Sì. Egli dorme in una Cattedrale,
entro l’eterno porfido dell’arca…
Al morto grande imperador di Roma
dissero pace i vescovi di Cristo.
Di lui parlò ‘l rabbino al Dio d’Abramo,
a braccia spante volto all’Oriente.
Per lui, girando attorno al minareto,
le cinque volte il meuzzin cantò.
(Giovanni Pascoli)
Per una sorta di trasbordo ideologico, inavvertito dai molti, consapevole o, addirittura guidato da parte di pochi, si assiste in Italia ad una lenta ed impercettibile sostituzione del tradizionalismo alla Tradizione.
Si tratta di un curioso e multiforme fenomeno storico-culturale, nel quale entrano in giuoco varie componenti, che vanno dalla pigrizia intellettuale al risveglio di sopiti timori religiosi, ai condizionamenti emotivi, fino alla lucida determinazione, da parte di alcuni, di “orientare” l’ondeggiante e confuso ambiente “tradizionale” in direzioni prescelte e ben individuate. In tal modo, in un arco di tempo relativamente ristretto, limitato, in pratica, agli anni settanta, si e venuta offuscando, in molti casi, la nitida consapevolezza dei lineamenti della Tradizione, ad esclusivo vantaggio di varie, forme di tradizionalismo.
Riveste quindi un carattere di particolare interesse ed attualità il richiamare, sia pure per sommi capi, i tratti fondamentali della Tradizione e quindi, alla stregua degli stessi, additare gli errori contenuti nelle più diffuse forme di tradizionalismo che si sono venute affacciando negli ultimi. tempi.
Al riguardo, occorre innanzitutto sottolineare, a scanso di equivoci, che la conoscenza della Tradizione, in Occidente, si identifica con la metafisica imperiale, classica e romana, superiore a qualsiasi particolare formulazione dogmatica religiosa, ed appartiene, di diritto, al Ghibellinismo, che di quella metafisica è la proiezione operante attraverso i secoli, culminata, nel Medioevo, nel programma spirituale e politico del grande Imperatore Federico II, per quanto l’ambiente ed i tempi lo consentivano.
Il primo ed incrollabile fondamento sul quale poggia la Tradizione è rappresentato dalla dottrina dell’Unità principiale e metafisica delle singole forme storiche tradizionali. Esso consegue necessariamente dall’Unicità del Supremo Principio Divino Trascendente, dal quale tutte le manifestazioni iniziatiche, sacrali e religiose, apparse nel corso del tempo, discendono come da una medesima origine.
La consapevolezza di tale Unità fu del tutto chiara ed evidente negli alti esponenti dell’intellettualità classica imperiale. Simmaco, ad esempio, affermò: « Contempliamo gli stessi astri, lo stesso cielo è a tutti comune, lo stesso mondo ci circonda: che importa se ciascuno ricerca la verità secondo il proprio discernimento? non è possibile giungere a sì alto segreto seguendo una sola via » (1).
Dalla dottrina dell’Unità principiale delle singole forme tradizionali discendono la tolleranza religiosa e la superconfessionalità insite nella concezione tradizionale dell’Impero. Esse sono chiaramente contenute nel c.d. Editto di Milano (313) degli Imperatori, d’Occidente e d’Oriente, Costantino e Licinio, i quali in esso affermarono di « dare cioé anche ai cristiani come a tutti libera possibilità di seguire ciascuno la religione che voglia, affinché tutto ciò che è divino nella sua sede celeste possa essere placato e benigno verso di noi e tutti coloro che sono sotto il nostro potere. Abbiamo dunque ritenuto di dover prendere questa decisione con salutare e retta intenzione, che a nessuno si debba negare questa possibilità, sia che uno abbia dato il suo animo alla religione dei cristiani sia a quella che egli ritiene per sé la più adatta, affinché la divinità somma, alla quale noi liberamente prestiamo ossequio, possa concederci in ogni cosa il favore e la benevolenza consueti » (2).
