organismo vivente la Storia “esiste a prescindere da noi”. Il suo flusso segue il ritmo della Terra, delle glaciazioni e delle pause di siccità, dei terremoti, delle inondazioni, dei passaggi di corpi celesti che ciclicamente incrociano l’orbita terrestre. Inserita in questo contesto l’umanità si qualifica pertanto come una delle tante specie di migratori che «viaggia» portandosi dietro il fardello della propria cultura, ovvero le vicende di un determinato stormo.
Bocconi amari
A furia di basare ogni ragionamento sull’economia e calcolare qualsiasi aspetto della vita umana, persino la guerra, a partire dal fattore costi/benefici il mondo-Demens ha perso il bandolo della matassa. Ecco perché, ad esempio, incolpa i letterati medievali di terrappiattismo nonostante sia cosa nota che già Pitagora ragionava sulla forma sferica della Terra e la Bibbia dica: “Egli è quel che siede sopra il GLOBO della terra”.
Per non parlare della girandola di fantasticherie che gira attorno ai siti megalitici sparsi nel mondo, nessuno escluso. Riguardo ad uno dei più noti, Stonehenge, le ipotesi sulla sua costruzione spaziano dal complesso eretto dai druidi in epoca romana (intorno al 50 d.C.) al monumento commemorativo edificato dal mago Merlino in onore dei 480 capi britanni sterminati dai Sassoni invasori (intorno al 450 d.C.).
Il sionismo cristiano uscito dalle rivoluzioni colorate inglesi del XVII secolo ha persino azzardato la congettura che la posa delle celebri pietre risalga al passaggio in zona (verso il 1.200 a.C.) di una delle tribù perdute d’Israele. Dopo di che il buon senso ha suggerito che, forse, i costruttori andavano ricercati altrove, ovvero tra i colonizzatori eurasiatici giunti sulle coste della perfida Albione attorno al Terzo Millennio a.C.
Ci sono voluti ben ottocento anni per regolare l’orologio storico del misterioso cerchio, e ancora non è detta l’ultima parola. Mica è facile per l’umanità so-tutto-io ammettere che l’antenato del Neolitico sprovvisto di strumenti meccanici era comunque un eccellente astronomo; figurarsi quanto sia complicato mandare giù il boccone amaro dell’esistenza oltre il Circolo Polare Artico durante il Primo Pleniglaciale (60-50.000 anni fa circa) di una civiltà altamente evoluta che civilizzò mezzo mondo.
Meglio fare finta di niente e voltare pagina, mantenendo lo status quo attraverso una rappresentazione del passato rigorosamente negativa, in modo da avvalorare l’idea della superiorità del presente. Per sua natura la Storia appare tuttavia incapace di offrire «verità eterne» e l’ultimo colpo di vanga è sempre quello di domani, quando sarà necessario ritrattare anche ciò che fino a ieri sembrava verosimile.
Conservatorismo di casta
Fa specie che molti importanti ritrovamenti NON siano stati fatti dai cosiddetti esperti bensì da appassionati «cercatori di radici» prestati all’archeologia dalle professioni più disparate. L’ambizione talvolta non basta a spezzare le catene, mentre l’amore disinteressato permette al sincero investigatore di percepire oltre le apparenze la realtà carsica, quella che c’è e non c’è, restando nascosta alla vista di superficie, dove si manifestano gli effetti mediati destinati a rivelarsi soltanto nel prosieguo.
“Chi non si aspetta l’inaspettato,” diceva Eraclito di Efeso, “non scoprirà mai la verità.” Se dunque non vogliono finire dimenticati in una teca come i cocci che spolverano, tanti accademici dovrebbero svecchiare i propri metodi e rendersi più disponibili ad immaginare l’impossibile.
