7 Ottobre 2024
Tradizione

AQUILA IN AURO TERRIBILIS ∼ Tradizione ghibellina e tradizionalismi guelfi – (3^ parte) – Piero Fenili

 

Francesco Giuseppe fu una delle
figure più ripugnanti dell’epoca…
Ezra Pound

 

Lo studio della sovversione guelfa nell’Italia centrale, risoltosi, sul piano storico, nell’illegittimo potere temporale del Papato, po­tere che il grande dantista Gabriele Rossetti definì “vecchia cancre­na giusto all’ombelico”, ci conduce ad esaminare in breve i riflessi che quel sovvertimento ebbe nel Settentrione, spostando oltralpe il baricentro del c.d. Sacro Romano Impero ed assoggettando l’Italia del Nord ad inammissibili ingerenze straniere, durate fino agli inizi del nostro secolo.

Il vizio guelfo d’origine del c.d. Sacro Romano Impero, sotto il profilo storico, è a tutti noto, tanto che in questa sede basta farvi soltanto cenno. L’incoronazione ad imperatore di Carlo Magno, av­venuta nel giorno di Natale dell’anno 800 ad opera del papa Leone III pose, per il modo in cui venne effettuata, un’assurda ipoteca guelfa su quell’impero, facendone un organismo “cattolico” finché si vuole, ma certamente assai poco o null’affatto “romano”. Il papa, infatti, non aveva alcuna legittimazione a conferire la potestà’ impe­riale romana, essendo unicamente il capo di una religione di origi­ne palestinese, divenuta lecita in Roma soltanto in virtù di un editto imperiale.

Ma, in questa ricerca dedicata allo studio dei tradizionalismi guelfi, più che le vicende storiche del c.d. Sacro Romano Impero, che pur conobbe generosi quanto in definitiva inutili tentativi di rettificazione del suo vizio di origine (ad opera di Sovrani della sta­tura di un Ottone III di Sassonia e, soprattutto, di un Federico II di Svevia), ci interessa specialmente considerare quelle formulazioni dottrinali che si propongono di fondare idealmente e tradizional­mente la ragion d’essere di quell’impero cattolico. Tra esse, in Ita­lia, occupa una posizione di spicco l’opera di Attilio Mordini, per la vastità dell’impianto culturale e per la profondità dell’impegno mo­rale che l’autore vi profuse, tanto che non vi è praticamente oggi presso di noi alcun cultore del c.d. Sacro Romano Impero, dal pun­to di vista “tradizionale”, che ad essa non faccia riferimento.

È necessario pertanto che ci occupiamo dei numerosi errori di prospettiva contenuti in detta opera, esaminandola dal punto di vi­sta della metafisica imperiale classica, unico fondamento di ogni le­gittimo ed autentico ghibellinismo.

Occorre quindi premettere, per comprendere la natura e i limi­ti della visione del Mordini, che egli si pose da una prospettiva reli­giosa e confessionale, quindi strettamente confinata nel dominio dell’ exoterismo, laddove l’idea imperiale possiede una indiscutibile radice esoterica, presupponendo la dottrina della Unità trascenden­te delle Tradizioni. Piaccia o non piaccia, questa fu la dottrina effet­tiva dell’Impero classico, che adottò appunto il simbolo solare, evo­cando l’Astro diurno, che i vari popoli dell’Impero illumina e riscal­da in egual misura, prescindendo dalla diversità dei relativi culti religiosi.

La dottrina imperiale classica dell’Unità trascendente delle Tradizioni venne enunciata con grande chiarezza dall’Imperatore e Pontefice (Archiereus) Giuliano, che così si espresse, in polemica con l’esclusivismo monoteista della tradizione giudaico-cristiana: “Guardate invece, di nuovo, le dottrine che han corso presso di noi. Dicono i nostri che il Creatore è comun padre e re di tutti, ma che, pel rimanente, ha distribuito le nazioni a Dei nazionali e cittadini, ciascuno dei quali governa la propria parte conformemente alla sua natura” ((Augusto Rostagni, Giuliano l’Apostata – Saggio critico con le operette politiche e satiriche tra­dotte e commentate, Torino, 1920, p. 309.)). Conseguenza di tale impostazione è che alla tradizione giudaico-cristiana non compete alcun particolare privilegio nei confronti delle altre tradizioni. Così infatti ironizza Giuliano: “Mo­sè dice che il Creatore del mondo ha eletto il popolo ebreo, veglia esclusivamente su di esso, di esso si preoccupa, ad esso rivolge tut­ta intera la sua attenzione. Quanto agli altri popoli, come e da quali Dei siano governati, di ciò Mosè non fa nessuna questione: troppo, forse, gli sembra che anche essi godano il sole e la luna”… “E alla fine mandò a loro [agli Ebrei] anche Gesú. A noi nessun profeta, nes­sun crisma, nessun maestro, nessun messo di questa sua tardiva be­nevolenza, che doveva un giorno estendersi anche a noi! Egli lascia per miriadi, o, se volete, anche solo per migliaia di anni, in una tale ignoranza, schiavi, come voi dite, degli idoli, tutti i popoli dall’Oriente all’Occidente, dal Settentrione al Mezzogiorno, ad ec­cezione di una piccola schiatta stabilitasi da neanche due mila anni in un solo angolo della Palestina” ((Ibid., pp. 306 e 308.)).

