24 Giugno 2024
Politica

Antifascismo incostituzionale – Enrico Marino

Mercoledì 20 ottobre viene discussa in Parlamento la mozione del PD, sottoscritta anche dal M5S e LEU, che impegna il Governo a procedere allo scioglimento di Forza Nuova e di tutte le organizzazioni di ispirazione fascista.

Infatti, secondo quanto ci raccontano tutti, la nostra Costituzione è antifascista.

Ma è proprio vero?

Basterebbe un superficiale raffronto tra alcuni articoli della Carta, come i numeri 1, 4, 36, 39, 41, 42, 46, con i 18 punti del Manifesto di Verona del 1943, che riassume e sintetizza gli obiettivi politici e programmatici del Partito Fascista Repubblicano, per constatare con un minimo di obiettività quanto fascismo è presente fra le righe della Costituzione “antifascista” del 1948.

In realtà, nella Carta l’unico accenno al fascismo si rinviene nella XII Disposizione transitoria e finale che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista e, nel secondo comma, impone una deroga di 5 anni all’art. 48 in relazione all’elettorato attivo e passivo per i capi responsabili del regime fascista.

In sostanza, se fosse vissuto, nel 1953 Benito Mussolini avrebbe potuto essere eletto nel Parlamento della Repubblica.

L’attuazione del dettato costituzionale è realizzata, principalmente, dalla legge Scelba che espressamente dispone che si ha riorganizzazione del partito fascista:

«quando un’associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista.»

L’articolo 4, inoltre, rende perseguibile anche il reato che ha finito con il diventare sinonimo della legge, l’apologia del fascismo, cioè letteralmente la difesa, a parole o scritta, del regime fascista, fatta da chi «esalta esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche».

Tale previsione fu oggetto di animatissime polemiche politiche per asserito contrasto con l’art. 21, primo comma della Costituzione, fino a quando, il 16 gennaio 1957, la Corte costituzionale, presieduta da Enrico De Nicola (ex presidente della Repubblica) sentenziò che il reato si configura allorquando l’apologia non consista in una mera “difesa elogiativa”, bensì in una «esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista», cioè in una «istigazione indiretta a commettere un fatto rivolto alla detta riorganizzazione e a tal fine idoneo ed efficiente».

Insomma, le interpretazioni della legge Scelba stabiliscono che fino a che un giudice non decide che è in corso un concreto e serio tentativo di fondare un nuovo partito fascista, è legittimo difendere Mussolini e il fascismo, fare il saluto fascista, vendere memorabilia del regime e manifestare con divise e bandiera fasciste. Un partito politico può anche definirsi neofascista, a patto di poter dimostrare di non stare ricostruendo l’antico partito fascista e di non avere i suoi obiettivi antidemocratici.

In sostanza il fascismo fu una cosa seria e ricondurlo e ridurlo a una manifestazione di piazza o a un saluto romano, anche a un avversario democratico avveduto, appare un’operazione sgangherata e grottesca. Robaccia da PD, tanto per capirsi.

Ecco perché l’idea di procedere allo scioglimento di FN sulla base della legge Scelba, si configura come l’ennesima pagliacciata messa in piedi per distrarre l’opinione pubblica da ben altri problemi e inquinare la campagna elettorale e la vita democratica del Paese.

A questa mistificazione non si sono sottratti i sindacati della Triplice (giusto definirli come negli anni ’70), addirittura violando il silenzio elettorale per inscenare una grottesca adunata, sempre meno attenti a risolvere le gravi emergenze del mondo del lavoro e sempre più accodati al potere politico finanziario, come esecutori delle sue direttive e guardiani delle insorgenze sociali contro il sistema.

Occorre prendere atto dell’ipocrisia di chi ha voluto sfruttare l’episodio dell’assalto alla sede nazionale della CGIL solo per stilare liste di proscrizione, per richiedere l’inasprimento di divieti e sanzioni, per rinnovare la rancida pratica dell’antifascismo militante ovvero per censurare, epurare e ridurre al silenzio chiunque non si accodi pedissequamente alle imposizioni del pensiero unico.

L’abbiamo visto di recente con quanto è accaduto al salone del libro di Torino, dove la presenza di due case editrici non conformi ha suscitato le solite reazioni esasperate da parte degli antifascisti che ne hanno chiesto l’allontanamento dall’appuntamento culturale.

Perché non è l’atto violento o l’organizzazione sovversiva che si vogliono bandire, ma è la pretesa di saturare ogni comparto e di trasformarlo in ricettacolo del bieco ideologismo progressista.

Un ideologismo infetto che ci propone una “democrazia militante” ovvero una democrazia che non sia un neutro esercizio dei poteri dietro mandato popolare, bensì l’esercizio costante di una sistematica esclusione da ogni spazio culturale e fisico di tutte le istanze che metterebbero in pericolo l’egemonia di quella parte che si è autoeletta garante e rappresentante unica della democrazia stessa.

E a questo scopo la definizione di “fascista” è divenuta estremamente aleatoria e variabile, per colpire all’occorrenza chiunque si opponga alla mitologia progressista, alla retorica resistenziale e al globalismo e sia in grado di produrre forme di pensiero, narrazioni e strumenti intellettuali in grado di spezzare la catena artefatta di ineluttabilità che preannunciano il pensiero unico.

Questa è la vera ossessione del sistema, cioè che una lunga storia di infiltrazioni condotte in tutti i settori della società, dal pubblico al privato, che non si è fatta remore di usare sindacati, polisportive, parrocchie, logge, circoli ricreativi, pur di arrivare ad una colonizzazione totale di ogni settore della vita pubblica, e finanche privata, possa essere surclassata da un movimento nazionale, patriottico e identitario che demolisca logori schemi politici e ammuffiti assetti istituzionali.

Per scongiurare tutto questo ogni mezzo è lecito. Si passa dalle chiavi inglesi all’uso fazioso dell’informazione, dal politicamente corretto alla psicopolizia.

Come affermava Hannah Arendt “Ogni verità esige perentoriamente di essere riconosciuta e rifiuta la discussione, mentre la discussione costituisce l’essenza stessa della vita politica“.

La religione antifascista non prevede la discussione e poi ritualmente una volta ogni anno, il 25 aprile, celebra il suo rito di sangue carico d’odio, di menzogne, di divisione e di bestialità. Un rito feroce e ipocrita, enfatizzato nella giornata di festa nazionale che ci vorrebbe tutti uniti. Uno stupro osceno della verità e della memoria, una violenza spregevole e insensata su cui si vorrebbe fondare la convivenza nazionale e che rappresenta, invece, una irriducibile demarcazione antropologica fra attitudini, comportamenti, ideali e principi non negoziabili.

Ecco allora che il dibattito parlamentare sulla mozione del PD, potrebbe costituire l’occasione per squarciare una volta per tutte il sipario di questa truce e ipocrita commedia, ridefinendo l’opposizione alla violenza e al totalitarismo come valori condivisi, ma affermando categoricamente che la libertà di pensiero, di espressione e di manifestazione delle proprie idee, anche fasciste, rappresenta un principio non negoziabile nel quadro costituzionale e repubblicano.

Enrico Marino

 

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