In quell’angolo di Paradiso, tra Arte e Natura, che è Villa Torlonia a Roma, squisito esempio di villa storica musealizzata, presso il Casino dei Principi è allestita la mostra: Arturo Dazzi 1881 – 1966. Roma – Carrara – Forte dei Marmi, che resterà aperta sino al 29 gennaio 2017. A cinquant’anni dalla scomparsa di Arturo Dazzi (1881 – 1966), la Fondazione Villa Bertelli, il Comune di Forte dei Marmi e il Comune di Carrara hanno organizzato un evento dedicato allo scultore toscano, raccontando i legami privilegiati che egli instaurò e coltivò nell’arco della sua vita con tre città: Carrara, sua città natale e della formazione, Roma, alla quale l’artista dovrà popolarità e successo, e infine Forte dei Marmi, il buen retiro dove l’esponente di spicco di quel nuovo classicismo scultoreo del ‘900 lavorerà ad alcune tra le sue più importanti opere monumentali.
Nella lodevolissima iniziativa di rivalutare quegli esponenti artistici legati al Ventennio (questa mostra segue quelle dedicate a Cipriano Efisio Oppo e Mario Sironi), vi è comunque una grave omissione di cui parleremo in chiusura di questo nostro scritto: la questione bresciana. Non sappiamo se si tratti di una semplice dimenticanza, oppure, cosa purtroppo assai probabile, della volontà di non alimentare scomode polemiche. Sia come sia, la mostra in corso a Villa Torlonia intende riportare all’attenzione nazionale una collezione di opere riguardanti non soltanto l’attività “ufficiale” di Dazzi, ma anche, e soprattutto, la sfera più intima e privata del suo lavoro. 60 opere, tra sculture, gessi, dipinti e disegni, che permettono oggi di riscoprire un pittore forse non fondamentale, ma sicuramente uno scultore di assoluto valore, ingiustamente obliato per i soliti motivi politici, nonostante egli si dimostrò scarsamente interessato alla militanza intellettuale, come invece fu nel caso di Oppo e Sironi. Cose della Italia moderna e “democratica” oseremmo dire.
La evoluzione dello stile di Arturo Dazzi ha inizio con le opere legate alla sua formazione che si svolge, come detto, a Carrara, fra il 1892 e il 1904, per poi proseguire a Roma fino al 1912 circa, quando l’artista alterna ad atmosfere liberty un più marcato realismo. A partire dal 1926, maturando la consapevolezza di essere un importante esponente della nuova concezione “classica” della scultura, il suo stile alterna la solidità nella forma a una dolcezza nelle espressioni. Il tema di riferimento non sarà però quel classicismo imponente col quale i più lo ricordano, bensì la innocenza legata al mondo animale, come si comprende chiaramente con Cavallino (1928, modello originale in gesso), esposto da Dazzi alla Biennale di Venezia del 1928, che troneggia al centro di una sala del Casino dei Principi. Tra i pezzi qui in mostra, quello probabilmente di maggiore impatto è Capriolo morente (1939, marmo), ove si manifesta la delicatezza dell’animo di questo artista, che ritrae un esserino morente in una piccola statua piena di pathos e armonia dimensionale, dimostrandosi così in perfetta continuità con la tradizione della scultura toscana. Non è quindi sorprendente che il principale animatore culturale dell’epoca in Italia, il sopracitato Oppo, parlò delle sculture di Dazzi, come arricchite da un “sentimento umano”, persino quando il soggetto umano non è.
Una autentica chicca per il pubblico romano è il poter vedere per la prima volta parte di quei modelli e disegni preparatori della Stele Marconiana dell’EUR. Eretta nel 1959, questa struttura in cemento armato (alta 45 metri) si trova nel centro del quartiere EUR. Dazzi ci lavora dal 1937 al 1959, concependo 92 pannelli in marmo lunense che raffigurano le imprese di Marconi nel campo della scienza. L’artista venne incaricato dallo stesso Mussolini per la realizzazione del monumento, il quale doveva essere un simbolo di quel potente riferimento alla romanità tanto caro al Regime. Il grande obelisco si inseriva nell’apparato celebrativo della mai realizzata Esposizione Universale di Roma del 1942. La maestosa stele avrebbe dovuto accogliere il visitatore, nel suo entrare in questa nuova espansione dell’Urbe. Un secondo monumento, invece, nella idea di Marcello Piacentini, la mente dietro alla progettazione dell’EUR, avrebbe dovuto posizionarsi alla fine del quartiere, metaforica porta verso il mare. Stiamo parlando del grandioso arco di Adalberto Libera. Dazzi venne chiamato a fornire un altro contributo alla memoria di Marconi, Presidente dell’Accademia d’Italia (1930 – 1937): in esposizione il modello in gesso del Ritratto a Guglielmo Marconi, una colossale testa grande tre volte il vero; terminata nel 1940 – 1941, venne collocata nel Mausoleo Marconiano a Pontecchio (Bologna).
Col tempo, Dazzi sviluppa un linguaggio del tutto personale, saldamente legato alla classicità, nel rispetto del vero. Non è un caso, allora, il suo totale rifiuto delle avanguardie, in altre parole dell’astrattismo, non sentendo mai la necessità di recarsi Parigi. Una mirabile presa di posizione la sua, nel ribadire con fermezza come il centro dell’arte mondiale andasse ricercato soltanto in Italia, per mezzo della rivisitazione del modello antico tramite il confronto col Primo Rinascimento, come si può vedere nella Statua di Curzio Malaparte (1952, legno), una opera possente, benché snella e agile, attestandosi quale un chiaro rimando a Donatello. Sempre per quanto riguarda la “scultura memoriale”, colpisce il Monumento a Trilussa, (1942, modello originale in gesso), che ricorda in modo sorprendente una stele indiana, dove persino gli occhi del soggetto sono chiusi, come se stesse in meditazione.