La concezione del Mordini è diametralmente opposta a queste prospettive della metafisica imperiale classica, ciò che lo pone au­tomaticamente al di fuori del vero ghibellinismo, che in quella metafisica ha le sue radici ed il suo fondamento. Ecco come il Mordini espone la sua concezione rigidamente cattolico-confessionale, che privilegia la tradizione ebraica nei confronti delle altre: « Israele è dunque popolo di Dio, perchè la sua storia è mito vissuto prima di tutto in senso letterale. Per gli altri popoli della terra continua, e continuerà fino all’avvento del Cristianesimo, la distinzione tra mi­to e storia, tra l’espressione mitica della verità metafisica nella pa­rola e nel simbolo, da un lato, e l’accadere dei fatti, dall’altro; tra l’arte e la scienza. Qualche volta, come ad esempio con la guerra e la distruzione di Troia, anche per i gentili il mito e la storia coinci­dono; ma si tratta solo di brevi incontri tra il senso letterale del mi­to e la realtà, si tratta solo di momenti in cui la verità metafisica e la concretezza dei fatti si congiungono quali meravigliosi pegni nel­la promessa della Redenzione finale.

Per Israele, invece, tale coincidenza tra il senso letterale del mi­to e la concretezza della storia è continua e perenne, dalla vocazio­ne di Abramo da Ur fino all’elezione dei Dodici, dalla manifestazio­ne del Roveto ardente del Sinai alla Trasfigurazione del Tabor; in altre parole, da Abramo all’Incarnazione di quel Cristo che è prima ancora che Abramo fosse. Per Israele la stessa vita si fa arte nell’as­sunzione del mito; è la vita che dovrà scorrere nelle vene del Cristo, è la stessa vita che dovrà pulsare in quel sangue che sarà prezzo di Redenzione nel mondo e riscatterà le genti e i popoli dalla morte del peccato alla vita eterna » (Attilio Mordini, Il mito primordiale del Cristianesimo quale fonte perenne di metafisica, Milano, 1976, pp. 15.16. Sorprende come, con siffatte premesse filoebraiche (che peraltro sono le stesse dell’ortodossia cattolica), vi sia chi tra i mordiniani e tra i cattolici tradizionalisti in gene­re, faccia ostentazione di un certo antisemitismo).

Prendiamo atto che, secondo la visione riaffermata dal Mordi­ni, al nostro “latin sangue gentile” fu riservato di avere una storia sacra soltanto a “momenti”, laddove per gli ebrei ciò avvenne pe­rennemente e di continuo.

Orbene, noi ribadiamo la nostra distanza da una simile visione, che privilegia la tradizione ebraica nei confronti di quella classica in genere e italica in particolare, visione che tuttavia coincide con il punto di vista religioso cattolico, al quale Mordini aderì secondo quella che fu una sua insindacabile scelta. Però, da un punto di vi­sta rigorosamente “imperiale” e quindi autenticamente ghibellino, non possiamo esimerci dal fare due osservazioni nei confronti della concezione del Mordini:

  1. essa, rispecchiando il punto di vista exoterico di una partico­lare religione, il cattolicesimo, appartiene all’ambito del tradizio­nalismo, il quale sta alla Tradizione nello stesso rapporto in cui la parte sta al Tutto;
  2. inoltre, in quanto privilegia la tradizione ebraica nei con­fronti di quella classica, non è in alcun modo legittimata a fornire enunciazioni o argomentazioni intorno all’essenza dell’Imperium, che affonda le sue radici nella Tradizione Classica, alla quale inte­ramente appartiene ((L’Imperium è una Realtà precristiana. L’Impero di Augusto (così come quello di Traia­no, Adriano, Giuliano, ecc.) non poteva discendere da Cristo per il semplice motivo che si trattava di un’Autorità sacrale non cristiana. Questa ovvia constatazione basta a mostrare i limiti della concezione imperiale (e quindi ghibellina) esposta nel numero speciale della rivista EXCALI­BUR, I Fati dell’Impero (Roma, 1979). Detta pubblicazione si propone di racchiudere in nove “scarni principi” la visione del mondo ghibellina, ma la lettura del primo di essi è sufficiente a denotare che si è al di fuori di ogni autentica prospettiva esoterica inerente alla metafisica impe­riale classica. Esso infatti enuncia che “La funzione imperiale e quella sacerdotale sono comple­mentari. La funzione di entrambi gli Ordini promana dall’identica Persona divina, perciò il Papa è il Vicario di Cristo Sacerdote e l’Imperatore Vicario di Cristo Re” (p. VI). Come si vede, tale con­cezione è applicabile soltanto al c.d. Sacro Romano Impero e non certamente all’antico Impe­rium romano. Per noi il vero Imperium è quest’ultimo, mentre per il Mordini, come vedremo, è l’Impero Cattolico.)).

