Per gran parte della vita cerchiamo di liberarci da vari mali che ci affliggono. Ma se fosse vero quel che dice Pitagora – “una cosa è certa: l’uomo è malvagio” – gli sforzi che l’uomo fa per salvarsi dal male non sarebbero che paradossali tentativi di salvarsi da sé stesso.
Del resto, l’enorme proliferazione di testi etico-religiosi che ci esortano al bene, alla compassione, alla giustizia etc., sarebbe incomprensibile e pleonastica se fossimo già inclini a tali virtù per indole naturale. Bisogna supporre viceversa che vi sia in noi una congenita tendenza al male. Per questo la nostra cultura ci invita all’amore del prossimo, cercando di limitare i danni che il nostro odio e il nostro egoismo potrebbero arrecare alla vita in comune. È tuttavia un richiamo teorico, che difficilmente supera i confini di un’astratto moralismo.
Confesso per altro che l’espressione ‘il mio prossimo’ mi suona retorica e mi lascia perplesso. Quel che dovrebbe essere ufficialmente ‘il mio ‘prossimo’ mi pare infatti lontano. Ho un analogo problema con ‘i miei simili’, esseri coi quali non trovo in realtà significative somiglianze.
Queste contraddizioni nascono dal conflitto di due piani diversi, quello dei fatti e quello dei valori. La vicinanza di anime non è quella di oggetti fisici o punti geometrici. Il vicino di casa, fisicamente prossimo, può idealmente vivere in un mondo a me estraneo. La mia coscienza si rispecchia nella sua come in uno specchio capovolto. Ciò che è bello per me è brutto per lui, la sua giustizia mi pare ingiusta, la sua verità falsa etc. Viceversa, una persona materialmente lontana può avere con me una vicinanza ideale.
Non riconosco dunque al mio prossimo il carattere inclusivo che gli viene normalmente assegnato. Se vediamo l’essenza dell’uomo nella sua idealità, ‘prossimo’ o ‘simile’ definiscono una contiguità essenzialmente interiore, particolare ed esclusiva, che nasce solo raramente – e involontariamente. Ne consegue che lontananza e diversità sono gli elementi prevalenti nelle relazioni con gli altri.
Vi sono in realtà diversi tipi di ‘prossimo’. Nell’Antico Testamento la parola indica l’appartenenza a una stessa tribù o popolo. Uguali tradizioni, leggi e ritualità comuni, stessi nemici etc. Partiti politici o sette religiose creano una prossimità ancora più stretta, dove la coesione ideale è più forte e vincolante. Il massimo grado di prossimità si realizza nelle strutture familiari, tra coniugi, genitori e figli, fratelli, nonni e nipoti etc. Relazioni che servono più o meno consciamente da modello alle varie forme di rapporti sociali, secondo il principio “tutto quel che è nella famiglia è nella società”. Anche i nostri valori religiosi poggiano metaforicamente sulla ricchezza delle dinamiche familiari, tanto affettive che erotiche, proiettandovi prossimità e intimità amorose, fusioni di menti e di anime.
V’è poi la prossimità con sé stessi. L’uomo è infatti un essere diviso, e le parti che lo compongono sono sovente lontane e in conflitto. Il processo di approssimazione dei vari nuclei intrapersonali al Sé e la loro unificazione è in fondo la strada su cui ognuno, volente o nolente, deve camminare. La prossimità sembra estinguersi solo nella cosiddetta unio mystica, in cui il Sé personale si unisce al Sé divino. Si ha così il dissolversi della vicinanza nell’unità, dove vien meno ogni forma di relazione. Ma prima di perdermi nel Nulla vorrei retrocedere di qualche passo.
Ripenso all’educazione religiosa ricevuta. Per la mia generazione la trasmissione di insegnamenti e valori cristiani aveva un peso significativo sulla formazione della coscienza. Il mio concetto di ‘prossimo’ risale dunque a sermoni e catechismi che mi hanno abituato fin da bambino a considerare mio prossimo l’altro in generale – ovvero, con una certa enfasi, l’Altro. Questa definizione onnicomprensiva andava integrata col dovere di amare il prossimo come sé stessi. Non ho mai capito come ciò fosse possibile. E probabilmente quasi nessuno lo ha capito. Non si spiegherebbe sennò l’enorme distanza che da sempre corre a tal riguardo tra teoria e pratica.
La teoria stessa, del resto, è controversa. Vedere il prossimo tout court come ‘l’altro’ o ‘il bisognoso’ è un tradizionale pregiudizio, solo apparentemente fondato sull’autorità del Vangelo. Difatti, rispondendo alla domanda “chi è il mio prossimo?”, Gesù non gli conferisce tratti universali. Se ‘il prossimo’ fosse un concetto generale, avrebbe potuto dire: “tutti sono il tuo prossimo” (o “tutti quelli che hanno bisogno di aiuto”). Racconta invece una favola di gusto mediorientale, ambigua ed evocativa.