Mentre il fisico, il chimico, il biologo e l’informatico nell’ultimo secolo hanno perlomeno provato a pensare in modo trasversale, abbandonando l’idea ammuffita di una realtà necessariamente dipendente e conforme alla ragione, lo storico/archeologo è rimasto chiuso nel suo cartesianesimo. I risultati del conservatorismo di casta sono impilati negli scantinati dei musei sotto forma di casse contenenti reperti classificati come «oggetti di culto»; un modo elegante per dire che non si sa cosa siano, né a cosa siano realmente serviti.
In alcune caverne del Gobi e del Turkhestan i russi hanno scoperto delle mezze sfere di ceramica, o di vetro, terminanti con un cono che contiene una goccia di mercurio. Di che cosa si tratta? Non si sa. L’antropologo J. Alden Mason ha trovato sull’altipiano peruviano ornamenti di platino fuso. Ora, il platino fonde a 1.730° e per lavorarlo occorre una tecnologia molto avanzata. Come lo avranno ottenuto quei «popoli primitivi»? Mistero. Alcune ricerche hanno accertato l’esistenza a Baghdad di una società che migliaia di anni fa possedeva il segreto della pila elettrica e aveva il monopolio della galvanoplastica. Impossibile, dicono alcuni. Nel Medioevo in Francia, Germania e Spagna, si formarono gilde di tecnici attorno ai «segreti antichi» del vetro minerale flessibile (quello del procedimento semplice per ottenere la luce fredda, tanto per capirci) e del fuoco greco ottenuto con olio di lino coagulato con la gelatina, che poi sarebbe l’antenato del napalm.
Gli esempi potrebbero proseguire per intere pagine ma non è il caso d’infierire su una cultura già ridotta al lumicino elencando anche le numerose creature mitiche associate con disinvoltura a presunte «divinità», le quali, in realtà, non hanno mai avuto nulla di soprannaturale trattandosi per lo più simboli astronomici, o retaggi di remotissime cronache logorate dall’inclemenza del tempo e parzialmente stravolte dall’avvento di popoli imbarbariti.
Erroneamente ritenute «leggende» persino creature mostruose come i draghi erano considerate, fino a non molto tempo, il frutto dell’immaginazione di popoli incolti. Probabilmente allegorie, o forse simboli. Una volta, però, che l’idea della loro imponente presenza sulla Terra è diventata tangibile, da tutto il pianeta hanno cominciato a riaffiorare i resti dei dinosauri, «anomalie di sistema» delle quali oggi nessuno osa più negare l’esistenza.
È dunque da riformulare il concetto secondo cui l’uomo moderno sarebbe un fortunato mortale scampato a un orribile passato. Non è così; membro suo malgrado di una società iper-competitiva egli si sente comprensibilmente inadeguato e pertanto preferisce fingere soddisfazione al posto di reagire, confidando in tecnologie estreme che dovrebbero avere successo là dove l’essere umano ha fallito.
Resta da capire come un cretino naturale possa mettere al mondo un intelligente artificiale. E se anche per miracolo dovesse riuscire nell’impresa, a cosa serviranno triliardi di pixel quando si scoprirà che il pilota ha perso la capacità di orientarsi nello Spazio perché non ricorda più il Tempo da cui proviene? Madre Natura assisterà con le mani in mano allo spettacolo delle IA che sfruttano il genere umano per estrarre dal sottosuolo le materie prime pregiate necessarie alla loro sopravvivenza? Oppure, l’aura magica che circonda le intelligenze artificiali serve solo a convogliare mille miliardi nel Pil e far quadrare i conti?
Opzione uomo
Meno pauroso del Demens l’antenato preistorico non si sentì mai un organismo a se stante in viaggio senza meta nel buio cosmico, ma, anzi, ebbe sempre l’impressione di essere l’ultimo tratto di un lungo processo. Andava avanti pensando, dicendo e facendo ciò che in precedenza era già stato pensato, detto e fatto da altri. Le cose belle che forgiava erano già state apprezzate e quelle brutte severamente condannate, ma non per questo erano più o meno importanti. Cippi, dolmen, templi e città non sorgevano a casaccio ma venivano innalzati là dove la terra vibrava all’unisono con l’universo perché c’era già stata una sede del Sacro.