Del resto, lo stesso Mordini mostra di avere in vista un’altra co­sa, quando parla d’Impero, che non l’Imperium dei Romani. Infatti, sfuggendogli la dottrina esoterica dell’Unità trascendente delle Tradizioni, scambia per sincretismo la Sintesi pantheonica imperia­le romana, della quale non coglie l’essenza superreligiosa e vera­mente universale, cadendo così nell’errore tipico di ogni tradiziona­lismo religioso. Ecco come egli enuncia il suo errore: « E Roma, centro del mondo, raccoglieva nel suo Pantheon i simulacri di tutte le divinità straniere, tutti gli dei di quei popoli che al suo Impero si andavano man mano ordinando. Ma non si trattava ancora di vera unità, non si trattava della sintesi vera e cattolica, bensì di sincreti­smo » (Attilio Mordini, Il Tempio del Cristianesimo – Per una retorica della storia, Torino, 1963, 37). In tal modo, per il Mordini, « L’Impero dei Cesari, Impero del sincretismo, non fu dunque il vero Impero Romano, ma solo anelito di sintesi, di vera unità e di vero Impero. Il vero Impero Ro­mano è quello di Carlo Magno, fondato sulla Verità di Pietro che, nelle catacombe, nel Latium, ha operato l’incontro del Verbo incar­nato con la Tradizione precristiana » (Ibid.Attilio Mordini, Il Tempio del Cristianesimo – Per una retorica della storia, Torino, 1963, 37). Questo significa parlare chiaro e sarà quindi bene tener presente, per evitare confusioni ter­minologiche che vanno a tutto vantaggio della parte guelfa, che ogni qualvolta i mordiniani parlano di “vero” Impero Romano si ri­feriscono a quello di Carlo Magno, nato da una usurpazione papale, quello che si potrebbe, con buona ragione, definire ironicamente come l’impero delle guardie svizzere (Che altro pensare di un Impero che tranne qualche sporadica, onorevole eccezione, non ha mai osato, pur dicendosi “Romano”, rivendicare la sua naturale Sede, Roma?).

Dunque, per il Mordini, il vero Impero romano è quello fondato sulla verità di Pietro, che nelle catacombe ha unito il Verbo incar­nato alla Tradizione precristiana. Egli ritiene che: « Qualcosa di nuovo è accaduto nelle catacombe; non soltanto ora si battezzano individui romani e incirconcisi, ma si battezza Roma e il mondo ariano nelle più antiche tradizioni, solo che Roma riconosca nei suoi miti i segni del Cristo che doveva venire, del Dio ignoto che si fa finalmente riconoscere Salvatore e vittorioso ». (Attilio Mordini, Il Tempio del Cristianesimo, ecc., 30). Conveniamo con il Mordini che nelle catacombe è avvenuto qualcosa di impor­tante, soltanto che dubitiamo che ciò sia stato un fatto positivo, al di là di quelli che possono essere i benefici connessi con un messag­gio di redenzione, in un dominio soltanto religioso ed exoterico. In­fatti, nelle catacombe, non solo si verificò, come dice il Mordini, il battesimo di Roma e del mondo ariano nelle sue più antiche tradi­zioni, cioè, in altre parole, l’innesto di una tradizione semitica su di una tradizione indoeuropea, ma qualcosa di ben più grave e radica­le, cioè la sostituzione della Storia sacra di un ceppo di popoli non semitici, quello italico, con la Storia sacra di genti semitiche. Da al­lora, infatti, la Storia sacra degli Italici non sarà più quella dei Latini, dei Tirreni, dei Liguri, dei Siculi e degli altri popoli dell’Eneide, libro sacro della Tradizione italica, scritto dall’Iniziato Virgilio, ben­sì quella che narra le vicende degli Israeliti, dei Moabiti, degli Idu­mei, dei Madianiti e delle altre genti dell’Antico Testamento.

Francamente, non è questa una cosa che ci riempie di giubilo. Nella concezione cattolica del Mordini, invece, il trapianto assume una connotazione positiva: « Il seme è gettato nella catacomba, e il frutto ne sarà la Chiesa come istituzione organica e gerarchica, co­me corpo mistico risorto, come Tempio di cui Cristo sarà al tempo stesso costruttore e pietra angolare » (Ibid). Prendiamo atto, dunque, che, per il Mordini, il Tempio non è altro che la Chiesa che emerge dalle catacombe. Per il vero ghibellinismo, invece, il Tempio è solo quello che accoglie tradizioni diverse intorno all’Unità trascenden­te dell’Assoluto, Tempio di cui si ha un’immagine visibile nel Pan­theon di Roma ed un’eco medioevale nel mito del Prete Gianni, per­sonaggio sicuramente ben distinto e diverso dal papa del cattolice­simo.

Del resto, che nella visione mordiniana l’Impero si riduca ad es­sere una mera estrinsecazione della Chiesa, è lo stesso Mordini a dircelo. Mentre nella originaria concezione imperiale classica, che si mantenne perfino nel cristiano Impero Romano d’Oriente, la Chiesa ebbe esistenza nel più vasto ambito dell’Impero, nella visio­ne del Mordini esso sussiste in seno alla Chiesa, di fronte alla quale sfuma e si dilegua la sua legittima, autonoma ed originaria fisiono­mia: « Si è scritto molto sulle relazioni tra stato e Chiesa nel medioe­vo ad opera di autori moderni, ma non si è ancora compreso a suffi­cienza che nell’ordinamento medievale non v’era dualità tra stato e Chiesa come se si fosse trattato di due enti diversi. In realtà non esi­steva lo stato; v’era solo la Chiesa, unico gregge sotto un solo pasto­re ma con due diverse autorità e due diverse gerarchie, la gerarchia del clero e la gerarchia civile. Era appunto l’ordinamento civile a chiamarsi Impero; ma Imperium significa solo comando, autorità; una virtù dunque, non una vera e propria società quale è la Chiesa, vale a dire tutta l’organizzazione spirituale, civile e materiale della Cristianità cattolica » ((Ibid., p. 87.)). In proposito ci limitiamo ad osservare che, storicamente, quanto affermato dal Mordini può anche essersi verificato in ordine alle vicende del c.d. Sacro Romano Impero (e nemmeno sempre). Ma, lungi dal vedervi, come fà il Mordini, l’es­senza dell’Imperium, noi ve ne scorgiamo soltanto la parodia. Si tratta in ‘definitiva della ben nota concezione guelfa che finisce, in ultima istanza, con il subordinare (direttamente o indirettamente) l’Impero alla Chiesa e quindi al capo supremo di quest’ultima, il pa­pa. Questa visione guelfa non è priva di risvolti territoriali. Infatti, coerentemente con la premessa, il Mordini così può concludere: « E se Roma era la sede dei Papi, era al tempo stesso la vera capitale dell’Impero » ((Ibid.)). Infatti, nella prospettiva guelfa, essendo il Papa, in ultima istanza, il capo dell’Impero (in quanto capo della Chiesa), è sufficiente che egli abbia sede in Roma, perchè tale sede divenga automaticamente anche la sede dell’Impero. Questo spiega perchè i guelfi non siano stati minimamente turbati dal fatto che le corti e le cancellerie del c.d. Sacro Romano Impero abbiano avuto sede dap­pertutto (ad Aquisgrana, a Madrid, a Vienna) fuorché a Roma. A lo­ro bastò ed avanzò che fosse il Papa, capo di tutto, a risiedere a Ro­ma. Questo errore è possibile, tra l’altro, perchè la prospettiva guel­fa ignora o tace che esiste una precisa liturgia imperiale e che tale precisa liturgia presuppone l’esistenza di un Palatium, all’interno del quale essa si svolge (come avvenne a Costantinopoli per l’Impe­ro Romano d’Oriente) e che un Impero sedicente romano che non ha il suo Palatium in Roma (come deve avvenire per motivi di geogra­fia sacra tradizionale) usurpa il nome romano e dell’Impero Roma­no è una semplice caricatura!