L’Impero, quindi, consacrato alla Somma Divinità comune a tutti gli uomini, come del resto è logico e naturale per una Autorità che è o può essere chiamata a reggere popoli di religione diversa, deve essere, per principio, in certa misura, superconfessionale e tollerante, e non farsi coinvolgere in dispute o lotte religiose, per non venir meno al dovere supremo di garantire Pace e Giustizia ai popoli governati. Tale carattere dell’Impero si comunica altresì a qualsiasi Monarchia che intenda assicurarsi un fondamento tradizionale, e pertanto l’intolleranza religiosa è sempre sintomo sicuro dell’offuscamento del carattere tradizionale del Potere esercitato, e del suo assoggettamento a questa o quella particolare confessione religiosa.
Quanto sopra è stato lucidamente intuito da un autore tradizionale non privo di profondità, Frithjof Schuon, il quale, trattando della relazione tra Impero e Papato, così scrisse: « L’imperatore incarna, di fronte al papa, il potere temporale, ma vi è di più: rappresenta anche, per il fatto della sua origine precristiana e quindi celeste, un aspetto di universalità, mentre il papa si identifica per la sua funzione alla sola religione cristiana. I musulmani di Spagna furono perseguitati soltanto a partire dal momento in cui il clero era divenuto troppo potente in rapporto al potere temporale. Questo, che deriva dall’imperatore, rappresenta in questo caso l’universalità o il “realismo”, e pertanto la “tolleranza”; dunque, per forza di cose, un certo elemento di saggezza » (3).
Noi aggiungiamo che quel “certo elemento di saggezza” risiede appunto nella natura superconfessionale e quindi metafisica dell’Impero, carattere che consente, in Occidente, di individuarne i presupposti sacrali risalendo ad epoca precedente l’avvento del Cristianesimo, senza per questo porlo in antitesi con quest’ultimo, appartenendo metafisica e religione a due piani diversi.
Il riferimento di Schuon alla persecuzione dei musulmani di Spagna ci offre lo spunto per sottolineare che una retta concezione della Monarchia tradizionale (usiamo il termine Monarchia nel significato dantesco) comporta la sua astensione dall’interferire nelle dispute possibili fra le tre Religioni di ceppo monoteista l’Ebraismo,: il Cristianesimo e l’Islam, cosi come, per quanto riguarda l’Europa in particolare, nelle divergenze e separazioni sorte all’interno dello stesso Cristianesimo. Si tratta di problemi tutt’affatto particolari e di difficile impostazione e risoluzione, di competenza delle singole autorità religiose, e la Monarchia tradizionale, prendendo partito per l’uno o l’altro dei contendenti, non farebbe altro che venir meno al suo carattere metafisico ed universale ed all’obbligo di assicurare a tutti la pace e la giustizia. Le guerre di religione che in passato insanguinarono l’Europa sono un esempio storico più che eloquente del terribile scotto che occorre pagare ogni qualvolta ci si allontani dai saldi principii della Tradizione. Basti dunque alla Monarchia tradizionale garantire il libero svolgersi, della vita religiosa dei popoli ed impedire che qualsiasi gruppo religioso possa prevaricare sugli altri.
Ma anche quando il Monarca si trovasse a regnare su di un popolo appartenente del. tutto o nella maggior parte ad un’unica confessione religiosa (ad es. il Cattolicesimo), egli dovrebbe, anche in tal caso, conservare un certo margine di superconfessionalità per potersi dire veramente tradizionale. Soccorre, a tal fine, la dottrina ghibellina per eccellenza, secondo la quale il Potere discende al Monarca direttamente da Dio e non per il tramite dell’autorità religiosa (il Papato, nel caso del Cattolicesimo), secondo quanto dimostrato, una volta per tutte, da Dante Alighieri, nel libro terzo del SUO trattato sulla Monarchia. In tal modo anche una Monarchia cattolica può mantenere, derivando direttamente la sua autorità da Dio e non dal Papato, un certo grado di superconfessionalità, in quanto, secondo una acuta espressione di Frithjof Schuon, “il Cristianesimo è divino, ma Dio non è cristiano” (4), o meglio, riteniamo noi, non è cristiano più di quanto sia induista, mussulmano, ecc.