Anche in passato capitava d’imbattersi in qualche «anomalia di sistema», cioè in cose inspiegabili per le quali non c’erano risposte, con la differenza che la parola «mistero» non faceva paura a nessuno, né sminuiva in alcun modo le capacità cognitive di chi la pronunciava.
E dire che basterebbe togliere di mezzo tanti pregiudizi per ripristinare un minimo di equilibrio, ovvero ammettere che l’ultimo indigeno illetterato sa destreggiarsi nel mondo meglio dell’uomo contemporaneo, il quale si crede un campione d’intelligenza ma in realtà è il più impacciato degli ultimi tredicimila anni, oltre che il meno libero mai apparso sulla faccia della Terra.
Quanto ai presunti progressi della scienza e della tecnica vale la pena di osservare la debolezza strutturale dei cosiddetti esperti, i quali avendo studiato una certa materia possiedono in effetti qualche competenza in un determinato settore, però non osano fare il passo più lungo della gamba, né si sognano di mettere in discussione i fondamenti ideologici del visionarismo gnostico-anabattista di orientamento tecnologico oggi dominante.
Tra un secolo, o forse prima, i posteri definiranno l’attuale società «un agglomerato mediocre privo di spirito critico» la cui discesa libera è iniziata grazie dopo la spinta del «nominalismo». Una concezione filosofica medioevale volta a negare ogni esistenza reale alle entità astratte, e di conseguenza al Sacro, ridotto ad agglomerato di meri simboli e termini di scarso valore anziché complesso di forme dei destini a cui l’uomo interiore avrebbe dovuto partecipare.
Cuori ribelli
Nato solo tremila anni fa l’antropocene perde colpi in modo ormai evidente, e, forse, il suo crollo mostrerà il vero volto dell’opera di civilizzazione del Sapiens scoprendo così la pietra angolare del tempio, cioè il nucleo centrale, trascendente, unitario dal quale sono partite le più importanti civiltà.
Molte «anomalie di sistema» verranno ri-collocate al loro posto, mentre altre dovranno aspettare il proprio turno. Ci vorrà tempo, molto tempo, per restaurare il quadro antropogeografico della Storia. Nel frattempo moriranno di morte naturale le inutili chiacchiere insieme agli stregoni improvvisati della scienza, ai dilettanti della politica, ai sedicenti intellettuali e ai professionisti dell’informazione senza vergogna. Quelli, per capirci, che dedicano mezza pagina di un rinomato quotidiano nazionale per descrivere le gesta eroiche dell’«imperatore romano» Alessandro Magno.
A voler ben guardare il mondo-Demens non merita neanche l’onore delle lacrime, che sono una cosa seria, essendo la ridicolaggine ciò che lo contraddistingue. Ma certo per ridere bisogna avere il cuore libero e al momento le qualità che vanno per la maggiore sono l’intelligenza pratica (tecnologica), la determinazione nel perseguire i propri obiettivi (assenza di scrupoli), la flessibilità mentale (obbedienza) e la sicurezza di sé, intesa come esibizionismo e narcisismo.
Raramente s’incontrano la gentilezza e il buon senso, fattori indispensabili per l’armoniosa convivenza degli individui all’interno di una società sana. Ma prima o poi la specie umana si riapproprierà della propria eredità storico-geografica, accorgendosi che senza la Storia l’attualità che oggi sembra una questione di vita o di morte è invece un semplice titolo di giornale, come osservò Bloch. Qualità «sovrana» dello storico deve sempre essere la «capacità di afferrare il vivente», che significa agganciare le esperienze pregresse a quelle in corso senza avere paura di confrontarsi con le «anomalie di sistema» sopravvissute proprio per raccontare i fatti realmente accaduti in procinto di ri-accadere.
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