Si sa che ogni favola induce nell’ascoltatore meccanismi di identificazione che lo rendono ricettivo a un insegnamento iniziatico o morale. Identificandoci con un personaggio ne interiorizziamo le qualità positive: il coraggio, la prudenza, l’astuzia etc. Dobbiamo quindi, anche nel caso della parabola evangelica, individuare il nostro referente. Bisogna però tener presente che la domanda “chi è il mio prossimo?” ne sottintende un’altra: “chi devo amare?”. Questa nozione, a sua volta, è legata al problema di come “ereditare la vita eterna”. Quando tento di ‘approssimarmi’ al senso del racconto devo dunque riconoscerne la natura metafisica e non puramente psicologica o morale.
Un uomo (con ogni evidenza giudeo) si sta allontanando da Gerusalemme, città santa (quindi dalla verità e dalla giustizia). Lungo la strada si imbatte in briganti (i suoi peccati) che lo percuotono e lo derubano di ogni bene, lasciandolo mezzo morto. Passano di lì un sacerdote e un levita. Lo vedono ma non si fermano (sono la moralità e la religiosità teorico-formale dalla quale non possiamo ricevere aiuto). Un samaritano (figura disprezzata dai giudei) prova invece compassione per lui. Gli medica le ferite “con olio e vino” (segni sacramentali), gli trova un riparo e si accolla le spese per la sua guarigione (si fa cioè carico dei suoi peccati, paga per le sue colpe. Allusione forse al tema dell’espiazione vicaria, quella che nelle religioni orientali si direbbe “trasferibilità del karma”).
Abbiamo dunque cinque personaggi. Tranne casi patologici, penso che nessuno si immedesimi nei ladroni. Il sacerdote e il levita suscitano un immediato rigetto, forse perché ci assomigliano. E non è facile mettersi nei panni dell’uomo malmenato e depredato. Resta quindi solo il samaritano. Questa è difatti la lectio communis, succulenta occasione di edificazione morale. Il buon cristiano deve identificarsi nella figura del samaritano, del ‘salvatore’. Il ‘prossimo’ sarebbe perciò l’uomo abbandonato sulla strada, simbolo di ogni nostro ‘simile’ in difficoltà, cui è nostro dovere prestar soccorso.
Lettura che appaga in fondo il nostro orgoglio. Ci permette la compiaciuta bontà con cui ci “chiniamo sulla sofferenza dell’uomo”, riconosciamo nel derelitto “il volto di Cristo” etc. È un’identificazione gratificante, alla quale difficilmente rinunceremmo per cambiarla con l’uomo tramortito e impotente. Obliteriamo così il senso metafisico della salvezza, evocato dalla narrazione, per leggervi quello di una banale assistenza sociale in cui impegnarci.
A questa interpretazione tradizionale si possono opporre due argomenti. Il primo è che il dottore della legge che pone la domanda (“chi è il mio prossimo?”) è giudeo. Quindi sembra logico debba identificarsi con l’uomo, giudeo come lui, che è vittima dei predoni. In secondo luogo, è Gesù stesso a dare una diversa chiave di lettura.
Se ci atteniamo al testo, dobbiamo concludere che il prossimo non è lo sventurato ma colui che ne ha compassione («Chi ti sembra sia stato il prossimo?» … «Chi ha avuto compassione di lui»). Il termine ‘compassione’ ricorre spesso nel Vangelo. Si tratta di un sentimento viscerale e uterino. Il samaritano ha compassione del giudeo, il padre ha compassione del figliol prodigo, il padrone ha compassione del servo indebitato. Gesù prova compassione per la vedova che ha perso l’unico figlio, per il cieco, per il lebbroso, per la folla affamata, e reagisce alla loro sofferenza con un intervento liberatorio. Lo stesso samaritano può apparire quindi come allegoria di Cristo.
Questo provoca uno slittamento della normale prospettiva. Possiamo così vedere che non siamo noi i salvatori. Siamo invece noi (ridotti a mal partito dalle nostre colpe) a essere salvati dal ‘samaritano’. E la nostra salvezza avviene senza alcun merito da parte nostra. Siamo feriti, in stato di incoscienza, non facciamo nulla per esser degni d’aiuto ma qualcuno si prende cura di noi.
Questa diversa messa a fuoco richiede che usciamo dall’ottica di una moralità pelagiana, che riduce la salvezza a capitalizzazione di atti virtuosi, e la nostra fede a contabilità di debiti e crediti. Vediamo allora che la pratica di virtù morali lascia l’uomo nella dimensione del tempo, non lo rende “erede della vita eterna”.
È tuttavia innegabile che la parabola offre un secondo livello ermeneutico, in cui noi stessi dobbiamo farci prossimi, cioè aver compassione degli altri (“fa’ anche tu lo stesso”). È il piano dell’imitatione Christi. Ma l’imitazione scimmiesca di un gesto non significa condividerne il senso e il sentimento. E la parabola sembra volerci dire, più profondamente, che non possiamo amare se prima qualcuno non ha amato noi.
