11 Ottobre 2024
Cultura Tradizione

Appunti sulla Visione del Mondo: oltre la linea della modernità

Quello inerente alla visione del mondo sia l’argomento essenziale, la base di qualsivoglia progetto metapolitico e tradizionale prima del quale, approfondito, studiato, risolto, sublimato, ogni altro discorso rischia di divenire vano, sterile, abbandonato alla mercè di un ottuso intellettualismo o di un puerile movimentiamo. Il tema senza cui la reiterazione degli errori del passato, delle defezioni umane sul piano della lotta, non potrà essere evitata, non potremo in modo alcuno scongiurarla. Comprendere realmente, effettivamente, interiormente ciò che si è inteso ri-affermare, i Principi e le idee che vogliamo difendere, la spiritualità che aspiriamo a ri-conquistare, è un processo obbligatorio per una comunità organica in via di costituzione, come per il singolo che imbocchi la strada del fronte della Tradizione.
E’ data in quest’epoca una eccezionale opportunità a tutti coloro che sappiano cogliere l’autentica tragicità della civilizzazione moderna, scoprendo l’arcano di un velato, quindi irreale, controsenso. Erroneamente si reputa che una linea, come quella dell’orizzonte, possa essere valicata, metafisicamente e interiormente (“non fissando un limite ad Ecate”), favorendo e scatenando tutta la propria lunare emozionalità. Tale la perversa pretesa della modernità, intesa come società sinarchica omologatrice, ma anche come aspirazione al Sacro di chi si illude di scalare un monte senza un faticoso e specifico addestramento, o di chi si avventura in mare, privo di una solida nave o peggio, senza saper nuotare. Qui si rivela l’arcano del controsenso che non c’è. Il limite si oltrepassa quando lo stesso è disciplinato, integrandolo a livello di comunità e di visione del mondo. Si pongono le premesse essenziali per varcare la linea solo allorquando proprio una linea, un termine, cioè a dirsi una drittura tanto ideale quanto interiore, si realizza. Tale è l’enigma del superamento della modernità: che è ritorno all’origine, al meridiano zero, ove il nichilismo sublima egli stesso la propria condizione deterministica per valorizzarla oltre, onde porsi come mezzo a fine. Una distruzione che prepara una vittoria, forse finale.

 

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“L’attraversamento della linea, il passaggio del punto Zero divide lo spettacolo; esso indica il punto mediano, non la fine.”

(Ernst Jünger – Martin Heidegger, Oltre la linea)

È doveroso prendere le mosse da ciò che a tempo debito ci ha ‘inconsciamente’ uniti, da ciò che ha legato tanti uomini in anni di militanza e di approfondimento tradizionale: da eventi storici come le rivoluzioni antimoderne tra i due conflitti mondiali, per andare oltre e in profondità, onde conoscere (non sapere) ciò che le ha alimentate, ciò che le stesse volevano umanamente e storicamente (con tutti i loro limiti) rappresentare, i loro legami con una Weltanschauung tradizionale. Operare una vera e propria anamnesi platonica, di ricordo primordiale e metafisico, intuendo, vedendo in che direzione tendere il proprio arco. Analizzare limpidamente e serenamente, senza lacci né larve di pensiero ossessivo, i legami intercorrenti tra storia e politica da un lato, metapolitica e Tradizione dall’altro non è cosa semplice, specie per le implicazioni sentimentali che possono intervenire, introdursi per quell’umana tendenza di far discendere tutto al proprio livello considerando, erroneamente, l’umano come riferimento indiscutibile. Terminus a quo che abbaglia e non fa comprendere come l’inferiore, quindi la storia e la politica, non sia in alcun modo suscettibile di indirizzare, giustificare, giudicare il Superiore, la dimensione platonico-realizzativa.

 

