UNA FREDDA MATTINA DI DICEMBRE
E così il freddo, improvviso, era arrivato. Quando tutti cominciavano a sperare di poter tirare avanti con quell’arietta fresca, ma ancora non gelata, che infastidiva giusto alle prime luci dell’alba e a notte fonda, la temperatura era scesa di colpo di 6-7 gradi, deludendo le ottimistiche previsioni.
Quella mattina del 23 dicembre, in particolare, Guido De Angelis, Tenente del Primo Battaglione del Secondo Reggimento Granatieri, defezionato a Fiume dal primo giorno, dalla prima ora, dal primo momento, agli ordini del Maggiore Carlo Reina, se ne accorse subito, e decise perciò di indossare la maglia di lana che fino ad allora era rimasta nella cassetta di ordinanza.
Era nervoso, perché aspettava una risposta dal responsabile dell’Ufficio del Capo di Stato Maggiore, ai cui ordini era posto, col nuovo incarico di Ufficiale addetto, fin dall’arrivo a Fiume.
Aveva infatti chiesto una licenza breve di sette giorni, per recarsi a Roma, a cavallo delle festività natalizie, per “urgenti motivi di famiglia”, come si diceva nel linguaggio burocratico – militaresco al quale era ormai abituato da tre anni.
Una lettera giunta da casa verso la metà del mese precedente gli aveva comunicato che le condizioni della madre, che aveva lasciato a letto al momento della sua ultima partenza per il Nord, si erano aggravate e lei aveva manifestato il desiderio di rivedere il figlio per quel Natale che forse “poteva essere l’ultimo della sua vita”. Aveva detto proprio così.
Reina non aveva fatto obiezioni, per la fiducia e la stima che aveva del suo collaboratore, aggiungendo che doveva prima parlarne, per correttezza, a d’Annunzio, che pure conosceva personalmente Guido, essendosi servito della sua opera in un paio di occasioni.
Purtroppo però, la situazione si era ingarbugliata, perché lo stesso Reina, nei giorni successivi era stato pesantemente coinvolto nelle polemiche sviluppatesi nell’entourage dannunziano tra “politici” e “militari”, accusato – piuttosto pretestuosamente – di aver mancato ai suoi doveri e quindi temporaneamente distolto dall’incarico, in attesa che si pronunciasse una Commissione d’inchiesta.
Con il Capo di Stato Maggiore formalmente sospeso, ma senza che fosse nominato ancora un sostituto, a tenere i collegamenti con il Comandante era subentrato Ulisse Igliori, mutilato e Medaglia d’Oro al Valor Militare in guerra. Proprio a lui Guido aveva rinnovato la richiesta, perché acquisisse l’autorizzazione di d’Annunzio.
Le particolarissime giornate che la città stava vivendo, dopo che erano state invalidate le elezioni per l’accettazione delle proposte governative – non gradite al Poeta – avevano fatto rimandare il colloquio. Guido sapeva però che il giorno precedente, senza ulteriori rinvii, la questione sarebbe stata decisa, così che lui potesse partire per Roma in tempo utile per passare il Natale a casa.
A questo pensava quando lasciò la cameretta che gli era stata assegnata in una dependance del Palazzo del Governo, “per essere sempre a portata di voce, giorno e notte” come aveva precisato Reina, e si avviò verso il suo ufficio.
Erano le sei di mattina, perché il Comandante, immancabilmente, alle sei e trenta iniziava la sua giornata lavorativa, ed occorreva che, a quell’ora, i carteggi delle pratiche da esaminare fossero già sul suo tavolo.
Per ciò che direttamente lo riguardava, quel giorno era prevista la partecipazione di Guido, come Ufficiale verbalizzante, alla riunione di un improvvisato Tribunale che, nella confusione organizzativa che regnava a Fiume, era stata convocata dal Poeta proprio, che l’avrebbe presieduta, perché le sue decisioni fossero irrevocabili e inappellabili.
I “giudicandi” erano due, un Ardito, tale Attilio Ferrero, e un farmacista, Giuseppe Blasi. Il motivo dell’intervento in prima persona del Poeta era da ricercare nel fatto che, in entrambi i casi, fossero coinvolte, sia pure in modo diverso, le Fiamme Nere, alle quali egli sempre guardava con speciale affetto e riguardo, considerandole sotto la sua particolare tutela.
Guido il giorno prima aveva studiato gli incartamenti relativi alle due pratiche che si sarebbero discusse, perché sapeva che a lui sarebbe toccato introdurle, riepilogando i fatti, prima di cedere la parola ai difensori degli imputati.
