9 Ottobre 2024
Simbolismo

Antropologia del Carnevale – Walter Venchiarutti

Il Carnevale rientra in quella serie di manifestazioni laiche, oggi in disuso, attraverso le quali si sono espressi i comportamenti dell’uomo. La sua origine, come ad esempio a Crema, può essere è strettamente legata ad una dominazione (in questo caso Veneta), una celebrazione che si è susseguita nel tempo alternando periodi di intensa partecipazione ad altri di declino. Durante i secoli scorsi alla frequenza entusiasta dei dopoguerra sono subentrati periodi di divieto. Storicamente, non di rado, le autorità hanno censurato l’evento per motivi politici o l’hanno bandito per esigenze sanitarie, ma sempre è tornato più vitale di prima.

Nonostante ancor oggi risulti in alcuni centri italiani un appuntamento molto seguito e in grado d’attirare migliaia di visitatori, sono diverse le  cause che lo differenziano dalle passate stagioni e alcuni segnali,  ne preannunciato l’ineluttabile declino. Si è detto che all’uomo ludens, festaiolo  ieri, sia subentrato l’odierno uomo economico, più interessato al profitto che non al divertimento. Altri affermano che attualmente viviamo in un clima di perenne spasso e abbondanza per cui l’eccesso di cibo e di divertimento è possibile ogni momento dell’anno e infine, secondo i più  pessimisti, attualmente ci sarebbero pochi motivi per festeggiare. A che pro mascherarsi se  si è mascherati tutti i giorni (Covid. 19-  docet)?  Generalmente i nostri contemporanei manifestano una comune demotivazione alla partecipazione, frutto della consuetudine al divertimento o indotta da una sfiducia congenita. Un tempo il Carnevale era atteso e praticato come valvola di sfogo, pentola a pressione di una comunità caratterizzata dalla rigida differenziazione dei ruoli:  ricchi/poveri, uomo/donna, fanciullo/vecchio ecc. Nell’odierna società, che Zygmunt Bauman ha definito liquida, l’inversione dei ruoli non è più un tabù, le barriere sembrano crollate. Sempre più spesso viviamo in un mondo virtuale, dove appare ciò che non è e dove ciò che è resta in ombra. La vera maschera dell’uomo moderno è costituita dal principale mezzo di comunicazione: la rete informatica. Su internet si intessono relazioni senza la conoscenza del reale. Lì si possono verificare travestimenti che non di rado si trasformano in mistificazioni perché riguardano non solo l’aspetto esteriore, ma possono interferire e pilotare le opinioni e quindi i comportamenti. Ieri la festa era pretesto per celebrare il risveglio della natura, un invito da non perdere per sbeffeggiare il potere politico, un richiamo irresistibile all’euforia erotica. Ma oggi che gusto c’è se le stagioni sono sparite, la politica si sbeffeggia da sola e la pornografia si compra al supermarket?

Tuttavia Crema resta uno dei pochi centri in cui puntualmente si organizzano ancora sfilate carnevalesche. Un centinaio di tenaci volontari, riuniti in gruppi locali e provenienti da paesi vicini, si impegnano tutto l’anno in gelidi capannoni, nella meticolosa preparazione dei carri allegorici. Cosa li spinga ad ipotecare tanto tempo libero è una domanda legittima. Le motivazioni sono diverse e tutte valide:

 – Una motivazione fondamentale è data dalla voglia di socializzare, gareggiare lealmente, poter dare libero sfogo alla fantasia e ai sogni nel cassetto. Tutte possibilità spesso mortificate nella routine quotidiana.                                                                                                                                  -Esistono giustificazioni riguardanti la salvaguardia dell’attività turistica. Il visitatore che viene per la prima volta in città per il Carnevale scopre una contrada a misura d’uomo, ricca di  bellezze monumentali, architettoniche e artistiche,  dove si vive e si mangia bene (lo dico pur non essendo Cremasco di  nascita).

– Il  Carnevale cremasco conserva delle peculiarità rispetto ad altri, ad esempio a quello spagnolo    di Calella. Là protagonisti sono le scuole da ballo, la sincronia tra musiche e danze, la sfarzosità dei vestiti, le stravaganti coreografie. Qui  l’attenzione è costituita dalle tematiche espresse dai carri mascherati, dalle parodie, dalla satira, dalle reminiscenze storiche. L’assurdo può diventare realtà grazie alla  coreografia dei gruppi, alla genialità dei singoli e alla tenerezza dei bambini. Tutti si prodigano nel creare, con pochi mezzi, quadri immaginari assurdi, scherzosi e utopistici.