Il mancato riconoscimento, da parte del Mordini, della dignità autonoma, originaria ed irrinunciabile dell’Impero, non gli permet­te di cogliere il “segreto” della politica ghibellina degli Staufen, di­retta ad affermare l’ Imperium quale potestà che non ammette limi­ti politici o territoriali di sorta. ((E’ noto ad esempio, che Federico II si propose di rivendicare la massima autonomia dell’Impero nei confronti della Chiesa. Su tal punto cfr. A. De Stefano, L’idea imperiale di Federi­co II, Parma, 1978, cap. III, passim.)). E, nella scia di questa incom­prensione, egli giunge perfino a giustificare, sia pure come dura ne­cessità, la politica filo-angioina del papato, che costituì certamente la più grave e prevaricante ribellione guelfa all’Autorità imperiale: « Fu duramente necessario per il Papato chiedere l’aiuto del Re di Francia contro la casa di Svevia; e con tale appello ha inizio quel compito di difesa del Santo Seggio cui la Francia adempirà ripetutamente nel corso della storia fino ai nostri tempi » (Attilio Mordini, Il Tempio del Cristianesimo, p. 94). Fino a che, completiamo noi, ad un Vittorio Emanuele II riuscì di compiere ciò che i guelfi avevano impedito a Federico, Manfredi e Corradino. Ma su questo punto ritorneremo tra poco.

Prima infatti di giungere al punto della incomprensione, che il Mordini condivide con il resto della pubblicistica guelfa, del pro­cesso di unificazione dell’Italia attuato nel secolo scorso, vale ac­cennare ad altri due punti di vista, che il Mordini con detta pubbli­cistica ha in comune.

Innanzitutto, nel Mordini non v’è parola di un possibile autono­mo perpetuarsi della Tradizione Classica dopo l’avvento del Cristia­nesimo. Per lui, si è visto, l’assemblea dei Numi riuniti nel Pan­theon romano è soltanto sincretismo: « E della sintesi cattolica, quel sincretismo era soltanto la falsa copia demoniaca; falsa copia di cui il Verbo si serve come di uno strumento a preparare le nazio­ni all’Incarnazione del Figlio; falsa copia che l’avvento della vera ef­fige, della vera sintesi del Cristo, dovrà gettarsi come superflua, co­me loglio nel fuoco » (Ibid., p. 37). A ciò non si può che rispondere che con le serene e ferme parole del platonico pagano Giorgio Gemisto Pleto­ne, vissuto quattordici secoli dopo l’Incarnazione, il quale affermò, intorno agli Dei, “innanzitutto che esistono” ((Giorgio Gemisto Pletone, Riassunto delle dottrine di Zoroastro e di Platone, riportato ne “Il Ghibellino”, nn. 2-3, p. 22) e quindi non sono sicuramente svaniti nel nulla con l’avvento del cristianesimo. Per quanto riguarda poi il significato dell’Incarnazione sul piano gene­rale, ci limitiamo a riferire la valutazione che ne dà il Mordini in un inquietante passo, nel quale espone le sue riflessioni al riguardo. Dapprima vi è una premessa di vago sapore antroposofico, nella quale il Mordini afferma che « Dopo l’Incarnazione, invece, assi­stiamo all’affermazione di civiltà atee e materialistiche e ciò che prima era regolato da forze misteriose, forse dagli angeli, oggi è la­sciato alla responsabilità dell’uomo che, da servo, è stato chiamato ad esser figlio di Dio e quindi ad essere libero » ((Attilio Mordini, Il Tempio del Cristianesimo, , p. 22.)) (davvero non riusciamo a capire come Pitagora e Buddha, vissuti prima di Cristo, possano essere considerati dei servi!). Il Mordini prosegue dunque nel suo ragionamento circa le cause dell’avvento del materialismo e del progresso tecnico (omettiamo di trascrivere i passi, per esigenze di spazio, rinviando il lettore al testo del Mordini) e giunge quin­di a questa allarmante conclusione: « Questo materialismo è stato possibile- solamente dopo che il Verbo s’è fatto toccare da mani umane; ma soprattutto è stato possibile quando popoli interi si so­no inginocchiati, per secoli, davanti alle Specie materiali del pane e del vino quale materiale presenza della Sua carne e del Suo sangue sulla terra » (Ibid., p. 23). Lasciamo al Mordini la responsabilità di tali affer­mazioni, che peraltro ci interessano marginalmente, interessandoci più da vicino quanto egli dice a proposito della Tradizione sapien­ziale classica. A riguardo occorre constatare ancora una volta la sua incomprensione, che lo conduce a non cogliere l’essenza vera, esoterica e classica, del Rinascimento.