Blasi aveva scelto il Capitano Francesco Usai, responsabile del Servizio sanitario delle truppe legionarie, col quale aveva avuto precedenti contatti di lavoro, mentre Ferrero aveva designato il Ten. Col. Vittorio Morganari, che era il dirigente del Commissariato militare.
Lui conosceva appena il primo, incrociato in qualche riunione, ma bene il secondo, una simpatica figura di Ufficiale – logista, non giovanissimo, ma che si era sempre dimostrato molto vicino agli scavezzacollo neroteschiati, che lo consideravano quasi uno di loro. Da qui la scelta del suo nome.
Prima di andare nella saletta, attigua allo studio di d’Annunzio, dove il tutto si sarebbe svolto, passò nel suo ufficio a prendere le carte e a farsi preparare un buon caffè dai militari che erano stati di guardia la notte ed erano “attrezzati” alla bisogna.
Poi rilesse velocemente i documenti che già conosceva e mentalmente preparò ciò che avrebbe dovuto dire.
IL PROCESSO
Al farmacista, che era titolare di un’avviata attività in via Verdi, era stato sequestrato, nel corso di una perquisizione effettuata dai Carabinieri, allertati da una segnalazione anonima, un ingente quantitativo di cocaina, occultato nel magazzino, tra gli altri medicinali.
Egli si era difeso dicendo che lo aveva acquistato, quasi alla fine della guerra, dal marinaio che aveva funzioni di infermiere su una nave in transito, non ne aveva fatto alcun commercio, e aveva invece chiesto alle Autorità a chi e come consegnarlo, meglio se a pagamento.
L’accusa, invece, che muoveva dalle segnalazioni contenute nella lettera che aveva innescato il tutto, era che il farmacista cedesse, dietro compenso, la droga a chi gliene facesse richiesta, preferibilmente a militari arrivati a Fiume dopo il 12 settembre, che il vizio avevano contratto in tempo di guerra.
Tra costoro, alcuni Ufficiali delle varie Armi, e un folto gruppo di Arditi che, con il loro solito modo di fare scanzonato e cameratesco, avevano fatto amicizia con Blasi, al punto che egli aveva loro ceduto, gratuitamente, l’uso di una sua villetta alla periferia della città, dove si erano sistemati in una trentina.
Proprio loro, avvisati non si sapeva bene da chi e come, della perquisizione in atto, si erano radunati fuori della farmacia, e, all’uscita avevano tentato di liberare il fermato, stringendo da presso e spintonando i Carabinieri, i quali, però, non avevano ceduto e col fucile a bracciarm lo avevano condotto in caserma. Probabilmente era a loro che si doveva se il fatto, nei giorni successivi, era stato portato a conoscenza del Poeta in una versione spudoratamente “innocentista”.
D’Annunzio aveva comunque deciso di interessarsene personalmente, ed ecco il perché della inconsueta convocazione di una “Corte di giustizia” quella mattina.
Più complesso il secondo caso, che aveva risvolti importanti sul rapporto – già non buono dai tempi di guerra – che vedeva contrapposti anche in città, Arditi e Carabinieri.
Era successo che, un mesetto prima, quattro “Fiamme”, imbarcatesi di nascosto a Trieste su una nave che, per conto dell’Esercito, stava effettuando un trasporto di generi alimentari dall’Italia alla Macedonia, quando l’imbarcazione era arrivata in alto mare, ma non lontana dalle coste di Fiume, erano balzati fuori, ed avevano intimato, con la minaccia delle armi, al Comandante di cambiare destinazione.
Mentre costui, di fronte ai revolver spianati, aveva acconsentito, di diverso avviso erano stati i cinque carabinieri comandati a bordo di scorta. Pur se presi alla sprovvista, essi avevano tentato una resistenza, e ne era nata una zuffa, nel corso della quale erano stati esplosi dei colpi che avevano colpito a morte uno dei militi.
Poi il viaggio erra proseguito per Fiume, senza altri inconvenienti.
I commilitoni della vittima, una volta sbarcati, e prima di essere in tutta fretta avviati al confine, perché avevano manifestato l’intenzione di non aderire alla impresa dannunziana e di voler tornare in Italia, avevano rilasciato, in caserma, sommarie dichiarazioni ad un Ufficiale dell’Arma che li aveva interrogati, secondo le quali il morto era stato colpito a freddo, mentre era a terra, dopo una breve colluttazione che lo aveva visto soccombente.
Avevano altresì fornito una dettagliata descrizione dell’Ardito che, a loro dire, aveva sparato.