Se amare non dipende dalla nostra volontà, un ostacolo insuperabile si frappone dunque tra noi e la salvezza. San Paolo lamenta lo stesso impasse a proposito degli ultimi due comandamenti, dove ci vien imposto di non desiderare. Questo ci condanna a priori, dato che il desiderare è moto naturale e incoercibile.
Allo stesso modo, amare non è il prodotto di un sistema nervoso volontario che comandi ai muscoli di muoversi, di dire o fare qualcosa. Se scendessimo dentro noi stessi, passando dal livello degli atti e dei discorsi a quello dei pensieri, delle emozioni, di quelle impressioni latenti e cruciali che gli indù chiamano vasana, vedremmo il potere della nostra volontà svanire tra ombre inafferrabili.
Sembra dunque ci sia data una legge – amare – che non dipende da noi rispettare e che fatalmente rende inutili le nostre ‘buone intenzioni’. Così, nel tentativo di salvarsi l’anima dissimulando il desiderio o simulando l’amore, il buon cristiano diventa di solito uno scrupoloso ipocrita. Oppure pensa, facendo opere buone, di “ereditare la vita eterna”.
Si pone allora qualche obiettivo filantropico, cerca di ricordarsi dei poveri, di “vedove e orfani”, dei malati, di estranei che versano in stato di bisogno etc. Tutte degnissime e necessarie ‘opere di misericordia’. Ma sono gesti che si possono compiere senza amore, unicamente per compiacere un ideale morale o intellettuale.
Questo ‘fare il bene’ diventa a volte quella forma di elemosina che, come direbbe Emerson, avvilisce chi la riceve e chi la concede. Un altruismo che tampona i sensi di colpa di chi dà mentre ferisce la dignità di chi prende. L’aiuto dato senza amore crea infatti un’offesa e un’umiliazione. È difficile allora che non si crei un oscuro risentimento verso chi ce lo offre.
Ovviamente “amare il prossimo” è possibile. Sarebbe inutile parlarne se non vi fosse in noi un naturale e quasi biologico altruismo. Sviluppare comportamenti solidali con gli altri membri del gruppo è tipico degli animali che vivono in comunità organizzate. La trofallassi delle formiche, delle api o delle termiti, per quanto possa apparirci disgustosa, è un tipico esempio di istintivo ‘amore del prossimo’. Nell’uomo questo sentimento può allargarsi oltre la sfera dei legami intimi, familiari o sociali, e indurlo a compatire ogni creatura che soffre, anche la più infima. È quel ‘rispetto della vita’ che sta alla base del pensiero buddista, dell’etica dei quaccheri, di Tolstoj, Schweitzer etc.
Questo non risolve però il problema di fondo. Non possiamo infatti decidere liberamente di provar compassione per qualcuno. È un sentimento che nasce spontaneamente quando – anche con un insetto, un fiore – si stabilisce un rapporto di prossimità e di rispecchiamento empatico. Allo stesso modo, per ragioni opposte, si creano antipatie e ostilità.
La natura involontaria dell’attrazione e della repulsione è causa di frustrazione per ogni moralista. Per essere prossimi bisogna attrarsi. Non possiamo unirci a chi non amiamo. Ci troveremmo a patire quell’angoscia che Nietzsche chiamava “soffrire di moltitudine”, ovvero di una solitudine moltiplicata.
Moralistica è pure una visione che assolutizzi l’amore, rimuovendone l’Ombra. C’è un detto buddista secondo cui quando Buddha aumenta d’un piede anche Mara (il demonio) cresce in egual misura. Dobbiamo dunque accettare come necessaria la reciprocità di bene e male, di amore e odio. Chi rifiutasse questa relazione complementare renderebbe incomprensibile l’intera realtà. L’amore è in sostanza una struttura di valori. E se si amano dei valori è naturale avere in odio ciò che li minaccia e li contraddice.
Non ho perciò alcun amore da offrire ai ‘briganti’ che oggi tramortiscono e spogliano l’Uomo, né ai loro complici o a coloro che, come il sacerdote e il levita, passano, guardano e tirano avanti. Chi ha un animo più nobile e magnanimo del mio può forse perdonarli o pregare per loro. Ma per amarli dovrei trascendere i limiti della natura umana. Posso invece amare il mio prossimo, cioè chi condivide e soccorre i miei valori feriti, l’Arjuna che prende le armi e distrugge gli esseri malefici, nemici del Dharma, che vogliono cancellare il volto dell’Uomo.
«Alla scuola del fiero amore si apprende l’ira sublime», dice Guglielmo di Saint-Thierry. Di questo abbiamo bisogno, più che di un affettato e farisaico amore del prossimo. Il fiero amore e l’ira sublime sono oggi “l’olio e il vino” con cui ungere le ferite della nostra società. Viatici verso un bene sempre imperfetto ma che rende possibile la vita. In un mondo dove l’amore e la bellezza, la libertà e la verità, ci si offrono solo per approssimazione.
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