Già la sua premessa ci appare fallace: « Così da una Grecia de­vota al suo Olimpo, alla sua assemblea di esseri divini ordinata at­torno al Padre Giove, da una Grecia solare, muove il pensiero di Ari­stotele, la sintesi più grandiosa che il mondo classico abbia mai espressa » (Ibid., p. 75). Questa affermazione non corrisponde a verità, per­chè la Tradizione sapienziale ellenica, tramandatasi più tardi a Co­stantinopoli in piena continuità linguistica e culturale, ha conside­rato, per bocca dei suoi ultimi esponenti, da Proclo a Psello ed a Pletone, che nella “sintesi più grandiosa” concorrono sia Platone che Aristotele, essendo comunque il primo, e non il secondo, in posi­zione di preminenza. E non è neppur vero, come afferma il Mordini, che « Senza l’Incarnazione di Cristo l’aristotelismo sarebbe finito sugli ultimi resti dell’Impero romano antico, mentre nell’Incarna­zione del Verbo trova il suo vero significato e la sua forma ideale. Nel dogma cristiano, e solo in quello, può conciliarsi col platoni­smo » (Ibid., p. 76). A parte il fatto che Aristotele ebbe fortuna e si perpetuò anche in ambiente islamico, e quindi al di fuori del mondo cristia­no, non si vede perché la filosofia aristotelica, che possiede in sé stessa la sua forma ideale e che ancor oggi si può studiare intelli­gentemente e con profitto al di fuori di qualsiasi riferimento al cri­stianesimo, debba attribuire a quest’ultimo le ragioni della sua so­pravvivenza! Altrettanto gratuito è poi affermare, con perentoria sicumera, che solo nel dogma cristiano l’aristotelismo può conci­liarsi col platonismo. Una siffatta conciliazione, al contrario, era già avvenuta ad opera degli ultimi filosofi pagani prima e dei filoso­fi arabi poi, quindi in contesti culturali assolutamente non cristia­ni. Ma il Mordini prosegue nelle sue affermazioni errate: « Il lievito del Vangelo, dopo aver nutrito il platonismo di vita eterna sino a farne traccia a pensatori come Agostino e Dionigi Aeropagita, ecco volgersi a fecondare l’architettura metafisica e logica di Aristote­le » ((Ibid.)). Non è affatto vero, invece, che il Vangelo abbia nutrito il platonismo di vita eterna, tanto è vero che, alle soglie del Rinasci­mento, si incontra, con Pletone, una forma raffinata e coerente di platonismo pagano, che costituisce altresì la dottrina di una orga­nizzazione esoterica facente capo a Pletone stesso. Infine, ci tedia dover ripetere che l’architettura metafisica e logica di Aristotele non ha avuto bisogno di alcuna fecondazione artificiale cristiana per essere vitale e duratura. Si è che al Mordini, chiuso negli sche­mi di una dogmatica confessionale, è sfuggito il carattere superreli­gioso di philosophia perennis che compete al platonismo-aristoteli­smo, con il secondo in posizione gerarchicamente subordinata al primo. E, parimenti, in linea con l’avversione guelfa per il Rinasci­mento, al Mordini dispiace la fortuna di Platone presso gli uomini di cultura del Rinascimento: « Troppi cristiani, fra gli uomini di cultura, sin dal XV secolo avevano preferito chiamarsi tra loro fra­telli in Platone anzichè fratelli in Cristo; e in quelle pose classicheg­gianti veniva conculcata la viva e profonda verità di una più che millenaria tradizione cristiana » ((Ibid., p. 115.)). Se il Mordini avesse colto l’es­senza esoterica, superreligiosa e superconfessionale del platoni­smo, non avrebbe dovuto rammaricarsi che i migliori spiriti del Ri­nascimento avessero preferito percorrere l’aristocratica via della conoscenza platonica anzichè la democratica via della salvezza cri­stiana. Naturalmente l’alto livello metafisico del Rinascimento de­cadde con la Controriforma, la quale, come ricorda proprio il Mor­dini, riportò “in auge Aristotele” (Ibid., p. 107. Sulla reale grandezza ed importanza di Platone dal punto di vista metafi­sico e tradizionale, rimandiamo alla III parte dell’articolo di ULTOR, che apparirà sul prossimo numero de Il Ghibellino), cioé una forma di conoscenza notoriamente inferiore al platonismo.

Ritenuto dunque che per il Mordini la Tradizione Classica si è estinta e che l’anima classica del Rinascimento rappresentò un fenomeno negativo, non rimane che da attendersi, in sostanziale con­formità alle costanti del pensiero guelfo, un analogo giudizio sfavo­revole nei confronti del Risorgimento. Ed infatti così è.