Di poca utilità si erano rivelate le dichiarazioni dei componenti l’equipaggio, piuttosto reticenti, che si erano trincerati dietro una serie di “non so… non ho visto niente”.
Ciò nonostante, i Carabinieri, sempre molto scrupolosi quando si trattava di uno dei loro, erano arrivati all’identificazione dello sparatore che, interrogato, aveva ammesso di aver esploso due colpi, ma aveva precisato di averlo fatto per legittima difesa, perché il milite lo stava sopraffacendo e minacciava di buttarlo in mare.
Non aveva convinto, però, chi lo interrogava, ed era stato associato alle carceri, in attesa di giudizio.
Una delegazione di Ufficiali degli Arditi – previa autorizzazione del Colonnello Raffaele Repetto che li comandava – si era allora recata dal Comandante ed aveva richiesto la scarcerazione dell’uomo, ritenendo sufficiente che la sua versione era stata confermata dai camerati responsabili con lui del dirottamento.
Di contro, il Capitano Rocco Vadalà, che guidava i Carabinieri presenti in città, convocato al Palazzo del Governo, aveva ribadito la convinzione della responsabilità dell’Ardito, e chiesto che fosse giudicato, nei modi previsti, da una Corte militare.
La conseguenza immediata era stata un acuirsi della tensione tra i militari, con manifestazioni dei camerati del recluso all’esterno del carcere, ed era stata evitata a stento qualche zuffa per strada con gli “aeroplani”, come i militari dell’Arma erano ironicamente chiamati, per via della loro lucerna grigioverde, già dei tempi di guerra. Per questo d’Annunzio, per evitare un precipitare della situazione, aveva avocato a sé la decisione, promettendo di definire la questione prima di Natale.
Dopo aver fatto, tra sè e sé, questa ricostruzione, Guido si avviò, e fu il primo ad entrare nella improvvisata aula di tribunale.
Poco dopo arrivarono i due imputati, scortati dai Carabinieri, e gli avvocati difensori. Ultimi ad entrare furono i due Ufficiali che avrebbero fatto da Pubblici Ministeri
Dopo di loro, d’Annunzio, accompagnato da Igliori. Passandogli davanti il Poeta si fermò un attimo:
“Caro De Angelis, ieri Igliori mi ha detto della vostra richiesta, e non mi sono opposto. Il motivo mi pare nobile, ed anzi, vi prego di portare il mio saluto ed augurio a vostra madre, alla quale va il ringraziamento mio personale e di tutti i buoni Italiani per aver offerto il proprio figlio alla nostra nobile causa. Partite pure oggi stesso, e tornate appena lei starà meglio. Qui cercheremo di cavarcela comunque”
E abbozzò un leggero sorriso, prima di stringergli la mano e andare a sedersi al tavolo che era stato preparato per lui.
Guido, rasserenato per l’autorizzazione ricevuta, e orgoglioso per le parole del Comandante, appena furono tutti ai loro posti, si alzò all’impiedi ed espose la vicenda del farmacista, così come l’aveva ricostruita nella sua mente nell’ultima mezz’ora. Dopo di che cedette la parola all’ avvocato difensore.
Il Capitano Usai, che difendeva il farmacista, si esibì in un vero colpo di scena. Dopo aver detto che la lettera anonima dalla quale tutto era partito era sicuramente opera di qualcuno che voleva punire i sentimenti di italianità sempre manifestati dal suo assistito, che erano noti a tutti, mostrò ai presenti, e poi, dopo averle lette, consegnò proprio a Guido due lettere firmate da Blasi, con le quali, prima a gennaio e poi a giugno aveva chiesto alle Autorità cosa fare della cocaina, proponendo di consegnarla, con un semplice rimborso della spesa sostenuta per l’acquisto, al Convalescenziario militare ancora attivo sulle colline.
“Senza aver ricevuto ancora alcuna risposta” aggiunse l’Ufficiale, che così giustificò la presenza della cocaina nella dispensa della farmacia.
Il colpo di scena ebbe senz’altro effetto sui presenti, tanto che l’Ufficiale che fungeva da pubblica accusa, non sapendo che dire, quando fu il suo turno, si limitò a chiedere che venissero avviate veloci indagini negli archivi del Comune per ritrovare le due carte e capire perché e per colpa di chi alla richiesta non era stato dato seguito.
Quando ebbe finito, d’Annunzio, che aveva ascoltato in silenzio e senza fare domande, restituì la parola a Guido, per l’esposizione del secondo caso in esame.
