Annientare il nemico è il chiodo rosso sangue che, dal ’43, salda il programma con l’ azione dei comunisti in Italia. L’ultimo parto è l’inasprimento delle pene per chi osa dar da vedere d’essere fascista, va sbattuto al “gabbio”, in barba alla libertà costituzionale di pensiero ch’ a dire il vero mai c’è stata realmente nel nostro Paese. Cito qui il testo dell’articolo di legge proposto, già approvato da Montecitorio: ART. 293-bis. – (Propaganda del regime fascista e nazifascista). – Chiunque propaganda le immagini o i contenuti propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco, ovvero delle relative ideologie, anche solo attraverso la produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli a essi chiaramente riferiti, ovvero ne richiama pubblicamente la simbologia o la gestualità è punito con la reclusione da sei mesi a due anni. La pena di cui al primo comma è aumentata di un terzo se il fatto è commesso attraverso strumenti telematici o informatici ». Il gruppo di talebani rossi firmatari del disegno di legge vuole sia punito, tra l’altro, il saluto romano chiamando a sostegno della tesi l’assoluzione, incomprensibile, di quattro tifosi scaligeri nella partita di calcio di serie B Livorno-Hellas Verona, rei di quel gestaccio a mano tesa. Gratta, gratta il calcio sembra oggi l’unico laghetto dove pescare esempi inquietanti di rigurgiti fascisti| (sob!). Che c’azzecca, direbbe il manicheo Di Pietro, questo preambolo, con l’evocazione di Mario Sironi artista? Semplicemente i fatti biografici di questo genio eretico dell’arte del Novecento che testimoniano la sua fede profonda nel fascismo, ma ancor più nell’uomo che lo incarnava, il cavalier Benito. Eh si da lui non puoi grattar via la militanza senza soluzione di continuità da Piazza S. Sepolcro fino al sudario del 1961. Che ne sarà della sua arte murale degli anni ’30, delle sue vetrate che richiamano, non metaforicamente, alla simbologia sfacciata dell’odiato regime. Pensiamo, in proposito, al restauro filologico dell’Italia fra le Arti e le Scienze del 1935 con i suoi 200 mq di pittura murale nell’Aula Magna piacentiniana del’Università della Sapienza a Roma. L’applicazione della legge tornerà a far nascondere con braghettoni il saluto romano d’un personaggio o dietro una montagna l’imponente fascio littorio, e così via. L’iconoclastia rossa persegue l’annientamento d’ogni memoria storica non allineata, divergente dal messianismo religioso della lotta di classe, guarda caso a ottant’anni dalla distruzione e confisca di opere bollate come entartete Kunst ( arte degenerata) da Adolf Hitler tra cui diverse quelle di Pablo Picasso.
Mentre scrivo è stata inaugurata in pompa di magna ignoranza la mostra su Pablo Ruiz y Picasso alle scuderie del Quirinale per richiamare, con peperoncino provinciale, il suo breve tour (circa due mesi) fatto in Italia nel 1917. Ebbene il “compagno” Picasso ebbe a pronunciarsi così su Mario Sironi: “Avete un grande artista, forse il più grande del momento e non ve ne rendete conto”. Frase terribile del geniaccio spagnolo perché è vero, l’arte non conosce il fili spinati delle trincee che impigliano gli uomini nelle ideologie, per dirla in bergogliese: l’arte costruisce ponti non barricate, ma vallo a dire ai talebani rossi, orrore, per cinquant’anni Sironi fu morto, sepolto da critici voltagabbana, lui ch’aveva il torto d’essere rimasto in piedi sulle macerie senza cambiar casacca. Resuscitarlo oggi può voler dire fare propaganda dell’ideologia fassista? I nostri studenti continueranno a non studiarlo nella sua grandezza ma solo in quella paginetta dei testi scolastici con il ritratto dell’Architetto seguito da una periferia.
Sfidiamo la bretella fino a Fiano…Romano.
Che il nostro fosse un titano lo testimonia la prima mostra retrospettiva della Galleria Schwarz a Milano datata 1960 dedicata, pensate un po’, proprio a un duo apparentemente sui generis: Picasso, Pablo-Sironi, Mario.
Come gli addetti ben sanno l’artista di Malaga proprio nel 1917 esattamente il 17 di febbraio, insieme a Jean Cocteau e Igor Stravinskij, se ne scende giù da Parigi fin nel nostro Paese. Prima tappa a Roma dove alberga per circa un mese in via Margutta, c’è in ballo la realizzazione delle scenografie del balletto russo di Djaghilev per l’opera Parade del drammaturgo francese su musica di Satie. Roma in quel caso gli fu fatale anche in amore, vi conobbe la ballerina russa Olga Chochlova che divenne sua prima moglie. Il viaggio proseguirà poi verso Napoli e Pompei a contatto pieno con la mediterraneità calda quanto popolare del nostro meridione.