– Insieme alle citate ragioni storiche occorre ricordare le peculiarità identitarie che possono qualificare il Carnevale, vera fucina delle identità. Ad esempio la maschera principale, nello specifico quella  del “Gagèt”, deriva da un termine di lontana origine longobarda  gahagi (bosco recintato) e configura l’archetipo del contadino. Il soggetto è un personaggio impacciato, illetterato, sognatore. Qualità e difetti del mondo agreste vengono ripresi dall’abbigliamento. La tradizione popolare lo contrappone al cittadino “Schitì” dal goto skittan, quindi un pauroso, altezzoso, saccente e fanfarone. Espressione di una rivalità antica tra urbani e campagnoli.

 

La derivazione semantica

Una definizione qualsiasi del carnevale non può prescindere da un preliminare approccio semantico. Subito, in questo primo avvicinamento, riscontriamo una sostanziale contraddizione. Infatti, di norma, nella festa sembrano coesistere situazioni apparentemente inconciliabili. Il maggiore dizionario etimologico italiano (M. Cortelazzo P. Zolli)  sostiene la versione, secondo cui, la parola carnevale deriverebbe da carne-levare, in considerazione del periodo immediatamente successivo che sopravviene con la Quaresima. Ma c’è anche chi  ha inteso leggervi il significato di «carnis levamen (il sollievo, conforto della carne)», con riferimento al giovedì grasso, ai cibi e alle scorpscciate culinarie che solitamente accompagnano o meglio caratterizzavano il periodo.

La componente alimentare

Già da questa premessa è possibile cogliere l’importanza della componente alimentare che risulta essere uno degli aspetti fondamentali della ricorrenza. Nel Cremasco l’avvenimento si celebrava soprattutto all’insegna dell’abbondante e variegata buona tavola come lo testimoniano lontane vicende storiche ricche di incontri  all’insegna di  bagordi e prelibate specialità gastronomiche. Tali avvenimenti portano a considerare la dimensione dell’abbondanza. La chimerica speranza di poter rendere reale il paese di cuccagna, la terra di bengodi e ripristinare il paradiso perduto è un leit motif che accomuna tutte le culture folcloriche dei vari paesi. All’eccesso, al divertimento immancabilmente seguiranno il tempo delle penitenze, del dolore e l’inevitabile Quaresima. Queste relazioni indurrebbero da sole ad una semplicistica rivisitazione del mito biblico secondo cui, dopo il peccato originale, subentra la cacciata dal paradiso. Della dismisura e dello spreco per il cibo permane ancor oggi uno sbiadito ricordo nella vasta gamma di dolci che si preparano per l’occasione: frittelle, focacce (chisulì), chiacchiere, castagnole. Usanza che trova il corrispettivo nella preparazione dei brezel di carnevale in Germania e nei pommes de garde in Francia. L’esubero nel consumare vivande e bevande raggiunge il culmine durante il giovedì grasso e richiama per dimestichezza antropologica alla lontana cultura esotica  del Potlach, del Kula e dei banchetti di prestigio, dove sprecare e mostrare la ricchezza, anche quella che non si ha consentiva alla prodigalità rituale di far valere l’autorità vera o presunta del soggetto dominante. Il caso  della propensione all’ospitalità, all’accoglienza, al proseguimento della festa presenta forti analogie con l’economia del dono-prestigio, quella riassumibile nella terna del dare-ricevere-contraccambiare. Le anime che convivono per l’occorrenza sono diverse, così come diverse sono le radici che, attraverso i secoli, hanno concorso a modificarne i comportamenti festaioli, ma sostanzialmente a farli giungere fino a noi.