Vi sono alcuni punti di partenza errati che traggono il Mordini in inganno in ordine alla giusta valutazione del Risorgimento. Egli infatti parte dalla falsa premessa che il moto di unificazione e di in­dipendenza di Italia fosse dovuto ad una esasperazione del naziona­lismo italiano, secondo l’ottica di Metternich: « Quando la nazione veniva sopravalutata nel particolarismo nazionalistico era morbo­sa remora, e andava schernita come espressione geografica. Espres­sione geografica avrebbe dovuto chiamarsi, in tal caso, non solo l’Italia, ma la stessa Austria; ed è ben per questo che subito presentì insostenibile la situazione di un Impero, non più cattolico, non più universale, ma austriaco » (Ibid., p. 159).

Vi sono nella impostazione del guelfo Metternich, ripresa dal Mordini, alcuni gravissimi stravolgimenti della realtà. Innanzitutto l’Impero asburgico non fu mai soltanto cattolico ed universale, ma soprattutto tedesco. Esso, infatti, in epoca risorgimentale, era il di­scendente diretto di quell’Impero che già alcuni secoli prima, all’epoca di Massimiliano I, aveva assunto il titolo di Sacrum Impe­rium Romanum Nationis Teutonicae (Heiliges Rómisches Reich Teuscher Nation), ovvero, in italiano, Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca. Esso, come annota uno storico serio ed avveduto quale il Bryce, “scendeva così a divenire una potenza puramente te­desca” (Giacomo Bryce, Il Sacro Romano Impero, Milano, 1907, p. 441.). Come si vede, il nazionalismo, con buona pace di Mordi­ni e di Metternich, non l’hanno inventato i patrioti italiani del seco­lo scorso. Si può star certi che non vi sarebbe stato bisogno né del Risorgimento né del nazionalismo italiano, se fosse esistito un Sa­crum Romanum Imperium Nationis Italicae (Sacro Romano Impe­ro della Nazione Italiana), con Capitale in Roma, naturalmente! Del resto, che nell’Impero asburgico, pur con tutti i suoi pregi di buona amministrazione e di paternalismo verso i vari popoli che lo compo­nevano, la posizione egemone fosse assicurata all’elemento tede­sco, direttamente rappresentato dalla Casa d’Austria, è provato dal­la posizione di privilegio riservata alla lingua tedesca, fatto questo chiaramente rivelatore, di quale fosse l’elemento dominante (si pen­si ad esempio alla funzione del latino nell’Impero d’Occidente, a quella del greco nell’Impero Romano d’Oriente, e dell’inglese nell’Impero Britannico). Si comprende, quindi, come il Metternich, Francesco Giuseppe, ecc. fossero tanto avversi al sorgere di un na­zionalismo italiano. Esso rappresentava infatti la minaccia più di­retta e temibile per il nazionalismo austriaco, occultato dietro il preteso supernazionalismo dell’Impero asburgico. Esattamente, pertanto, i nostri antenati si resero conto che dietro l’imponente aquila asburgica si nascondeva l’austriaca gallina, da essi giusta­mente dileggiata, e tale si rivelò infatti quando i nostri soldati le strapparono le penne dell’aquila, delle quali pomposamente si am­mantava!

E dobbiamo altresì respingere al mittente, essendo null’altro che un vituperio guelfo, l’indicazione dell’Italia, da parte del Met­ternich, quale espressione geografica. Il Mordini si sforza di stempe­rare l’oltraggio, dicendo che tale locuzione, in analoghe condizioni, sarebbe stata applicabile anche all’Austria. Non siamo d’accordo. A parte il fatto che, guarda caso, il Metternich la adoperò nei confron­ti dell’Italia, e soltanto dell’Italia, noi diciamo forte e chiaro che l’Italia non può mai essere una semplice espressione geografica, perché essa è una terra sacra, la Suturnia Tellus, come avrebbe do­vuto sapere il Metternich, se si fosse preso la briga di farsi spiegare, da qualche professore dell’Impero (se ne avesse trovato qualcuno all’altezza) il significato tradizionale dell’Italia in Virgilio ed in Dante.

Vero è che anche il Mordini ammette che l’Italia andava unifi­cata: « Gli Asburgo non si erano mai mostrati avversi alla unità d’Italia, ed auspicavano di buon grado la federazione dei principati della penisola, che permetteva di attuare il programma tracciato dal Metternich al congresso di Lubiana del ’21 » ((Ibid., p. 166.)).

Ma tale “federazione”, lo diciamo senza mezzi termini, sarebbe stata soltanto una caricatura dell’Unità ed una beffa all’Indipenden­za. Infatti l’Italia sarebbe rimasta sottoposta alla pesante influenza dell’Austria, alla quale avrebbe poi ‘continuato direttamente ad ap­partenere il Regno Lombardo-Veneto. Inoltre, la “federazione” avrebbe compreso tra i “legittimi” Principi anche il papa, chejegit­timo non era affatto, essendo il potere temporale dei papi, come piùvolte si è visto, una vera usurpazione, anticamente radicata sul falso truffaldino della c.d. donazione di Costantino, “donazione” che il Mordini considera vera quantomeno nella sostanza, ((Ibid,, p. 91. Un polemista avversario (v. l’articolo di Ottone su Il Rogo – Bollettino-Notiziario Trimestrale, Supplemento ad “Excalibur”, N. 2/1979, p. 7) ha espletato un goffo tentati­vo di difesa dell’affermazione del Mordini: « Mordini… si limita a riconoscere l’esistenza di un da­to di fatto che precede di secoli il falso documento, per cui la “donatio” è “vera nella sostanza”, cioé nell’effettivo potere esercitato dai Ponterfici su di un territorio… ‘. Il che equivale a dire che se un tale, proprietario(!) di un ettaro di terreno, si confeziona un documento falso dal quale ri­sulta proprietario di cento ettari (cioé dell’Impero di Occidente!), il documento deve ritenersi ve­ro nella sostanza, perché comunque è proprietario di un ettaro. Strane idee sul diritto di proprie­tà!)) ponendosi così in perfetta antitesi con Dante Alighieri, il quale, non avendo a disposizione elementi per dichiararla falsa nella forma (il falso ven­ne dimostrato solo qualche secolo dopo dal dotto umanista Lorenzo Valla), la contestò almeno nella sostanza (Monarchia, III, 10).