Picasso era alla ricerca di nuovi percorsi della sua ricerca espressiva, ritenendo ormai chiusa la fase decennale del cubismo, contrariamente al cocciuto Braque. Bene dopo questo tour cambia completamente stile e soggetti. Riscopre il mestiere dell’artista preconizzato dal greco De Chirico, riallacciandosi alla tradizione figurativa “classica”, chiudendo nell’armadio lo sperimentalismo delle avanguardie.
E’ una rivoluzione la sua, anticipatrice delle tesi sarfattiane del gruppo Novecento Italiano nato ufficialmente nel ’22 alla vigilia della marcia su Roma ma già in nuce nel primo dopoguerra.
Roma, dicono gli esegeti dell’Apocalisse, è la grande meretrice, la più bella, capace di nascondere i suoi anni con i gioielli senza tempo che indossa senza ostentazione, celandone i più intriganti fra le cosce. E’ la sua grande bellezza, parafrasando il senso del film di Scorsese, quella che formò Sironi fino al suo volontario esilio milanese, la stessa che mutò i geni dell’espressione artistica dell’hidalgo. Il sardo per caso ( era nato a Sassari nel 1885, perciò più giovane di Picasso ch’era dell’81 ) s’era formato a Roma scoprendo la sua tormentata vocazione all’arte, antagonista al progettino borghese di diventare anche lui ingegnere come suo padre. In questo c’è diversità con lo spagnolo, lui figlio d’arte, con un papà professore che dipingeva nature morte ma soprattutto piccioni ospitati liberamente in casa. Sironi, timido simbolista, si accosta alla fucina dei prossimi futuristi, frequenta lo studio romano di Giacomo Balla, lì conosce uno dei suoi pochi veri amici Umberto Boccioni ancora in bilico tra divisionismo e avanguardie ma in procinto di dar fuoco alla miccia marinettiana.
Pablo non è un autodidatta, frequenta l’ Accademia di Barcellona con successo. I suoi riferimenti sono nella pittura realista di Velasquez, Zurbarán, Francisco Goya come testimoniano le sue opere giovanili, ad esempio ciencia y caridad del 1897, i ritratti realisti dei suoi genitori del ’96 o ancor più la Prima Comunione di sua sorella Lola del 1890. Il grande salto venne per lui nel 1901, forse sconvolto dal suicidio dell’ amico Carlos Casagenas tradito dalla bella amata, morì sparandosi da romantico bohemien consunto per un amore non più corrisposto. Nasce così quel periodo blu denso di figure sofferenti, diremmo oggi l’universo degli emarginati, uno per tutti il vecchio chitarrista cieco del 1903. A questo periodo freddo ne seguirà uno più gioioso chiamato rosa per la prevalenza assoluta di quel colore. Pablo s’ è trasferito a Parigi, vive sul Bateau Levoir (battello lavatoio), frequenta gli artisti di Montmartre, a sera va al circo Medrano, soprattutto s’innammora di nuovo. I soggetti sono figure circensi, scimmie, saltimbanchi, donne,visti con gli occhi stupiti d’ un bambino, sospese in un alone di poesia. Poi esplode già sul finire del 1906 l’interesse per la lunga ricerca di Cèzanne esposto post mortem in una furba mostra retrospettiva delle sue opere. Les demoiselle d’Avignon è la prua del cubismo, cinque prostitute della famosa via a luci rosse di Barcellona, spianano la strada alla prima grande avanguardia.