Le testimonianze storiche

Una ulteriore interpretazione etimologica collega la parola carnevale al carrus navalis, il carro a forma di nave che sfilava a Roma nelle feste dedicate a Saturno. Dovendo ricercare tra le prime testimonianze storiche locali, senza aver la pretesa di scomodare le celebrazioni dionisiache greche o i Saturnalia romani, una antesignana delle parate paludate, strabiliante per imponenza e originalità viene riportata dagli storici nelle cronaca relative alla costruzione dei grandi santuari. Le processioni a cui partecipavano, in epoca rinascimentale, i rappresentanti delle porte cittadine. Giovani vestiti alla greca e alla romana, nelle vesti degli dei pagani (Venere, Giove, Mercurio) sfilavano sui carri che trasportavano i “quadrelli” (mattoni) offerti per l’erezione del tempio. Più che processioni cristiane abbiamo l’impressione di assistere a vere e proprie parate «bizzarre e fantastiche», un preludio carnevalesco. È l’indizio di una tradizione che laicizzandosi è andata gradatamente perpetuando fino ai giorni nostri. Portata avanti in modo spesso goliardico e improvvisato ma anche geniale e meticoloso da singoli e da gruppi associativi, iniziata con modalità  fortuite ha ottenuto successivamente riconoscimenti istituzionali. Questi momenti dell’anno straordinariamente insoliti e celebrativi hanno preso rilevanza con l’avvento  nel Cremasco del dominio di Venezia (1449-1797), un riflesso dell’importanza che la manifestazione carnevalesca aveva assunto nella capitale lagunare. I cronachisti ci informano dell’attenzione con cui il governo veneto sapeva controllare, tenendo a bada per l’occasione balli, incontri, spettacoli e veglioni, che finivano per rappresentare una opportuna valvola di sfogo. L’autorità vigilava affinché gli scherzi non degenerassero e gli assembramenti e intemperanze non portassero la massa, priva di freni inibitori, ad azioni di depravazione morale e di ribellione sociale. La repressione entrava in atto sostenuta da una legislazione restrittiva riguardo ai travestimenti che prevedeva i limiti del portare la maschera e ricorreva a punizioni severe per chi avesse violato i confini di quella che di volta in volta veniva considerata la pubblica decenza. Oltre alla culinaria il carnevale è stato motivo di altrettanto sviluppo delle arti, quali musica, ballo, poesia, teatro. Ai giorni felici naturalmente sono seguiti i «carnevali sanguinosi», funestati da avvenimenti politici, dalla comparsa del terremoto, dalla libera licenza delle armi da fuoco, dalle guerre e dalle invasioni.

La critica politica

Il fattore di critica politica che animava e anima questa rassegna è dato dall’aver esercitato la funzione liberatoria della collettività nei confronti dei poteri forti. La festa che va dall’Epifania all’inizio della Quaresima cela in se culti provenienti da un antico retaggio pagano che spesso hanno assunto anche i caratteri del sovversivo, del provocatorio e del trasgressivo, suscitato l’inquietudine della borghesia e valso l’ostilità della Chiesa. Scrive uno storico locale  “… aggradiva che i sudditi si divertissero, ritenendolo come un pegno della loro prosperità e fedeltà; è noto poi come l’aristocrazia veneta fomentasse gli spassi e le gozzoviglie carnevalesche del popolo veneziano onde meglio stornarne le menti dall’ingerirsi in faccende di Stato”. In passato ad esser presi di mira erano soprattutto il cattivo operato e gli eventuali scandali generati nell’ambito dell’amministrazione dei beni comuni. La situazione odierna apparentemente sembrerebbe offrire ampio spazio a qualsiasi forma di opposizione scritta e visiva ma questa si stempera e quasi spesso scompare nel mare dell’informazione manovrata dell’opportunità e dal conformismo. Nei  trascorsi periodi vigeva una forte repressione e poter impunemente mettere alla gogna le malefatte dei “potenti di turno”, esprimersi senza le temute ritorsioni non era cosa da poco. Gli atteggiamenti allusivi offrivano  sfogo a quella pungente satira che solo la vis popolare sapeva creare. Gli sberleffi non sanavano le ingiustizie ma perlomeno ne denunciavano i fautori.

Misura della temperie sociale

In seno alla comunità il carnevale si è sempre accaparrato l’ufficio di termometro del sentimento popolare poiché sa sprigionare  la prorompente forza comunitaria. Nel corso dei secoli è in auge e prospera quando terminano le circostanze negative (repressione, guerre, malattie) mentre decade quando subentrano tali problematiche e soprattutto vengono meno la capacità d’osservare e di saper fantasticare. Così le autorità in occasione dei conflitti ne vietavano lo svolgimento ma rinasceva e puntualmente tornava ad esplodere quando riprendeva il normale ritmo della vita.

