8 Ottobre 2024
Filosofia Idealismo

Appunti critici sulla filosofia idealista 2^ parte ~ Fichte e Schelling a cura di Antonio Filippini

Nella polemica nei confronti di un certo tipo di filosofia, ci sono dei grossolani riscontri da fare, che mostrano la netta superiorità dell’“Essere” nei confronti del semplice filosofare. Un albero, per esempio, per “essere” non ha affatto bisogno di conoscere il suo biologismo né di porsi angosciosi problemi su chi sia, esso è e basta, la natura intrinseca delle cose deriva dall’Essere e non dal mentale. Naturalmente qui per “Essere” non si intende quello di certi filosofi greci, per i quali era più che altro un esistere in forma biologica o materiale, ma ci si riferisce a quell’Essere che “è ciò che è” degli inizi che induce l’“io sono” o il “senso di sé” in tutte le cose. Il semplice “pensare” una cosa, non è sufficiente per porla in atto, il renderla operativa e autonoma implica infondergli qualcosa d’altro che è di pertinenza dell’Essere; se è il semplice mentale a “dare via del suo”, così si creano delle cose che sono poco più di semplici larve psichiche, come quelle che parassitano certi filosofi e altri elementi “politicamente impegnati”. Il principio di “identità” e il principio di “non contraddizione” sono la logica conseguenza della legge dell’Essere e non un semplice artificio logico; se nel sasso è presente un qualcosa che dice: “io sono sasso”, questo qualcosa non potrà mai smentire né contraddire sé stesso.

La polemica riguardante l’esistenza della “cosa in sé” non ha tenuto conto dell’angolo visuale e della possibilità di dislocarlo diversamente; se l’io individuale dice che l’esistenza della cosa in sé è contraddittoria e che se esistesse sarebbe incomprensibile, si potrebbe ribattergli che sarebbe sempre comprensibile e non contraddittoria per l’Essere che è.

Prima di procedere si deve però precisare che il significato che i filosofi moderni danno a certe parole, non è lo stesso di quello che esse hanno nella metafisica tradizionale, come quella orientale o del Guenon. L’ “assolutamente incondizionato” di Kant, per esempio, è solo l’indefinitamente condizionato, perché l’incondizionato non può essere fatto di elementi condizionati, sia pure in numero indefinito; il loro “Infinito” va sempre inteso come indefinito; il loro “Spirito” non ha nulla a che vedere con il “Sé” o l’Atma degli orientali, ma è sempre riconducibile alla coscienza dell’essere individuale. Clamorosa è la “gaffe” di Hegel, che sostiene che l’infinito è limitato dal finito, siccome quello è infinito, allora il finito limita illimitatamente l’infinito e quindi è come se fosse esso stesso infinito. Questo è solo un giocare con le parole. Prima di procedere a certe costruzioni intellettuali, bisogna andare d’accordo sul significato delle parole, e non mettersi a fare i furbi stiracchiando il loro significato secondo la convenienza o addirittura capovolgendone il senso.

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L’impostazione iniziale del Fichte era abbastanza in linea con la visione tradizionale, quindi si può dire che ha intuito qualcosa di vero, ma poi ne è seguita la solita elaborazione sbagliata, causata dalla solita orizzontalità immanente che nega per principio ogni rapporto trascendente. All’inizio Fichte afferma che lo spirito non è condizionato dall’essere ma preesiste ad esso, questo sarebbe senz’altro vero se per “Spirito” intendesse il Sé o l’Atma degli orientali, ma così non è, perché a “Spirito” e a “Essere” sono dati tutt’alti significati, allora tutto viene distorto. Queste distorsioni iniziali condizionano tutto il resto e allora ne derivano delle costruzioni artificiose che sono un semplice prodotto del mentalismo e che poco hanno a che vedere con il dato di fatto reale.