Egli, pur non tralasciando niente di essenziale, cercò di essere il più conciso possibile. Sapeva infatti che alle 12,00 il Comandante aveva un’importante riunione con i suoi più stretti collaboratori, per decidere l’atteggiamento da prendere di fronte all’ultimatum badogliano, e che prima lo attendevano una serie di impegni collaterali.
Conciso fu anche Margonari, il quale, memore dei suoi studi di diritto, e probabilmente anche di qualche esperienza avvocatesca nella vita da civile, dopo aver dato per scontata l’accidentalità del fatto, fu estremamente efficace quando invocò i nobili motivi che erano alla base del dirottamento, e il sollievo che quel carico di viveri aveva portato alla popolazione fiumana tutta, ed ai bambini in particolare, che a frotte, vagavano per le strade, cercando, non di rado, tra i rifiuti.
Di fronte a questo, l’Ufficiale che fungeva da accusatore (apparteneva alla Quarta Squadriglia Autoblindo, anch’essa defezionata a Fiume, come l’altro incaricato dello stesso compito) non potè che fare un intervento “sulla difensiva”. Riconobbe le ragioni esposte dalla controparte, ma invocò il sacro rispetto della legge innanzitutto. Si limitò, per questo, a chiedere una lieve condanna invece di quella “esemplare” che pretendevano i commilitoni della vittima.
Quando tutto fu finito, d’Annunzio chiese una pausa per meditare e decidere, e riconvocò tutti per le 11,30 precise.
Guido tornò nel suo ufficio e consegnò ad una dattilografa gli appunti che aveva preso in udienza, chiedendole di batterli con la massima urgenza. Poi chiamò uno scritturale e lo incaricò di andare in stazione e prendergli un biglietto sul treno della sera per Trieste. A questo punto, ormai, non vedeva l’ora di partire.
Stava rileggendo il testo dattiloscritto, quando uno dei militari di guardia bussò discretamente:
“Permette, signor Tenente? C’è questo signore che chiede a tutti i costi di poter parlare con lei”.
E, così dicendo, introdusse un omone grande e grosso, che indossava pantaloni di velluto con la classica pelliccetta da pastore e aveva tra le braccia due agnellini.
“Buongiorno, signor Ufficiale – fece questi, prima che Guido proferisse parola – vengo da Arbe ed ho portato questo omaggio al Comandante d’Annunzio. È il mio modesto ringraziamento per quanto sta facendo per noi. Gradirei consegnarglielo di persona, per abbracciarlo, anche a nome di tutti i miei compaesani”.
A Guido quell’uomo fece istintiva simpatia, per la sua spontaneità e il suo gigantesco aspetto “da Granatiere in borghese”. Decise di accontentarlo. Poiché stava per andare dal Comandante a portargli il verbale e chiedere conferma dell’orario della nuova convocazione del tribunale, decise di portarlo con sé, tra lo stupore del personale di Palazzo.
Lo incrociò nel corridoio, e, impettito sull’attenti, gli porse i fogli dattiloscritti. Poi, avendo notato che lui guardava alle sue spalle quella strano personaggio che sicuramente gli ricordava i pastori del suo Abruzzo, gli raccontò tutto.
D’Annunzio proruppe in una franca risata, e, prima che lo facesse quello, strinse l’uomo, fin quasi a sparire, piccolo com’era, al confronto, tra le sue braccia, ringraziandolo. Chiamò uno degli Arditi della sua scorta personale, che non lo lasciava mai, e decise, sull’istante, di dare un nome agli agnellini. Uno lo battezzò Zidovo, che ricordava, in scherzosa antitesi, i truci briganti del Monte Maggiore, l’altro Uscocco.
Quindi ordinò di far ornare con nastri i due animaletti e di mandarli, a suo nome, alle monache del Convento delle Benedettine, con la preghiera di allevarli.
“Peccato – sussurrò scherzando uno dei presenti a Guido – sarebbe stato un bel piatto per la mensa”.
Il pastore, che aveva capito essere tutto finito, e ancora non si riprendeva dall’emozione, si era frattanto allontanato, così che Guido, in base agli ordini ricevuti sbrigativamente dal Comandante, fece avvisare gli interessati perché si presentassero, alle 11,30, come previsto, nella stessa sala di prima, per conoscere le decisioni.
Il d’Annunzio che si presentò, però, non era lo stesso col quale, solo una mezz’oretta prima Guido aveva parlato in corridoio. Scuro in volto, visibilmente irritato, probabilmente reduce dall’aver ricevuto qualche cattiva notizia, fu molto sbrigativo:
“Signori, ho riflettuto su ciò che è stato detto qui stamattina e ne ho parlato anche con Igliori, che, per i titoli conquistati sul campo di battaglia, è il mio primo e più fidato collaboratore.