Il rifiuto della linearità storico-temporale è acquisizione comune a un determinato schieramento ideale. Analogamente, la ciclicità come valore assoluto e norma assiomatica in sede di analisi. Al di là di specifici riferimenti alla tradizione comunemente denominata hindu, possiamo rifarci sia al tramando esiodeo sia alla conoscenza dei saecula da parte degli Etruschi e dei Romani, oltreché a quello che gli Elleni significativamente definirono grande anno platonico. Da ciò, per via di simbolo e geometria, invitiamo il lettore a considerare una ‘apertura del cerchio’ e a visualizzare come essa produca un andamento ondulatorio, comprensivo di fasi ascendenti e discendenti, all’interno dello stesso ciclo di decadenza: non linea retta in caduta libera, ma tracciato che a momenti, sporadici e non prevedibili, subisce brusche interruzioni verso l’Alto. Quasi un richiamo, talora a stento percettibile, talora confuso, verso il Centro, verso il divino. Tali rotture di livello sono ravvisabili nella storia di tutte le civiltà conosciute e sorte nel Kali yuga: si sono manifestate nell’Egitto faraonico, in Roma antica, nel Medioevo, tra le due guerre mondiali e in molti altri momenti topici della storia remota e recente. In questa sede è d’uopo considerare gli aspetti ideali suscettibili di scaturire da un’analisi storico-politica condotta secondo canoni di universalità e atemporalità, come collante per la riaffermazione della grande tradizione culturale europea, caratterizzata da un’efficace personificazione dello Stato, per la priorità data al volere e al benessere della realtà statuale medesima rispetto a qualunque altro ideale libertario, con un netto rifiuto delle teorie individualiste e contrattualiste. Si rigettava pertanto qualsivoglia approccio il cui elemento cardine fosse l’individuo e per il quale la volontà dello Stato coincidesse con la somma delle volontà dei singoli, a scapito di una profonda, assoluta volontà unisona. L’ordine individualistico ha rappresentato una delle più tormentate fasi di vita che l’Europa abbia mai attraversato per precipitare, in poco più di un secolo dal declino del sistema liberale e di quello sociale, nel dissolvimento verso l’attuale dominante idealità dell’atomizzazione, sua propaggine estrema. La visione statuale di impronta organica si contrappose in ogni tempo a quelle di matrice contrattual-individualista per la sua finalità precipua: elaborare da una massa informe l’entità morale del populus. In altre parole, il compito primario dello Stato tradizionale è quello di permettere a ciascun membro della comunità di sviluppare la propria personalità attraverso il pensiero, l’azione, la lotta e la vittoria, in relazione a qualcosa che trascenda gli orizzonti limitati e numerici dell’individuo, che consenta al cittadino di aderire alla propria conformazione interiore, di fare ordine e giustizia dentro di sé – quindi, a mo’ di riflesso, di fare ordine e giustizia nella comunità organica in cui è immerso, secondo la volontà degli dèi.

 

Giulio Aristide Sartorio, tre decorazioni dell’Aula dei deputati di Montecitorio

L’opposto è rappresentato dallo Stato moderno, in cui l’autorità viene fatta discendere non da un potere fondato nel Divino, ma dalla sopraffazione di una parte sulle altre, processo in cui trova manifestazione il fenomeno totalitaristico, variamente declinato, alieno dallo Stato tradizionale, organico, articolato, differenziato, che secondo un’espressione di Walter Heinrich sia omnia potens et non omnia facens. Tale l’insegnamento da trarre, il sentiero verso l’autentica libertà: non la griglia borghese in cui è incasellato l’uomo-massa in base ai rapporti di forza dettati dalle logiche di produzione o dalla stagnazione della moralina, ma la disposizione interiore a una visione simbolica della propria esistenza, liberamente magica. L’attitudine a un sussulto sovra-razionale, trascendente, scaturente dall’interno, dalla propria natura: il fondamento della visione del mondo e della vita tradizionale è essere se stessi e a se stessi rimanere fedeli.

 

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“E’ necessario risalire in dimensioni primordiali
e simultaneamente penetrare nel profondo di noi stessi e del nostro sangue

fino a ritrovare domini inattaccabili dal sapere profano

e conoscere realtà assimilabili solo se vissute realmente

come potenza e come acquisizioni concrete.

La Via che si deve percorrere è quella della Roma Prisca nella quale i Numi erano pure Forze, prive di nomi e di figura…”

(Gruppo dei Dioscuri, Phersu Maschera del Nume, Fasc. IV, pp. 11-12)

 

L’avvilente rappresentazione cui quotidianamente assistiamo è quella della massa informe che si agita nelle piazze, si affanna, si annichila nel numero: l’imporsi della quantità sulla qualità delle idee, proprio perché l’aberrazione caricaturale del corpo sociale porta, chi si lascia portare, a considerare la vita sempre più in termini utilitaristici e non di valore spirituale, di realtà eterna legittimata dall’Alto. Pertanto il membro della comunità militante non deve abbandonarsi alla corrente di una società esclusivamente volta al consumo, tubo digerente di ed a se stessa, ma in sé rivivificare quello stato d’animo, quella declinazione interiore, in nome del datum principiale sacro alle stirpi eroiche (onore, fedeltà, giustizia, verità, sacrificio), onde cementare l’organicità ed autorità di un consesso di pari che deve, auspicabilmente, assumere i connotati di una vera e propria civitas, di uno Stato tradizionalmente fondato in cui poter liberamente seguire il proprio dèmone. Ciò che va inteso e ribadito delle rivoluzioni antimoderne è primariamente la valenza di riproposizione del Mito, che cerca di incarnarsi nella storia; di idee-forza che sublimano qualità umane forse opportunamente non adeguate, affinché ciò che accadde valga come simbolo a una reazione possibile.