Ufficialmente l’Io con la maiuscola di Fichte dovrebbe essere identificato con il Sé, poiché è dato come infinito e assoluto, ma poi nella pratica è ridotto alla semplice soggettività. Questo significa non tener conto del senso delle parole o farsi idee sbagliate su quel che significano, perché se questo Io – Spirito infinito e assoluto è tale, non può essere ridotto alla semplice soggettività, né può essere visto come un semplice concetto che nasce dalla coincidenza del pensante col pensato, e già qui noi vediamo un’unità costruita a posteriori. A differenza di quanto avviene làvyasa-1[1] nell’Oriente dove il Principio Primo è dato come motore immobile, l’Io iniziale del Fichte è dato come pura attività, e questa è un’altra nota stonata. Fichte costruisce lo sviluppo logico dell’Io come pura attività dell’Io che all’inizio pone sé stesso (questo sarebbe il presupposto di ogni consapevolezza), ma questo non spiegherebbe l’esistenza della Natura né di una molteplicità di altri Io e allora la prima formula è modificata così: “L’Io pone nell’Io il non-Io”, questo non-io sarebbe tutto quanto è opposto all’Io. Qui interviene la prima impostazione dialettica erronea, poiché l’Io e il Non-io sono messi in una posizione contraddittoria, che significa che l’uno negherebbe l’altro, facendo finta di non vedere che possono essere solo diversi, e non sempre la diversità significa contraddizione, ma il filosofo idealista non può accettare che due elementi siano semplicemente diversi, perché la loro diversità rimanderebbe a un principio primo che starebbe per forza di là da essi, e quindi si aprirebbe pericolosamente verso la trascendenza (passaggio obbligato). L’Io iniziale, essendo pura attività, questa per realizzarsi esige una opposizione, altro grosso errore, perché un attivo per esplicare la sua azione e per farlo in modo intelligente, ha semplicemente bisogno di un passivo su cui agire, tale passivo in nessun caso si oppone all’attivo e questo per un’impossibilità di fatto. Esempio: non risulta che il mattone (elemento passivo) opponga un’accanita resistenza al muratore (elemento attivo) perché non vuole farsi prendere, è che avendo un certo peso, il muratore dovrà fare un certo sforzo per sollevarlo ma nulla più di questo. Dov’è l’opposizione, la contraddizione, l’accanita resistenza dell’elemento passivo, esiste solo nella mente bacata del filosofo dialettico.

Siccome l’Io iniziale ha bisogno di un passivo su cui agire, allora tale Io pone il Non-io, il Non-io a sua volta limita l’Io, il quale, riflettendosi su questo limite, acquisisce coscienza di sé in quanto trova in sé la propria limitazione. Però l’opposizione (abbiamo visto che è inesistente) del Non-Io all’Io implica che questo sia limitato, ma tale Io nella sua assolutezza non può tollerare limiti, allora deve esistere o essere “postulato” un io più limitato (altro passaggio obbligato) pur sempre contenuto nell’Io, e allora la formula finale diventa: “L’Io oppone, nell’Io, al non-io divisibile, un io divisibile”.

La descrizione telegrafica fatta di questa problematica della filosofia idealista, dove si può già intravvedere quella: tesi-antitesi-sintesi che poi Hegel svilupperà in un altro modo, a una persona “informata sui fatti” tale ricostruzione intellettuale risulta essere più che altro un’imitazione piuttosto parodistica (sia pure involontaria) delle tematiche della metafisica orientale, fino al punto da chiedersi se si debba perdere il proprio tempo nel tentare di comprendere ciò che non sono altro che congetture mal poste e peggio ancora risolte, quando tale metafisica è molto più profonda e coerente.

Interessante notare che il Fichte è stato costretto a mutare le sue formule fino a quella finale, dove: “L’Io oppone nell’Io, al non-io divisibile un io divisibile”, che riecheggia quella del ternario creativo classico, interpretato però in chiave immanente, e dove tutti quei “passaggi obbligati” tradiscono la forzatura.

Siccome il grande Io iniziale di Fichte assomiglia un po’ troppo al Sé (che è di natura trascendente), era fatale che questa impostazione venisse criticata da Schelling e poi screditata da Hegel. Per Schelling l’Io puro di Fichte è una mera astrazione, un concetto arbitrariamente costruito all’unico scopo di poterne dedurre il finito. Il monismo idealista di Fichte consiste nel ricercare le radici dell’oggettività della Natura in quello stesso principio da cui trae origine il Soggetto empirico. Entrambi gli autori sono d’accordo nel far nascere la conoscenza dalla contrapposizione di un conoscente a un conosciuto (ennesima contrapposizione di troppo, fin dall’inizio la conoscenza nascerebbe dialettica. Altro obbligo).