Non desidero che le prossime festività vedano reclusi due uomini che sono “miei” a tutti gli effetti. Dispongo, perciò la loro immediata scarcerazione. La cocaina sia consegnata al Convalescenziario così come lo stesso imputato aveva proposto. Mi auguro che in avvenire abbiano a cessare motivi di contenzioso tra quanti sono qui con me, indipendentemente dalle mostrine indossate”.
E così dicendo, guardò fisso il Colonnello Repetto e il Capitano Vadalà, che erano stati ammessi a presenziare alla seconda parte di quello strano “processo”.
“CHIEDO PERDONO AI POVERI DI FIUME”
Guido tornò in ufficio, e il militare che aveva incaricato, gli consegnò il biglietto del treno per Trieste. La partenza era fissata alle 18,15, e un appunto scritto a penna su un foglietto, aggiungeva che a Trieste avrebbe trovato due treni diretti a Roma prima della mezzanotte.
Tutto fatto. Gli restavano solo alcuni ultimi impegni. Innanzitutto andò a salutare Igliori, prima che si assentasse per la riunione con d’Annunzio. Fu un incontro anche commovente. La Medaglia d’Oro, che era un buon conoscitore di uomini, aveva da subito apprezzato quel suo collaboratore, dal quale pure si attendeva qualche ostilità, sapendolo “uomo di Reina”, che lui era stato chiamato a sostituire d’autorità.
Invece era andato tutto bene. In quel mesetto Guido si era mostrato leale e capace, fino a guadagnarsi la piena fiducia del nuovo superiore. Igliori glielo confermò al momento del saluto, con una raccomandazione: “Mi saluti Roma, caro De Angelis, prima o poi ci tornerò, per finire l’opera iniziata qui!”.
Era quello che anche lui sperava di fare, al più presto. “Annettere l’Italia a Fiume” come qualcuno aveva scritto sui muri. Questo era l’obiettivo di quella loro avventura.
Poi tornò in ufficio. Prese da un cassetto una lettera una busta e rilesse la lettera che d’Annunzio gli aveva affidato qualche giorno prima, raccomandandosi di farla recapitare a ridosso del Natale. Era indirizzata al Podestà di Fiume, e così iniziava:
“Nel fare un’offerta ai poveri di Fiume non ci si può difendere da un senso di timidezza che sembra quasi vergogna. Donare scarsamente a chi ha sempre donato grandemente è infatti quasi vergogna”.
Poi proseguiva con toni lirici e commossi, ma era soprattutto il finale che si era impresso nella memoria di Guido dalla prima volta che lo aveva letto:
“Come si può dunque senza tremito offrire qualcosa a questi ricchi sorridenti?
L’altro giorno uno di loro voleva baciarmi la mano, e, come io mi difendevo, egli cadde in ginocchio. Allora anch’io me gli misi in ginocchio davanti: e rimanemmo così un poco, a faccia a faccia, come quei donatori nelle vecchie tavole d’altare. Io era da meno. E perciò non volli rialzarmi, se non dopo lui.
Così oggi chiedo perdono ai poveri di fiume. Non offro il danaro, che è scarso e vile. Offro il mio amore, che si inginocchia”
In effetti, non era completamente vero. Guido sapeva che il Poeta aveva dato ordine a Margonari di inviare al Podestà 25.000 lire perché fossero distribuite ai poveri, ma quelle parole gli avevano procurato alla prima lettura, e ancora gli provocavano, un profondo, commosso turbamento.
Chiamò un Sottufficiale e gli ordinò di recapitare subito la lettera. Poi passò per un breve giro di saluti al personale che gli era stato più vicino in quei tre mesi, e tornò al suo alloggio.
Si mise in borghese, come Igliori gli aveva raccomandato, “per evitare scherzi di qualche poliziotto troppo solerte”, riempì una valigetta di pelle che aveva acquistato proprio lì a Fiume e si diresse in stazione.
Esclusa la breve pausa per il cambio di treno a Trieste, fece tutto un sonno fino a Roma.
Sceso dal vagone, si diresse sveltamente verso casa, ma aveva già nostalgia della “sua” Fiume”.
NOTA: personaggi e fatti sono rigorosamente autentici; esigenze narrative sono alla base di qualche spostamento temporale
Foto 1: immagine fiumana (in testa al racconto)
Foto 2: Reina alle spalle di d’Annunzio sulla t4 diretta a Fiume
Foto 3: Igliori con la moglie a Fiume
Foto 4: Margonari al suo tavolo di lavoro
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