 

La previsione augurale

Il fenomeno temporale e generico si ricollega all’ufficio propiziatorio assunto dal carnevale. Una società prevalentemente agricola, come lo era quella cremasca del passato, non poteva essere indifferente ai ritmi del mondo naturale che la circondava. L’appuntamento annuale è quindi esaltazione del colore, dell’allegria, della rinascita e si configura nell’arco temporale delle festività legate alla tradizione agraria. I carri allegorici sono ravvivati dalla vitalità che esplode nella cornice floreale e nell’intensità cromatica. Il lancio di coriandoli, caramelle, stelle filanti, sottintende il preludio all’abbondanza e l’imminente arrivo della bella stagione. Ma occorre favorire concretamente l’avvento della primavera e questo può realizzarsi, facendo ricorso a quella che Frazer ha definito con il termine di magia omeopatica, arte che segue le leggi  della similarità. Il rinnovo stagionale prodotto dall’ambiente circostante influenza tutti gli esseri viventi (uomini, animali, piante) e va protetto propiziando l’inizio degli innamoramenti destinati,attraverso il ciclo riproduttivo, a generare la continuità che si specchia nell’eterno ritorno.

La carica erotica

La prepotente carica erotica che solitamente contraddistingue le varie fasi della manifestazione è conseguenza delle allusioni sessuali accompagnate gli abiti discinti, i toccamenti, gli atteggiamenti provocatori con gli evidenti simboli fallici rappresentati dai nasi lunghi e aguzzi di certe maschere, i finti bastoni, i manganelli, le clave di plastica. I giovani si divertono a percuotere le ragazze, a imbrattare i loro vestiti con farina e bombolette spray di schiuma bianca, inscenando le mimesi dell’atto procreativo. In passato l’evento, a cui spesso erano dedicati trafiletti nelle prime pagine dei settimanali locali, non mancava di annoverare episodi particolarmente osè corredati da pizzicotti palpeggiamenti: non per questo son mancate le solite maschere notturne (borde) la cui propensione era quella di dare dei pizzicotti alle filatrici raccolte nelle stalle.

Fare chiasso

Un ulteriore elemento è costituito dall’assordante frastuono che caratterizza questo appuntamento. È indispensabile favorire in tutti i modi il processo benaugurale comportante l’avvento della primavera. Per questo, secondo una ancestrale logica che soggiace alla tradizione agraria, occorre promuovere la cacciata dei cattivi spiriti invernali. Per poterli spaventare occorre produrre ogni tipo di assordante rumore con spari, mortaretti, fuochi artificiali, suono di trombe e tamburi.

L’aspetto scaramentico

Lo spirito dei morti rivive nelle maschere che fanno la loro breve comparsa in questo periodo dell’anno dando seguito al fenomeno scaramantico. Il termine “masca”, di origine preromana equivale al significato di larva. La maschera bergamasca di Arlecchino deriva da Hellequin, re dei morti. Secondo la tradizione in auge nei cosiddetti secoli bui il personaggio era alla guida delle schiere di revenants (coloro che ritornano) e compare nella commedia dell’arte insieme agli zanni e ai pierrots dai candidi costumi, entrambi chiara trasposizione delle anime defunte. I morti rispuntano periodicamente nelle notti invernali e le loro processioni turbano il sonno dei viventi. Vanno assecondati poiché sono simili ai semi che stanno sottoterra in attesa del risveglio. La loro apparizione pur temporanea e temuta ha lo scopo di favorire la germinazione delle piante che, come loro, risvegliate dal torpore invernale, daranno un nuovo e abbondante raccolto.

Il mondo alla rovescia

Nel medioevo il carnevale era meglio identificato con l’appellativo di “festa dei folli” in quanto presentava la peculiarità di creare un mondo sociale in antitesi a quello che solitamente era ritenuto essere l’ordine normale della società e che vigeva nella comune vita quotidiana. In questo mondo alla rovescia i ruoli si capovolgono, le posizioni occupate si invertono: il laico si traveste da prete, il povero diventa ricco e viceversa, il giovane si trucca da vecchio e il vecchio veste i panni del giovane, l’uomo assume le sembianze dell’animale e l’animale quelle dell’uomo, il maschio diventa femmina e la donna si traveste da uomo.