Con queste premesse guelfe si comprende come al Mordini non sia piaciuta la presa di Roma da parte dell’Esercito Italiano, la qua­le invece rappresentò un atto di somma giustizia ghibellina e v’è da rammaricarsi soltanto che sia avvenuto solo nel secolo scorso, po­nendo comunque fine, per quanto tardi, a una usurpazione plurise­colare. Infatti il Mordini così si esprime al riguardo: « È così che i bersaglieri italiani possono agevolmente impadronirsi della capita­le del mondo per farne una delle tante capitali di stato » ((Ibid, p, 171.)). Al che, per amore di giustizia e di verità, ci corre l’obbligo di rispondere e precisare: 1) che Roma non era la capitale del mondo, bensì soltan­to del mondo cattolico (non solo il mondo induista e quello islami­co, bensì anche quello cristiano-ortodosso e cristiano-anglicano, per limitarci ad alcuni esempi, hanno diverse “capitali”); 2) che Ro­ma rimase “capitale” del mondo cattolico anche dopo la breccia; 3) che se Roma, dopo la breccia, cessò di essere capitale di qualcosa, finì soltanto di esserlo di un ridicolo statarello clericale male am­ministrato ed oggetto di ludibrio da parte di tutta Europa (proprio come sta diventando oggi l’Italia, dopo un trentennio di governo da parte della democristianeria).

E con questo possiamo chiudere circa le idee del Mordini, an­che per evidenti ragioni di spazio. Prima di concludere l’argomento del tradizionalismo guelfo relativamente al Settentrione d’Italia, e passare prossimamente ad esaminare quello relativo al Mezzogior­no, resta da dire qualcosa circa un curioso fenomeno di “Asburgo-mania” ((In tal modo tale moda viene definita da Quirino Principe in un articolo, così intitolato, che fa parte di un servizio dedicato all’argomento dalla rivista “Il Settimanale”, nr. 48 del 28-11­ In tale corrente si collocano il libro Amore mio uccidi Garibaldi, di Isabella Bossi Fedrigot­ti (Milano, 1980), in cui il protagonista, dal tedeschissimo nome di Fedrigo Bossi Fedrigotti, nel ri­ferire alla moglie la notizia della (presunta) vittoria austriaca contro gli Italiani a Custoza, scrive alla moglie: “Che austriaco felice sono, stasera, mia Leopoldina” (p. 68); ed il libro di Carolus L. Cergoly, Il complesso dell’Imperatore, Milano, 1979, nel quale l’autore riprende il vieto argomen­to della pretesa “supernazionalità” dell’Impero asburgico e poi, di fronte al fatto che il tedesco fosse la lingua egemone, cerca di addolcire la pillola scrivendo che trattavasi, in Italia, di “un austro-italiano con cadenze e ritmi propri dell’austro-italiano” (p. 192). Ma sempre “tedesco” era, e noi la lingua di Dante siamo educati a non posporla o mescolarla ad alcun linguaggio barbarico, per quanto possa essersi evoluto!)) verificatosi di recente in Italia, quale “moda” favorita dalle suggestioni scaturite da torbidi abboccamenti finanziari di ambienti lombardi e bavaresi. Nel flusso di tale “moda” si colloca, in posizione di spicco, il libro di Franz Herre, Francesco Giuseppe (Franz Herre, Francesco Giuseppe, Milano, 1980.)), libro che cola livore nei confronti degli Italiani. In esso si leg­ge, ad esempio che Custoza fu “lo storico campo di battaglia sul quale gli italiani sembravano aver fatto un abbonamento alle scon­fitte” (p. 210). Orbene, in riferimento alla battaglia della terza guer­ra d’Indipendenza (24-6-1866), più che di una sconfitta, ci sembra si sia trattato di inesperienza e disorganizzazione da parte del neona­to esercito unitario italiano, dato che, nello scontro, gli Italiani eb­bero 714 morti e gli Austriaci 1170. Comunque, è vero che nei con­fronti dell’Italia l’Impero austro-ungarico non fece alcun abbona­mento alla sconfitta: esso l’acquistò tutta in una volta, nella prima guerra mondiale, e cessò di esistere. Apprendiamo inoltre, dal libro di Herre, che l’imperatore Francesco Giuseppe chiamava il Re d’Italia Vittorio Emanuele II “ladro di terre e borsaiolo” (p. 175). Poichè non siamo disposti a tollerare, senza reagire, alcuna offesa, neppure se ci giunge postuma, al grande Re ghibellino d’Italia, oltre al poco lusinghiero parere su Francesco Giuseppe del grande Ezra Pound, riportato sotto il titolo, ((L’espressione di Pound si trova nel libro Jefferson and/or Mussolini, Liveright, New York, 1970, p. 83, e suona testualmente: “Franz Josef was one fo the most schifoso figures of the ..”.)) trascriviamo, quale risposta alle oscure manovre guelfe dirette ad “angelicare” Francesco Giuseppe e con lui l’aquila asburgica, le sonanti terzine dedicate da Gabriele d’Annunzio all’argomento:

“…Ma uno più d’ogni altro si costerna.