 

Stante una visione del mondo implicante un’etica superore, l’etica di un uomo che risiede oltre le statuizioni della modernità in senso materialistico-meccanicista e riaffermante l’essenza; detto ethos si pone come un vivere nel presente il mondo senza subirlo, oltreché nei termini della necessità della riproposizione attiva di un rapporto di sodalità tra persone che, appartenendo o tendendo a un tipo umano ben definito, si riconoscano e agiscano nel quotidiano. Tutto ciò è sicuramente metapolitica, nel senso più alto; ma è anche azione (e non una forma di molle passività, tanto spesso contrabbandata per una vera opera di testimonianza) palesante un modus vivendi et operandi che fa della centratura di e su sé alternativa vera alla ‘norma’ della moralina dominante. Da decenni, salve eccezioni, si tende a vivere etica e culto in modo discorde, complici le distorsioni peculiari del declino attuale che spingono a considerare i due termini come agenti su livelli distinti e discontinui, non comunicanti; giocoforza, si deve ripensare un equilibrio tra queste dimensioni, non solo correlate, ma bilanciate a un livello profondo.

 

Ethos è parola greca quasi intraducibile, ove non si pervenga a scandagliarne le profondità di significato, parallelamente al concetto di vir inteso in senso organico, quindi saldato con le idee fondanti di populus e quirites. Sacra privata perpetua manento è un tramando giuridico-religioso, un atto di volontà strettamente legato al senso romano di comunità (familiare e gentilizia in primis). Non mancano esempi similari in culture altre, ma a noi sorelle: si pensi alla declinazione germanica dell’idea clanica e si consideri la risonanza in noi della frase “Du Volk aus der Tiefe, du Volk in der Nacht, vergiß nicht das Feuer, bleib auf der Wacht!” (“Tu popolo dal profondo, tu popolo nella notte, non dimenticare il fuoco, resta a sentinella!” – Walter Gättke, 1922). Dunque l’ethos si manifesta nell’agire come nel pensiero, il pensiero e l’azione come volontà e possibilità di avanti per non subire il mondo in cui viviamo, per costituire (anche) comunità di destino atte a spargere una semenza. Scopo di questo afflato, o per meglio dire di questo dovere, non è il risvolto di un’adesione al semplicistico motto ‘Resistere’, bensì una graduale riemersione dalle tenebre della modernità verso un post che non è sterile lancio di sé e della propria comunità verso una sorta di entropico punto-zero come conseguenza dell’accelerazione folle che ci troviamo a vivere.

 

È stato toccato, come previsto, il problema dell’attualità, della diade attuali-inattuali. Anche in questo caso non è da temere il confronto: ove si provi a pensare in termini propri alla metafisica gentiliana, dominata dall’Attualismo e fucina di un vero e proprio pensiero ‘sociale’ del Logos eterno, noteremo senza difficoltà come non la fuga dal mondo o la sterile attesa di un suo improbabile annichilimento caratterizzi la nostra visione delle cose, ma una assoluta reazione all’attuale. A questo punto sarà più chiaro il pensiero e l’agire di chi non si avvita nel nichilismo ma si immerge nella contemplazione e, al contempo, si pone in termini di pensiero dinamico, ossia un pensiero che metta a terra le forme e spazzi via ogni incedere dubbioso. Questa precisazione acquista una valenza concreta, non meramente teorica, in quanto molti di noi hanno in nota gli anni recenti e il percorso formativo ed operativo di molti gruppi, singoli ed associazioni impegnati a vari livelli nell’opera di diffusione di una visione del mondo arcaica, configgente con quella attualmente dominante. Nello specifico abbiamo assistito a vari tentativi, anche onorevoli, di dibattito tra chi ha espresso ed esprime una concezione forse nobile e ‘utile’, ma paralizzata, muta, archeologica della tradizione romano-italica, spesso operando forzate sintesi tra esperienze storiche ‘secolarizzate’, e chi si è lanciato in carnascialesche avventure ‘esoteriche’. Vi è poi chi intende agire ad ampio raggio, mediante una (si spera oculata) attività di penetrazione nel ‘sociale’, col restituire attenzione al ricordo e con l’organizzare attività su vari livelli.

 

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“Colui che ha vinto il principio dell’essere in sé e lo ha risolto in libertà,
lo ha virtualmente risolto anche in ogni cosa,

onde gli si apre la possibilità di un atto assolutamente

– non pure formalmente, ma anche materialmente –

sufficiente a se stesso, di un atto che parta davvero dal profondo,

da una assoluta purità,

iambi sia capace di comandare ed agitare non più

ciò che negli esseri vi è di particolare,

ma ciò che in essi vi è di universale e di sostanziale.”