Vero è, tuttavia, che i guelfi, facendo leva sulla dottrina, peraltro giusta (Giovanni, I, 1), che identifica il Verbo divino con il Cristo, pretenderebbero, per questa via, di estendere la giurisdizione spirituale del Cattolicesimo, e quindi del Papato, non solo alle Tradizioni extra-cristiane, bensì anche a quelle pre-cristiane! Essi però ignorano, o fingono di ignorare, che anche in altre Tradizioni viene rivendicata l’essenza superstorica, trascendente ed universale dei rispettivi fondatori. In tal modo, ad es., nell’Islam si sostiene che Maometto “era” prima ancora che Adamo fosse: « Egli (Mohamed) era Profeta (Verbo) quando Adamo era ancora tra l’acqua ed il fango » (5), mentre nel Buddhismo si afferma addirittura la trascendenza metafisica del Buddha nei confronti dello stesso Essere supremo (6). Donde l’incapacità dei guelfi ad attingere un punto di vista veramente metafisico ed universale e la loro condanna a permanere in uno stato di perenne conflittualità, più o meno latente, con le altre Tradizioni, conflittualità in cui hanno sempre cercato di coinvolgere i Monarchi.
Soltanto al Ghibellinismo, al contrario, in virtù della sua natura superconfessionale, connessa alla metafisica classica dell’Imperium, compete di operare la sintesi suprema, che salda organicamente le varie Tradizioni intorno alla Trascendenza dell’Uno e permette di instaurare giusti rapporti tra le stesse.
Posto dunque il carattere metafisico, esoterico e superconfessionale della Tradizione ghibellina, occorre considerare brevemente anche la posizione che essa assume nei confronti della Romanità, posizione che vale a distinguerla nel modo più netto e radicale dai vari tradizionalismi di stampo guelfo.
La posizione del ghibellinismo sulla decisiva questione si può riassumere nel modo che segue: la Romanità classica imperiale, che operò la sintesi della sacralità del mos maiorum italico con la sapienza ellenica, non si è affatto estinta con l’avvento del Cristianesimo, ma ha continuato a sussistere, ancorché in modo virtuale e non appariscente, conservando integri tutti i suoi diritti, le sue prerogative e le sue potestà. Questa verità, che è oggetto di dimostrazione storico-tradizionale nel contesto di studi avviati in altra sede, (7) è particolarmente riconoscibile nel magistero sapiente di Dante Alighieri, il quale riannoda esplicitamente e dichiaratamente il suo insegnamento sapienziale, sub specie interioritatis ac veritatis, in termini di assoluta certezza esoterica, a quello di Virgilio, il grande Vate iniziato della Romanità augustea.
Lungo gli anelli dell’aurea catena Homeri si è perpetuata la Tradizione classica romana, secondo modalità sacrali che sfuggono necessariamente a quanti sono soltanto infarinati della facile dottrinella pseudoiniziatica relativa alle trasmissioni cartacee “regolari”, con tanto di timbri, bolli e certificati notarili e magari con l’accompagnamento di qualche suggestiva sceneggiata. Certamente costoro non possono nemmeno immaginare che la Fiamma, per propagarsi, non ha alcun bisogno della carta bollata. Valga per essi, dunque, il vecchio detto latino: “Sutor, ne supra crepidam!”,
Non intendiamo tuttavia insistere su di un tema tanto arduo e delicato. Diremo quindi, più semplicemente e pianamente, che grazie all’opera paziente ed indefessa di molti seguaci della Tradizione classica, il patrimonio conoscitivo di essa è giunto sino a noi, malgrado le menomazioni subite a causa di eventi storici catastrofici e dell’ostilità degli uomini, in condizioni di sufficiente completezza, tali da poterne ricavare la dottrina e la prassi dell’Imperium. Il seme si è conservato integro, e da esso può sempre germogliare un grande albero.