Egli è l’angelicato impiccatore,

l’Angelo della forca sempiterna.

Mantova fosca, spalti di Belfiore,

fosse di Lombardia, curva Trieste,

si vide mai miracolo maggiore?

La schifiltà dell’Aquila a due teste,

che rivomisce, come l’avvoltoio,

le carni dei cadaveri indigeste…” ((La poesia di Gabriele d’Annunzio è riportata in La patria nella vita e nell’opera di Ga­briele d’Annunzio, di Paride De Bella, Quaderni di “Ricerche”, Roma, 1975, p. 21.)).

Che i contenuti antitaliani del libro dello Herre non abbiano in Italia suscitato soltanto, come dovevano, una beffarda curiosità, ma spesso, come sembra, un sospiroso consenso, si spiega solo con il non trascurabile numero di servi che vivono presso di noi da quando i Romani ne importarono in quantità.

Se ci occupiamo su questa rivista di una moda, quale l’ “Asbur­gomania”, apparentemente innocua o comunque facilmente ironiz­zabile, ciò si deve al fatto che tale moda è andata incontro al lavorio antitaliano ripreso da alcuni ambienti filotedeschi e nostalgici dell’Impero asburgico, presenti nel Friuli-Venezia e nel Trentino-Alto Adige, gruppi che di recente hanno rialzato la testa, approfit­tando dello sconquasso in cui il guelfismo al potere ha gettato l’Ita­lia ((La “Asburgomania” spinge talvolta il suo zelo fino al culto di elementi di contorno, quali le brache di cuoio (Lederhosen) e le stelle alpine. A proposito del costume con le brache di cuoio ricordiamo di aver visto una volta la parata militare (military tattoo) al Castello di Edim­burgo, in Scozia. Edimburgo è gemellata con Monaco di Baviera e pertanto sfilavano alternate le bande scozzesi e bavaresi (quest’ultime con le immancabili brache di cuoio). Ricordando la pate­tica impressione che queste provocavano di fronte al lento, solenne, marziale e quasi romano in­cedere degli Scozzesi, non comprendiamo che cosa trovino i guelfi nel costume con le brache di cuoio, che li faccia in tal modo sdilinquire. Riguardo poi alle stelle alpine, poiché questa è una ri­vista siciliana, ci sia consentito di riportare quanto scrive uno storico militare serio e certamente non sciovinista come Piero Pieri in Italia nella prima guerra mondiale, Torino, 1965, p. 173, circa un importante fatto d’armi che coinvolse la divisione austriaca Edelweiss (stella alpina) nel no­vembre 1917: “il 26 i Siciliani della brigata Aosta respingevano gloriosamente l’attacco della divi­sione Edelweiss al Col della Berretta”. Questo valga per coloro che hanno o fingono di avere la memoria corta!)).

Ci vogliamo dunque prendere il divertissement di rispondere a costoro, riportando il “Decalogo dei tricolori del Brennero”, detta­to da F.T. Marinetti all’Associazione denominata “La Guardia al Brennero”. Anche se molte delle idee strampalate del futurista Ma­rinetti sono assai lontane dal nostro ghibellinismo, occorre dargli atto che egli ebbe sempre altissimi l’idea e l’orgoglio della Patria italica, come traspare del resto chiaramente dal suo paradossale “decalogo”.

Lo trascriviamo pertanto integralmente, quale ironica risposta a tutti gli austriacanti, anche se siamo purtroppo consapevoli che, dopo un cinquantennio di guelfismo (iniziatosi con it Concordato del 1929 e tuttora perdurante), l’Italia e gli Italiani sono decaduti ri­spetto a quelli che it Marinetti aveva in vista nel lontano 1926:

1 – Divinita dell’Italia.

2 – I Romani antichi hanno superato tutti i popoli della terra: l’ita­liano oggi e insuperabile.

3 – Il Brennero non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza.

4 – L’ultimo degli italiani vale almeno mille forestieri.

5 – La lingua italiana è la pift bella del Mondo.

6 – I prodotti italiani sono i migliori del Mondo.

7 – I paesaggi italiani sono i più belli del Mondo. Per comprendere la bellezza di un paesaggio italiano occorrono occhi italiani, cioe occhi geniali.

8 – L’Italia ha tutti i diritti poiché mantiene e manterrà it monopo­lio del genio creatore.

9 – Tutto cio cheè stato inventato e stato inventato da Italiani.

10 – Perciò ogni forestiero deve entrare in Italia religiosamente ((Il “decalogo” marinettiano e riportato da Enzo Benedetto in Futurismo cento x cento, Roma, 1975, p. 59.)).

Gherardo Donoratico (3-continua)

 

Il grande Re ghibellino Vittorio Emanuele II di Savoia, effigiato con in capo la Corona di Ferro, emblema del Regnum Italicum.
Il grande Re ghibellino Vittorio Emanuele
II di Savoia, effigiato con in capo la Corona
di Ferro, emblema del Regnum Italicum.

 

Pubblichiamo col consenso dell’autore e con l’aiuto dell’amico Massimo Chiapparini Sacchini le quattro parti del presente saggio uscito per la storica rivista Il Ghibellino (1979 – 1983).

 

Questa terza parte era compresa nel NUMERO 4-5-6 (dicembre 1981 e.v.)

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