di Mario M. Merlino
Ieri sera ho cenato da Claudio a Frascati, dopo che con l’amico Rodolfo s’era presentato il libro su Adriano Romualdi, mangiando bene e troppo. Chissà perché m’è venuto a mente il pasto frugale degli Spartani a base di pane d’orzo formaggio fichi e quell’intruglio di brodo nero, una specie di zuppa a base di sangue e carne di maiale con aggiunta d’aceto, conosciuto in tutta la Grecia e da tutta la Grecia ‘schifato’ (si racconta come un noto gaudente, conosciutane la ricetta, esclamasse: ‘ecco perché gli spartani non temono la morte!). E, da qui, risalendo aggrappato agli anelli della catena (discendendo, meglio) della memoria alla Grecia dei colonnelli, aprile del 1968, primo anniversario del loro avvento al potere.
Sono all’università, come ogni mattina e, ovviamente, negatomi all’ascolto delle lezioni, troppo faticoso impegnare la mente alla riflessione filosofica mentre la mente e il corpo sono in piena burrasca ormonale su rivoluzione e dintorni, mi godo il primo tepore di primavera (‘non si discutono: sono poesia’, sentenzia Pound accostando un’idea ardita di Platone con il vento d’aprile), stravaccato ai bordi della fontana della Minerva. Mi raggiunge il responsabile della Caravella, Cesare, sempre con il suo fare misterioso e cospiratorio, da buon calabrese, e con il tono basso di voce nel timore d’esser costantemente spiati (il che era maledettamente vero…), tanto che mi tocca fare una faticaccia per seguirne le parole.
‘Si parte per la Grecia , ospiti dei colonnelli. Tu vieni con noi… però ti devi tagliare i capelli la barba e metterti una giacca e, a proposito, siccome io non ho nulla di decente, questo giubbotto di renna me lo presti (di cui non ho visto la resa, ma va bene così perché, per evitare equivoci, Cesare è stato ‘un grande’ e, per tanti anni, il mio medico di base)’. Un giovane – allora! – hippie e libertario, che già tentava di coniugare l’anarchia con il fascismo, a quale compromesso dovette cedere per godersi una ‘vacanza’ nei luoghi dove, con Roma, tutto ebbe inizio (la filosofia e la nascita della tragedia, intendo dire, non i golpe presunti reali tentati o solo idealizzati e stragi, ferocemente vere, e che tanto male ci sono costate in infamia sbarre chiavistelli e latitanza)…
Siamo due pullman, in uno studenti elleni che tornano per le vacanze di Pasqua e nell’altro noi di Roma di varie regioni e di diversa appartenenza a realtà politiche d’area (termine che sempre più non significa nulla). Ci si imbarca a Brindisi per poi sbarcare ad Igoumenitsa nel nord del paese. In pullman impariamo quella canzone che, sul ritmo del Panzerlied, diverrà successivamente l’inno di Avanguardia. ‘Sui monti nel ciel sulle strade sui mar…’. Sul battello tutti in cerca di uno spazio sul ponte per trascorrere la notte. Finisco sul punto più alto, su una panchina in legno, avvolto nel buio – solo la scia della nave getta una lama di luce – e chiacchierando con una americana decisamente bruttina che, come me, s’arrangia con il tedesco. Il cielo stellato l’oscurità il silenzio discreto non riescono ad ispirarmi alcuna tradizione di romanticismo latino. In compenso ricevo un ‘cazziatone’ dai nostri responsabili che, suppongo invidiosi, vorrebbero stile militaresco e comportamento da monaci di clausura.
In fondo facciamo i turisti, con qualche difficoltà ad unire il pranzo con la cena. Pernottiamo all’Accademia militare, una grande villa fra gli alberi e protetta da alte mura, nell’elegante quartiere di Kifissia, nella parte nord della città. Un paio di guardie in borghese fanno discreta sorveglianza al cancello d’ingresso. Tutto qui. Visitiamo il Partenone. Ne ricavo una certa indifferenza. Troppo visto, troppo decantato, una cartolina in grande. Plaka è una sorta di Porta Portese, più estesa e caratteristica. Mi compro in una delle innumerevoli bottegucce in legno una sacca a corda intrecciata rossa e nera, intonata alle mie tendenze anarcoidi. Gita a Delfi ai piedi del monte Parnaso, sacro alle Muse, centro del mondo e simbolo dell’unità culturale dell’Ellade.
E i militari l’addestramento le tute mimetiche le armi? Siamo venuti qui con le nostre reminiscenze classiche, ma di ben altro avremmo voluto nutrire la nostra fame (‘Colonnello non voglio pane: dammi piombo pel mio moschetto…’). Niente. Un paio di sortite pubbliche, come portare una corona di fiori al Milite Ignoto in piazza Syntagma, sono tollerate, direi con mala grazia. Ancora oggi mi chiedo quale senso nascondesse questo invito, nonostante coloro che, rientrati in Italia, scrivessero sui muri frasi inneggianti ai militari o chiedessero come Roma divenisse simile ad Atene e, più tardi, i giornali e i magistrati si accanissero su quel viaggio come il terreno fertile d’ogni strategia oscura e nefasta.
Eppure qualcosa mi ha insegnato. L’ordine dei militari è la disciplina delle caserme, non la premessa dello stato organico. Platone pensava ai guerrieri simili, almeno in parte, agli spartani e alla loro vita comunitaria. Le grandi rivoluzioni del XX secolo hanno attraversato le caserme, i reduci della Grande Guerra divenuti squadristi o camicie brune o l’Armata Rossa dei treni di Lenin, ma sempre nelle vie e nelle piazze con il manganello e una canzone strafottente. Pochi anni dopo, mentre vegliavo in una notte di dicembre nel secondo braccio di Regina Coeli, qualcuno si adoperava, per vero o per scherzo, a mascherarsi da milite fedele e venirmi a prendere… per fortuna ho dovuto misurare ancora per anni i tre metri per sei della cella. Forse saremmo tutti finiti nel ridicolo di Vogliamo i colonnelli di Mario Monicelli o, peggio, ad essere i primi a conoscere i plotoni d’esecuzione.