Tale dottrina impone, per motivi di geografia sacra ben conosciuti nell’Antichità e ripresi da Dante nel Medioevo, che sede del Monarca sia Roma e che egli estenda la sua potestà almeno all’Italia intera, senza dividere il suo potere con alcuno e tanto meno con il Papato.
Su tale punto occorre essere chiari, perché costituisce un elemento qualificante della dottrina tradizionale ghibellina: il legittimo dominio sull’Urbe e sulla Saturnia Tellus spetta soltanto ad un Monarca romuleo, che si riconnetta cioé, nei modi che i tempi suggeriscono, al mos majorum italico, nel senso di porsi come continuatore cosciente di una Tradizione che affonda le sue radici nell’Italia arcaica, e di rappresentarla, pertanto, conforme allo spirito dei tempi, senza anacronistiche scenografie ma anche senza abdicazioni e rinunzie all’essenziale.
Questo non significa affatto neopaganesimo, sibbene soltanto rifiuto di qualsiasi abdicazione nei confronti della Tradizione classica e, a maggior ragione, rifiuto di considerarla estinta, così come invero la considerano estinta (con o senza imbalsamazione, a seconda dei casi) i vari tradizionalismi guelfi.
Il disconoscimento del perpetuarsi di una vitalità autonoma della Tradizione classica, infatti, è l’elemento di fondo che accomuna tutti i tradizionalismi guelfi, si tratti del guelfismo ispano-partenopeo di Francisco Elias de Tejada, o dello pseudo ghibellismo austriacante di Attilio Mordini, oppure del contro-rivoluzionarismo limitato ed a senso unico di Plinio Correa de Oliveira. Di questi autori, peraltro, e di altri ancora, ci occuperemo specificamente nel prosieguo di questo articolo.
Ciò che invece vale subito sottolineare, è che il ghibellinismo non è in alcun modo ostile al Cristianesimo, già considerato religio licita dell’Impero, come si è visto, nel c.d. editto di Milano. Per il ghibellinismo, quindi, la religione di Cristo è degna oltre che, come è logico, di venerazione da parte dei credenti, anche del massimo rispetto da parte di coloro che credenti non sono.
Questo valga a distinguere il ghibellinismo da quelle forme attuali di neopaganesimo, che meglio potrebbe definirsi neobarbarismo, promotrici di dispute religiose che sono agli antipodi dello spirito di serena e profonda comprensione che fu la prerogativa della più alta Classicità.
Diremo di più: un Cattolicesimo inteso in senso dantesco, che non tronchi, cioé, il legame vivente con la Tradizione classica, traendo anzi da esso, senza timori, tutte le necessarie conseguenze, costituisce il modo naturale di svolgimento del ghibellinismo, dal Medioevo in poi, ed ha trovato, in epoca moderna, il suo più acuto interprete in Luigi Valli. Questo non impedisce, naturalmente, in virtù dei principii della superconfessionalità e della tolleranza, che si possa essere altrettanto ghibellini, facendo perno, anziché su Dante, sul suo maestro, Virgilio, con tutte le implicazioni che tale scelta comporta, pur nel riconoscimento della assoluta tradizionalità del pensiero di Dante per l’epoca medioevale e successiva.
Riconosciuta pertanto la perfetta compatibilità del ghibellinismo con un cattolicesimo dantescamente inteso (8) (così come del resto, ad es., con l’islamismo), occorre sottolineare, a scanso di equivoci, che il ghibellinismo non transige nel condannare come antitradizionale il tramontato potere temporale dei Papi ed in genere ogni forma di assetto politico che in esso abbia trovato il proprio centro di gravità e la sua ragion d’essere.