La critica sociale

Un’ulteriore apparente contraddizione governa i giorni dell’evento che, come è già stato notato risulta contraddistinto da comportamenti anticonformisti, sfrenati e spesso lascivi. Si alternano gli opposti atteggiamenti conformisti, originati da una corrente morale perbenista. Questa componente è improntata a svolgere il ruolo forte di critica sociale. Vengono messe alla berlina, parafrasando una espressione oggi in uso, quelle che sono ritenute le «unioni incivili». È stata riscontrata in tutta Europa la pratica del Chiarivari. Si tratta di travestimenti che hanno come scopo preciso la messa alla berlina e la condanna di costumi ritenuti lesivi dei principi morali su cui fonda l’etica della comunità. Entrano quindi in scena le pantomime, espresse attraverso gli elementi della beffa collettiva, che prendono di mira le situazioni ritenute deprecabili: i matrimoni tra risposati, le unioni tra persone di età molto diversa o tra vedovi e le eventuali relazioni adulterine.

La spettacolarità

Le manifestazioni della finzione spettacolare, far vedere ciò che non è o ciò che non si è, utilizzare la simulazione ricorrendo alle situazioni più assurde, tutti questi atteggiamenti si ritrovano come costanti nelle rappresentazioni  carnevalesche. Gli esempi  sono molteplici e possono comprendere: personaggi che danzano su altissimi trampoli, il ballo famoso con la pigotta (la danzatrice-bambola di pezza che il ballerino provetto riesce a far muovere al punto da sembrare vera), i camuffamenti con vistoso ricorso a trucco, parrucche, maschere o l’improbabile reso reale ( due ciclisti che si contrappongono pedalando in modo contrapposto con la stessa bicicletta). Nella riuscita pretesa di impressionare gli spettatori con prove di abilità operano in contemporanea: squadre di giocolieri e acrobati, sbandieratori che si destreggiano con lanci per aria di bandiere, sfilano majorettes e danzatrici in gruppo, accompagnate dal ritmo delle bande.

Lo straordinario uscire dalla norma

L’aspetto dello straordinario costituisce un ulteriore elemento insostituibile e appariscente del carnevale. Alla sua realizzazione provvede la fantasia veramente sfrenata e genuina che non si fonda solo sulla tecnica o sulla sontuosità degli abbigliamenti ma si avvale delle capacità creative e immaginarie degli artefici. I partecipanti si divertono con fantasia nell’inventare strane anomalie genetiche rappresentate da: uomini a tre gambe, gobbuti, con il collo a giraffa. L’eccezionale statura, la mole gigantesca di alcuni personaggi, fuori misura (detti omoni) o le teste enormi (testoni) costituiscono le stravaganti peculiarità di alcuni carnevali italiani (Arcireale, Lamezia Terme) e stranieri. Una derivazione generica di tali rappresentazioni può essere ricondotta al significato protettivo che veniva assunto dagli antenati mitici in seno alla comunità. Le motivazioni più specifiche di queste figure variano e seconda dei casi. Le maschere dei re antenati/giganti solitamente occupano la coreografia dei più importanti carnevali e assolvono al compito di rappresentare coloro che hanno ottenuto dalla collettività un riconoscimento sacrale. Questi personaggi vigilano sulla manifestazione e rassicurano gli astanti.

Il campanilismo

Nel caso cremasco alcuni esempi di gigantismo trovano invece fonte nella mai sopita rivalità campanilistica. Gli abitanti di ogni paese del circondario, oltre al nome e al cognome assommavano anche un appellativo che li qualificava appartenenti alla comunità di provenienza. Questo soprannome rifletteva le vicende di un provincialismo molto diffuso, il senso d’appartenenza si caratterizzava grazie a veri o presunti difetti psicosomatici.

Le antitesi sociali

Nelle manifestazioni carnevalesche sono spesso riscontrabili alcune antitesi rappresentate dalle categorie tipologiche che si confrontano. Le località alpine annoverano gruppi dei cosiddetti belli e i brutti (Bagolino,Schignano), dei buffoni e lacchè (della val di Fassa). Si contrappongono Vecchi e i giovani ballerini, che oscillano dalle fisionomie della bellezza fiabesca agli aspetti più orripilanti  e mostruosi.