(Julius Evola, Fenomenologia dell’Individuo Assoluto)

 

A tal punto, precisata l’ottica metapolitica che come limatura di ferro attorno al magnete ci ha in un primo momento agglutinati, resi simili nell’animo, non possiamo non vedere come da tutto ciò emerga una nuova visione del mondo, rinnovata e arcaica allo stesso tempo. Un ricordo, una vibrazione magica che ci rende partecipi dei penetralia mundi, della nostra più profonda interiorità. Una vibrazione che si sviluppa primariamente nell’individuo e nella pòlis in cui vive: quasi simultaneamente, come se i due elementi non possano conoscere sviluppi separati, bensì simbiotici. Un con-vibrare che non si palesa senza ricordo, senza un’anamnesi, come da incipit al presente contributo, essendo due profili inseparabili. Questa vibrazione non-duale è qualificabile in termini di furor, stato d’animo e reminiscenza della nostra Tradizione.

 

Nel retaggio nordico Odhinn colloquia col gigante Mìmir, custode di un pozzo che dispensa sapienza e conoscenza sito ai piedi dell’Albero del Mondo, essendo ‘colui che ricorda’ e conduce verso la via dell’oblio celeste, di contro all’oblio terreno. In questo, l’uomo decade non ricordando più la sua matrice e la sua origine divina; in quello, l’uomo dimentica la dimensione profana, chiude i canali di connessione con essa, non rammenta la propria condizione caduca, onde poter ascendere a piani di sovracoscienza. Similmente l’Ellade conosce Mnemosyne, dea della memoria e paredra di Zeus, madre delle Muse protettrici delle arti di palingenesi ermetica dell’umano nel divino. La dea rappresenta, con la sua fonte anch’essa di saggezza, una delle due vie che l’anima può intraprendere nel post-mortem. Tramanda Platone che a destra, verso Mnemosyne, si conducono i dikaiòi, i giusti; a sinistra gli adikòi:”Chi non ha fresche nella memoria le beate visioni di lassù, o le ha dimenticate del tutto, non si riporta subito all’essenza della bellezza allorché vede quaggiù l’immagine di essa, perciò non la venera quando la vede” (Platone, Fedro, 250e). La memoria squarcia il velo dell’illusione profana, accendendo nell’uomo un vero e proprio fuoco divino: nella tradizione nordica tale fuoco, tale furore, come invincibilità ed invulnerabilità si manifesta nei guerrieri Berserkr e Ulfedhnar.

 

Un’Idea è stata mossa, evocata, anche nel secolo avanti quello che viviamo, da forze che ne hanno richiamato il symbolon. Facciano dunque quadrato coloro i quali anelano fortemente a far riemergere, in primo luogo in se stessi, l’antica voce sacrale di questo nostro Mito che fu carne della razza nostra romana. Occorre che tutti coloro i quali avvertono l’ansia di essere presenti nella storia attuale e fortemente vogliono collegarsi interiormente con la Tradizione, la vera, la vivente, espressione di una forza e di un’idea imperiture, si incontrino, essendo capaci di parlare la stessa lingua. E’ necessario, tramite la memoria, alimentare il furor, l’impetus, come atteggiamento interiore, eroico, veloce da tenere – come Hermes – perennemente sveglio. Come il figlio di Maia, rappresentato nelle antiche effigi con elmo e calzari alati: “Il loro agire non è umano e ciò che è inaccessibile diviene accessibile per loro per effetto della divina ispirazione, e si gettano nel fuoco, vi passano attraverso, attraversano i fiumi. Tutto questo dimostra che essi, nel loro entusiasmo, perdono coscienza di sé e non vivono una vita umana o animale, legata ai sensi e agli impulsi, bensì una vita più divina che li ispira e li possiede completamente” (Giamblico, I Misteri dell’Egitto, p. 63). Un eroico furore che sia espressione di una Vis suscettiva di integrare, ineludibile e necessaria, l’Amor, scaturigine inesausta di vita. Quanto qui riprodotto sinteticamente non si pone come appello propagandistico, bensì come consegna raccolta e passata a chiunque voglia tentare di manifestare, ancora una volta, in piena Età del Ferro l’antica e sapiente parola della Tradizione.

 

“Osserva le mie istruzioni, rifletti su ciascuna cosa

Dopo d’aver posto in alto un’ottima ragione direttrice,

affinché, elevandoti poi nell’Etere radioso,

Tu divenga immortale, spirito eterno, non più soggetto a morte.”

(Gli Aurei Detti di Pitagora, tr. it. a cura di G. Catinella)

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Kal. Februariis MMDCCLXV a.u.c.

Iuno Sospita Mater Regina

Limes

 

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