La “riflessione” nasce dal fatto che l’uomo si mette in opposizione con il mondo esterno e allora impara a separare l’oggetto dell’intuizione, cioè il concetto, dalla sua immagine reale e alla fine si fa oggetto a sé stesso. Quasi come te la racconta il vedantino Raphael: “La mente proietta il soggetto e l’oggetto (l’io e il non-io). Poi il soggetto vuole conoscere l’oggetto come fosse una cosa distinta. In questa rincorsa per catturare l’oggetto in movimento, il soggetto non si accorge che l’oggetto non è altro che l’altra faccia di se stesso. Abbiamo così che il ladro si traveste da poliziotto per catturare il ladro che è sempre lui stesso” (La via del fuoco – Ãśram Vidyã)

250px-Schelling_Spirito-Natura[1]Per Schelling, per cogliere il principio primo della realtà si deve fare astrazione sia di colui che intuisce e sia della cosa intuita (sia dell’intuente e sia dell’intuito) e considerare il puro atto dell’intuire, che allora apparirà come unità indifferenziata di soggetto e oggetto, di Spirito e Natura. Là Raphael colloca la mente all’inizio, che quindi è data come unità iniziale, qua l’unità è data dopo e consiste nel “puro atto dell’intuire”, che è messo al primo posto, e non si capisce come faccia a stare in piedi da solo senza un elemento che lo agisca (che quindi doveva esserci da prima) e senza una realtà da intuire. Apparentemente sembrano la stessa cosa, ma là l’unità iniziale era da prima e si presenta come un principio gerarchico (la mente che proietta), mentre qua è nata dopo e poggia su uno strano miscuglio “intuente” composto da soggetto e oggetto rimescolati; si tratta dell’espressione dei due punti di vista: trascendente e immanente, che dovrebbero sovrapporsi, solo che l’immanentismo nega per principio la trascendenza e concepisce l’unità come semplice miscellanea delle cose esistenti. Siccome l’Io di Fichte era un po’ troppo verticale e quindi gerarchico, ecco allora che interviene subito la rettifica, Schelling immagina un principio iniziale dalla natura ibrida, composto dal rimescolamento di Soggetto e Oggetto, di Spirito e Natura, concezione tipicamente immanentista.

Notare l’ambiguità del concetto elaborato: “indifferenza di Soggetto e Oggetto, di Spirito e Natura”, che vuole dire tutto e niente allo stesso tempo. Indifferente in che senso? Nel senso di agnostico, non credente? O nel senso di non differente? Perché allora non dire direttamente che sono uguali, che cos’è questo strano pudore? Indifferente nel senso che non gli importa essere questo o quello e quindi il soggetto e l’oggetto gli sono indifferenti? Ma allora che sarà mai questa cosa?

Secondo Schelling il processo naturale (vale a dire, il porre il non-io) è si antecedente alla riflessione dell’io, però non si riduce ad essere un puro limite di questa riflessione, perché esso è anche Spirito, magari ancora inconscio ma in moto verso la coscienza.

Being_Parmenides[1]Quindi la Natura fa parte dell’Assoluto, il quale non è né puramente soggettivo né puramente oggettivo (allora deve essere una natura ibrida, perché se uno non è né totalmente bianco né totalmente negro, può essere solo mulatto; che sia per questo che vogliono imbastardirci con i negri, per farci diventare “assoluti”?) Schelling sostiene anche che Spirito e Materia sono una cosa sola, un’altra affermazione ambigua, derivante dal concepire l’unità come miscellanea del tutto esistente; se è vero che Spirito e materia non devono essere messi in contraddizione tra loro, però è anche vero che non vanno confusi, né interrelati in un rapporto interdipendente ed egualitario.