Il processo interculturale

Per inverso di recente (e anche questo è uno dei tanti ossimori riscontrabili nello spettacolo) è dato spazio alla presenza di gruppi allogeni di diversa etnia giunti sul territorio: figuranti e musicisti andini, danzatori brasiliani, noti per le spiccate capacità socializzanti e festaiole. Si denota un processo interculturale e di integrazione aperto alla partecipazione del diverso. Anche in passato queste manifestazioni davano ospitalità a rappresentati e gli interpreti dei cosiddetti “altri”. Si trattava di parodie dello straniero (indiani, cinesi, africani) che a seconda degli stereotipi in uso nel momento si trovavano riprodotti con loro balli, canzoni e costumi tradizionali di fantasia spesso non rispondenti alla realtà. Non per questo con l’odierna conoscenza queste presenze misteriose, legate a popoli appartenenti a mondi lontani sono venute meno. A fianco degli originari interpreti d’oggi si sono affiancate le interpretazioni immaginarie e fantascientifiche di improbabili extraterrestri recuperati da un “esotismo intergalattico”, prodotti dalle saghe spaziali del tipo “guerre stellari”.

L’agonismo e la premiazione

La passerella dei costumi e delle tematiche prodotte reca una chiara impronta agonistica che si traduce nella gara. Vi partecipano divisi in categorie i gruppi, i carri e i singoli. Il premio gratifica chi si è particolarmente distinto per capacità evocativa, originalità e costituisce la giustificazione formale di tornei, corse, giostre, esibizione di costumi e maschere. Per l’occasione solitamente interviene una apposita giuria formata da cittadini esperti.

Il rito processionale

L’essenza rituale è rappresentata dal corteo che un tempo percorreva il corso principale e raggiungeva il centro cittadino. Di recente per motivi di sicurezza queste sfilate vengono escluse dal centro storico e  deviate verso percorsi periferici più spaziosi. Viene in parte a dileguarsi la riuscita coreografica e la funzione esaugurale che conferiva al carnevale la vera e propria mansione di fungere da vera e propria processione laica. La rappresentazione esorcizzante iniziata con la purificazione e le abluzioni simboliche (lancio di coriandoli e stelle filanti) si concluderà con la morte di re carnevale, in veste di capro espiatorio e personificazione dell’inverno che muore. Lo spirito della cerimonia è rappresentato dal re del carnevale che il primo giorno della festa legge il proclama ampolloso, fatto di promesse ed auspici che si dimostreranno poi irrealizzabili. Come ogni potente che fallisce questo monarca dell’allegria finirà ammazzato (bruciato o impiccato) dai suoi stessi sudditi l’ultimo giorno di baldoria fissato nel martedì grasso. Alle comuni radici di questo atto cruento si configura il rituale dall’azione sacrificale. Tale concezione si riallaccia alla tradizione di un mito millenario secondo cui solo attraverso un atto cruento che richiede una vittima, un capro espiatorio, potrà successivamente realizzarsi per la comunità un momento di prosperità.

 