Così, i ghibellini, a differenza dei guelfi, non attribuiscono alcuna patente di tradizionalità all’Italia dei sette Stati preunitari, vero relitto storico di un’antica sovversione guelfa.
Nel valutare storicamente ciò che rappresentò il tramontato potere temporale dei Papi, i ghibellini non possono sottrarsi ad alcune considerazioni gravi ed amare. Se infatti è del tutto iniquo, come fanno i “neopagani”, attribuire alla Figura redentrice ed avatarica del Cristo i caratteri e le colpe di quel mondo extraeuropeo in cui ebbe ad incarnarsi, diverso è il giudizio che deve darsi quando una Tradizione esotica, accolta in Occidente, a Roma, per il suo alto messaggio spirituale, si trasformò, come avvenne in passato, in strumento di tenace dominio temporale. Allora i ghibellini non possono tacere che il Papato affermò un potere temporale che pretendeva di giustificarsi in una tradizione venuta a Roma dalla Palestina. Ma la Palestina appartiene alla stessa area geografica e culturale in cui fiorì Tiro, la città che fu madre di Cartagine, la mortale nemica di Roma.
Narra Polibio (XXXVIII 21, 1) che Scipione Emiliano pianse sulle rovine di Cartagine, oppresso dal presentimento che un giorno anche la sua patria, Roma, avrebbe subito lo stesso destino. Il presentimento di Scipione si rivelò veritiero. Che altro avrebbe potuto egli fare, se non piangere, se avesse saputo che, per lunghissimi secoli, Roma ed il Lazio sarebbero caduti nel dominio politico di una Teocrazia per la quale il “popolo eletto” era quello dell’Antico Testamento, e non il Populus Romanus ?
Gherardo Donoratico (1-continua)
(1) Simmaco, Relat., 3,10, ín: I Saturnali di Macrobio Teodosio, a cura di Nino Marinone, UTET, Torino 1977, pp. 13 e 14.
(2) in: Claude Lepelley, L’impero romano e il cristianesimo, Mursia, 1970, pp. 105 e 1%. (I corsivi sono nostri).
(3) Frithjof Schuon, L’uomo e la certezza, Boria, Torino 1967, p. 168.
(4) Frithjof Schuon, Dell’unità trascendente delle religioni, Laterza, Bari 1949, p. 41.
(5) Ibid., 151
(6) cfr: Julius Evola, La dottrina del risveglio – Saggio sull’ascesi buddhista, Laterza, Bari 1943, pp. 117-120. Sarebbe divertente, considerato che i Guelfi ascrivono alla massoneria tutto ciò che esula dagli orizzonti del loro dogmatismo confessionale, sapere come considerano la figura del Buddha. Forse come un “33” di una Loggia di Rito Artico?
(7) cfr. di Renato. Del. Ponte: Sulla continuità della Tradizione sacrale romana, in ARTHOS, nr. 21, gennaio-giugno 1980.
(8) Il ghibellinismo è invece incompatibile con un cattolicesimo rigidamente e formalmente ancorato alla lettera del dogma. In tal senso ha avuto quindi perfettamente ragione Ezzelino, sul nr. zero di questa rivista (p. 27) a parlare di “cattolici ghibellini” come di una contraddizione in termini. Dal canto nostro, aggiungiamo, il cattolicesimo dantesco compatibile con il ghibellinismo, cui ci riferiamo, più ancora che quello del trattato sulla Monarchia, è la dottrina nascosta “sotto il velame de li versi strani” investigata da Luigi Valli nel magistrale saggio Il segreto della Croce e dell’Aquila nella Divina Commedia, Bologna, 1922.
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Pubblichiamo col consenso dell’autore e con l’aiuto dell’amico Massimo Chiapparini Sacchini le quattro parti del presente saggio uscito per la storica rivista Il Ghibellino (1979 – 1983).
Questa prima parte era compresa nel NUMERO 1 (luglio 1980 e.v.)
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