Mario Sironi si accosta al Futurismo, poi cerca di cavalcarlo, si vedano Autoritratto con paglietta, Figura, il motociclista per la Piaggio. Ma la sua pittura è solida, materica, mantiene la terza dimensione, cerca la grandiosità dei monumenti filtrati dal setaccio dell’espressionismo tedesco. Sironi è più cubista che futurista, i piani che tagliano i soggetti non sono dinamici, segano le immagini come i coltelli degli illusionisti. C’è in entrambi la volontà comune di scomunicare la pittura francese del secondo ‘800, in primis quella degli impressionisti. La pittura costruita con l’intelligenza oltre che con i sensi è l’ancora salda delle loro navi, Cèzanne rappresentava il porto di Palos dal quale salpare per scoprire nuove rotte. La Grande Guerra scompiglia le avanguardie, inghiotte la Belle Epoque, la prima generazione dei futuristi cade in battaglia, Braque è chiamato alle armi, resta ferito, a Zurigo gli imboscati fondano il Dadaismo, un ’68 in arte ricco d’iconoclastia quanto volutamente povero di proposte. In quel di Ferrara De Chirico e Carrà, nel ’16, dipingono manichini inquietanti, c’è già un ritorno all’ordine che chiamano Metafisica, nulla che vedere con l’opera d’ Aristotele. Picasso e Sironi riscoprono la grande tradizione figurativa italiana prima, europea poi, alla quale guardare non con romantica nostalgia ma da ricercatori attenti a non tagliare le vecchie radici per farne nascere delle nuove. Una parola sola: sintesi tra l’aulico passato col frenetico presente senza rinnegare le esperienze personali vissute. La presenza umana torna a cantare da tenore o da soprano, è il centro del racconto con una fisicità nuova, deflagrante più che armoniosa. Certo il buon Mario stende sul cavalletto un’umanità nuda, presenza inquietante quanto sradicata dalle periferie dei casoni popolari, delle strade deserte, lingue inerti su cui scorrono cigolando i tram, qualche camion solitario, le prime automobili meneghine. Ne avvertiamo i rumori che stridono col silenzio di finestre spente, ciminiere a riposo, fasci di binari in attesa della vibrazione d’un treno. Picasso resta invece un pittore d’atelier intento al recupero della forma compiuta, alla solidità delle masse corporee, Mario si tuffa nella realtà cittadina con spirito critico ma pur sempre alla ricerca di una nuova grandezza, la monumentalità metafisica di fabbriche, gazometri, stazioni. Pensiamo alla grande bagnante firmata da Pablo nel ’21, d’una fisicità marmorea attraversata da grande tenerezza, il flauto e Pan del ‘23 che sembra addirittura dipinto da Sironi, La course di liberazione di due donne lungo una spiaggia del ‘22. Sironi risponde con l’allieva del ’24, gli architetti del ’25, la splendida Solitudine sempre del ’25, sculture più che pitture, anzi architetture umane.
Saltiamo per brevità agli anni ’30, Picasso, dopo un passaggio nel Surrealismo, torna alla pittura mentale costruita dall’elaborazione dell’uomo non dalla mimesi della Natura, affronta la scultura, antico amore anche di Sironi, produce a tutto campo nel campo della grafica. Va dall’incisione alla litografia, famose le sue immagini di amplessi, di baccanali, di tori antropomorfi avidi di sesso. Sironi in quest’ area l’aveva preceduto cimentandosi in illustrazioni satiriche già sull’Avanti! poi da vignettista graffiante sulle pagine del Popolo d’Italia.
Adesso però era il tempo della pittura pedagogica destinata al popolo, via dai cavalletti degli studi muffi, l’artista tornava ad esprimersi sulle pareti dell’architettura civile documentando le conquiste della rivoluzione. Era nato “l’artista militante” del Manifesto della pittura murale. Picasso risponde con il suo dipinto più famoso Guernica, piccola città basca colpita da un bombardamento tedesco nel ‘36, in giorno di mercato, durante la guerra civile spagnola. L’opera di Pablo è datata 1937, quest’anno spegne 80 candeline, resta un capolavoro dell’impegno civile dell’artista che guarda oltre la tragedia del primo bombardamento su una popolazione inerme, per additarci come bene assoluto la pace, quel piccolo fiore bianco che spunta dietro la spada spezzata d’un caduto. Sironi tra il 1936 ed il ’37 realizza il grande mosaico l’Italia corporativa, sistemato, dopo l’Esposizione Universale di Parigi, nel Palazzo dell’Informazione a Milano. Perché scegliamo quest’opera se non per sottolineare che è un manifesto della pacificazione nazionale sul tema assai vivo del lavoro oggetto di lotta tra gli opposti interessi di classe. Il corporativismo era o doveva essere quella terza via capace di superare il liberismo borghese contrapposto alla liberazione socialista delle masse operaie. Era esso coniugazione sinergica dei due poli chiamati alla produzione della ricchezza in un scenario nuovo, l’industrializzazione d’un Paese ancora a trazione agricola. Pace dall’orrore della guerra per Picasso, pace sociale per Sironi, in comune la stessa parola di speranza.
Nel ’44 l’artista spagnolo si iscrive al Partito Comunista Francese prendendo tessera, pur restando un convinto individualista, finché la codina base dei comunisti francesi non insorse contro di lui per un disegno giudicato offensivo del compagno Stalin. Fu errore del PCF pubblicare quell’immagine, forse il nostrano PCI l’avrebbe evitato ma non crediamo. Nel ’48 su Rinascita “il migliore”, a firma Roderigo di Castiglia bollerà come “cose mostruose”, “scarabocchi” le opere astratte esposte ad una mostra bolognese.
Sironi non prese mai la tessera del PNF ma restò saldo militante all’idea del fascismo-rivoluzione, legato fino all’ultimo all’uomo che l’ aveva incarnata, fino alla mattanza messicana di piazzale Loreto. Dal ’45, salvo poche eccezioni, Sironi venne appunto sepolto nell’oblio nel tentativo di annientarlo ma “ La sua pittura è una lezione di tragedia. Non c’è pittore che valga i suoi quadri” detto dal partigiano comunista Gianni Rodari è il migliore epitaffio per l’arte degenerata dell’aedo del duce.
Emanuele Casalena
Fonte foto: web