 I filosofi moderni non hanno percepito la sottile differenza esistente tra l’Essere e l’io e tra l’Essere e l’uomo; l’Essere è anche l’io individuale, ma questo è solo una semplice proiezione dell’Essere; l’Essere è anche l’umano ma l’uomo ridotto a sé stesso, come semplice condizione esistenziale, è solo questo senza essere l’Essere. L’io individuale in cui noi ci identifichiamo, è solo un aspetto, una proiezione del nostro Essere totale, perciò qualsiasi costruzione filosofica poggiante esclusivamente su questo io individuale, sarà sempre incompleta e anche fallace. Un’altra versione del processo creativo è basata proprio su questa distinzione. Quando noi ci incarniamo, una proiezione del nostro Essere si manifesta come il nostro io individuale, l’altra si sovrappone alla realtà esterna e ci viene incontro dal di fuori, letteralmente, noi ci troviamo immersi nel nostro mondo interiore che si è oggettivato in forma simbolica sotto forma di realtà esteriore. Questa duplice proiezione, essendo stata fatta dal medesimo Essere, conferirà alle due proiezioni la medesima natura dell’Essere: “è ciò che è” l’io individuale ma lo è pure la cosa in sé o la Natura, che quindi esisterà in sé e di per sé, e così deve essere se non si vuole introdurre una contraddizione all’interno dell’Essere. Quindi la realtà esterna descrive le potenzialità dell’Essere, anche del nostro Essere, e nei confronti della quale, è meglio evitare rapporti di dipendenza, sul tipo: “questo dipende da me”, perché se non hai forza sufficiente per confermare l’assioma, questo si capovolgerà e sarai tu a dipendere da quello! Meglio limitarsi a dire: “io sono anche questo”. Che poi la “cosa in sé” sia inconoscibile e contraddittoria per l’io razionale, questa è una cosa secondaria e insignificante. Il simbolo non è una semplice costruzione mentale, né è qualcosa di arbitrario, rimanda sempre a valenze superiori estremamente reali e vitali, il problema non è quindi l’esistenza della “cosa in sé”, ma il fatto che l’uomo moderno ha perduto la capacità di risalire il simbolo e di risolverlo in quelle realtà superiori di cui la “cosa in sé” è solo un simbolo esteriore.

La stessa cosa vale per il rapporto fra noi e gli altri. Io mi sono incarnato sotto certe modalità e sono ciò che sono, se mi fossi incarnato sotto modalità diverse, sarei stato questo, quello, quell’altro ancora ecc. Gli altri descrivono esteriormente le possibilità del mio nucleo profondo, è come se si fossero identificati con le possibilità del mio Essere, quindi io, o meglio, il mio Essere, comprende anche gli altri, è anche gli altri.

Abbiamo visto che la duplice proiezione dell’Essere principiale, non è la questione dell’io che pone il non-io, ma dell’Essere che si differenzia in se stesso per poter “lavorare” su di sé, questo implica che questo Essere ha dei problemi da risolvere, che non può risolvere se rimane monade, ma potrà risolverli se darà luogo a questo procedimento.

La creazione segue sempre una logica ternaria, là dove risulta una dualità esterna, è perché il primo fattore o è indefinito, o informale o incondizionato; la triade della dialettica hegeliana è solo imitazione parodistica, poiché è fondata su un solo fattore sottoposto a tre momenti contradditori diversi.

I Toltechi di Castaneda danno lezione alla saccenza dei moderni, soprattutto di umiltà, là dove il loro primo comandamento (della regola dell’agguato) recita: “Tutto ciò che ci circonda è un mistero imperscrutabile”; e il secondo prosegue:” Possiamo solo tentare di dissipare questo mistero, senza però sperare di riuscirci”. E ancora: “Gli uomini sono esseri eccezionali in un mondo eccezionale e né l’uomo né il mondo possono essere ritenuti concetti finiti”.

Il mondo del Tonal è il mondo della forma, è il mondo dell’inventario, chiamato così perché tutto viene catalogato. Quando noi nasciamo, ci ritroviamo in un caos percettivo, perché siamo immersi in un mondo energetico caotico che non sappiamo ancora interpretare; con la cura parentale e l’educazione ci insegnano a inventariare la realtà, ci insegnano ad associare a un certo stimolo o percezione un determinato significato, questo da una parte, ci permette di porre ordine nel nostro caos percettivo, ma dall’altra ci tarpa le ali, perché ci inchioda irrimediabilmente a quel determinato tipo di realtà e a quella determinata sensibilità percettiva, mentre noi ne abbiamo a disposizione molte altre. Qui noi vediamo la conciliazione dell’idealismo col realismo, perché noi nasciamo in un caos energetico che già c’è e non dipende da noi, e che apparentemente sembra non avere alcun senso e questo è realismo, al quale conferiamo certi significati, magari anche arbitrari, e questo è idealismo.

Bibliografia:

Emanuele Severino – La filosofia antica – La filosofia moderna – Rizzoli Ed.

Ludovico Geymonat – Storia del pensiero filosofico e scientifico – Garzanti

Raphael – La via del fuoco – Ãśram Vidyã

René Guenon – L’uomo e il suo divenire secondo il vedanta

Norbert Classen – La saggezza dei Toltechi – Ed. Il punto d’incontro

Julius Evola – Saggi sull’idealismo magico – Ed. Alkaest

A. Schwaller de Lubicz – Insegnamenti e scritti inediti – Ed. Mediterranee

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