Splendore e decadenza del carnevale

Non solo da oggi si parla di crisi del carnevale e la partecipazione a questa festa sembra di anno in anno diminuire. Non la si capisce più, il carnevale è morto e a ridargli la vita non valgono le benemerenze dell’associazionismo. Non si sopporta più e quando non è apertamente osteggiato viene a malapena tollerato alla stregua di una eccentricità da confinare tra i relitti storico-folclorici di un tempo inesorabilmente trascorso. Il carnevale è nato in stretta relazione con il naturale ciclo delle stagioni. Il suo apparire in un momento particolarmente significativo e cruciale dell’anno segnava il passaggio dalla stagione invernale alla primavera, dal momento della semina e quello del raccolto. In questo calendario arcaico adempiva alla necessaria funzione di spartiacque, di aiuto ad allontanare le paure (delle tenebre, del freddo, della fame) e potenziare le speranze collettive (della luce, del calore, della prosperità), al fine di spronare la volontà di rinnovamento, accendere la speranza al superamento delle condizioni di ristrettezza e di disagio. Seppur temporaneamente assumeva il compito d’allontanare i rigori fisici e la rigidità morale che nelle società tradizionali venivano imposte alla vita comunitaria. Che ragione c’è a far rivivere una festa così lontana dai parametri e dalle necessità odierne? Alla luce di queste riflessioni l’attuale sua sopravvivenza può apparire un fatto anacronistico o semplicemente riducibile ad una nostalgica e patetica rievocazione. Se l’evento risulta essere in perfetta sintonia con i cicli arcaici che hanno per secoli retto le sorti delle civiltà basate sull’agricoltura, non lo è con le dinamiche della società industriale o postindustriale. La società moderna ha letteralmente fatto tabula rasa delle costrizioni e dei canoni sessuali, digiuni alimentari, rigore sessuale che bene o male reggevano la struttura etica della società antiche. Il raggiungimento di una apparente migliore tenore di vita ha tolto spazio alle sue originarie prerogative. Lontano dal ritmo stagionale del mondo naturale l’uomo moderno ha empatia solo per le condizioni meteorologiche giornaliere che vengono distribuite dai media. Che voglia c’è d’abbuffarsi o di ubriacarsi se regolatamente è possibile farlo quotidianamente?  Perché scegliere un particolare momento dell’anno per svagarsi quando è possibile farlo in ogni momento e, almeno apparentemente, il divertimento è alla portata di tutti? Le teorie che hanno retto l’incrollabile fede nel progresso da qualche tempo hanno iniziato a manifestare delle crepe. Non è comunque assodato che il principio di miglioramento costante e incondizionato per tutto e per tutti sollecitando le utopie dell’uomo moderno sia poi così realistico. Oggi anche se apparentemente più liberi e spregiudicati non per questo sappiamo divertirci più di ieri. Vivere più a lungo non necessariamente significa vivere meglio. Non si muore più di peste, di pellagra o di tifo ma di infarto, di cancro, di Covid. La qualità ambientale, l’intensità dei sapori e delle passioni che proviamo siamo sicuri che oggi siano più intense e migliori delle passate?

In questa società informatizzata siamo veramente più informati o più manipolati? La nostra civiltà è passata dal politeismo al monoteismo ed è naufragata nell’ateismo. Ma anche l’uomo moderno non può vivere senza dei e i nuovi  hanno il nome di consumismo, indifferenza, individualismo. Forse rispetto al passato abbiamo sciolto alcune catene materiali ma ne sono sorte altre,  più pesanti, quelle mentali. Sono queste ultime meno temibili?

In una società della «surmodernità e dei non-luoghi» (descritta da Marc Augè) e della  megaurbanizzazione, fondata sui principi dell’utilitarismo e della crescita infinita (raccontata da Serge Latousche)  quando il fenomeno di straordinaria festività non è ridotto ad attrazione turistica o a semplice rievocazione nostalgica è inevitabilmente destinato a scomparire. Privato dell’originaria spontaneità, spente le motivazioni che negli anni scorsi ne avevano favorito la crescita le ingessature odierne sono fatalmente destinate a comprometterne anche le ultime spontanee testimonianze. È difficile pensare ad un possibile rinnovamento capace di coinvolgere l’attenzione della collettività distratta e preoccupata dalle numerose cause contingenti e che possa portare alla riscoperta e al conseguente riutilizzo dei valori primari insiti nella festa. Un’alba chiara di rinascita sembra alquanto lontana, soprattutto se non si accompagna ad una riconsiderazione dei valori umanitari, ambientali (naturali e animali) che costituiscono il vero patrimonio di una società civile. La riscoperta di un modo antico nel concepire l’esperienza ludica, lo scorrere del tempo sintonizzato con le fasi cicliche dell’eterno ritorno, l’accaparramento condizionato della ricchezza equiparato alle esigenze dell’effettivo bisogno, sono tutti fattori che potrebbero riattivare l’anima del carnevale. In caso contrario se ne potrà conservare solo l’aspetto esteriore, mummificato, utilizzabile in base alle esigenze di un’arida commemorazione. La perfezione della tecnica minaccia l’uomo e la sua essenza sta diventando antropologicamente disumana. Al lavoratore contraddistinto dall’obbedienza e dalla volontà di incarico non serve più  il carnevale. La parodia del lavoro, rappresentata dalla nuova maschera antigas, è diventata il distintivo più naturale di una automatizzazione, di un travestimento dove l’unico spazio  aperto sembra essere riservato alla metafisica del profitto.

   Walter Venchiarutti

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