Dazzi fu un artista di fama durante il Ventennio, onnipresente alle mostre nazionali: in occasione della XV Biennale Internazionale d’Arte di Venezia del 1926 gli fu dedicata una intera sala, la n. 24, quasi una personale. Egli ebbe come grande estimatore un altro protagonista dell’arte italiana, quel Carlo Carrà, che puntualmente soleva informarsi sugli stadi di avanzamento delle sue opere. Proprio il celebre pittore, uno dei massimi esponenti, secondo solo a De Chirico, della Metafisica, riteneva che Dazzi avesse trasformato il pur vivo riferimento all’antico in una visione in qualche modo tormentata e quindi più moderna e attuale. Quell’“antico” non era, come molti frettolosamente potrebbero pensare, il classicismo romano riproposto dal fascismo, ma il Rinascimento, nella ricerca di un equilibrio naturale, poiché per Dazzi la Natura era: “maestra di tutto, è anche la mia sola maestra”.
La mostra pone altresì attenzione sulla sua assai meno conosciuta attività di pittore, mostrandone le evoluzioni stilistiche intervenute durante l’arco di tempo compreso fra il 1932 e i primi anni ’50. Anche qui, ritroviamo la totale assenza di quella retorica politica che segnò la inarrivabile arte di Sironi. In Dazzi è il paesaggio una costante che mai lo abbandonerà, ritraendo sempre il vero, ciò che poteva guardare a poca distanza dalla sua abitazione, come le vedute di Marina di Massa e Cinquale. Le tante tele esposte suggeriscono come egli dedicasse buona parte del suo tempo al dipingere. Purtroppo, risulta evidente che se il Dazzi scultore deve rientrare a pieno titolo nella storia dell’arte moderna, lo stesso non lo si può dire per le sue pitture, le quali non spiccano né per qualità formale, né tantomeno per innovazioni tematiche.
Dicevamo all’inizio di Brescia, neanche una parola viene spesa sulla opera che più di ogni altra ha riportato prepotentemente alla ribalta il nome di Dazzi. Ci riferiamo al Bigio (1932), questo “colosso virile” (7 metri e mezzo), che un tempo era posizionato al centro di piazza della Vittoria, per poi essere rimosso con la caduta del Regime, rappresentandone la quintessenza marmorea. Non è chiaro se sia stata Brescia a negarsi nel partecipare in qualche modo alla mostra romana o se il Comune non sia proprio stato interpellato. Fatto sta che una delle più grandi realizzazioni di Dazzi – almeno in termini di dimensioni – poteva e doveva essere presente in questa occasione con fonti e foto. Il “Dazzi fascista” andava forse raccontato meglio, come pure il suo sodalizio con Marcello Piacentini. Costui progettò nel 1947 la Chiesa della Divina Sapienza a Roma, situata nella Città Universitaria, dove campeggia sulla facciata per l’appunto una opera di Dazzi: la bella Madonna della Sapienza (1959 – 1960). Sulla sua produzione ufficiale, quella che gli procurò la stessa damnatio memoriae che si abbatté con ancor maggior spietatezza su Mario Sironi, in questa esposizione si dice ben poco; oltre che alla Stele Marconiana, si fa riferimento a un fregio da lui elaborato per il Vittoriano, il suo primo coinvolgimento in una commissione da parte dello Stato, nonché alcune foto della stupenda Vittoria Sagittaria, posta sulla facciata dell’Arco ai Caduti a Bolzano, progettato sempre da Piacentini nel 1925, e inaugurato nel 1928.
Nomen omen dicevano i romani. Ebbene, a Forte dei Marmi lo studio di Dazzi si trovava in via Antonio Canova, scultore immenso, “principe” degli artisti tra ‘700 e ‘800. Dazzi visse una vita creativa parzialmente slegata, dalla sua ostinazione nel perseguire la pittura, a un alternarsi tra una scultura di propaganda e una nel solco della tradizione toscana. Differentemente da Sironi, noi vi è alcuna inquietudine in Dazzi, nessun desiderio di “commentare” la società a lui contemporanea. Purtuttavia, ciò non lo salvò dal condividere il medesimo destino del pittore sardo, e oggi, praticamente tutte le sue opere si trovano in collezioni private. Cosa altro aggiungere? Una piccola mostra su di un grande artista, poco conosciuto e questo riteniamo sia un male. La “cornice”, sì. Il fatto che questa esposizione venga ospitata in un luogo dove dialogano come in nessuna altra parte al mondo, esclusa la divina Villa Borghese, Arte e Natura esprime il miglior tributo a un personaggio come Dazzi. A Villa Torlonia si ha, perciò, la possibilità di riscoprire questa figura di spicco dell’Italico Bello. Se il Bigio, viste le tesi pro e contro, tornerà o meno a mostrarsi in quel di Brescia alla fine poco importa. Rimane però il dato. Ovvero, se l’aver lavorato per il Regime, seppur senza alcun attivismo politico, è stata una colpa, allora crediamo che il disastro culturale di questo Paese sia meritato, giacché questi italiani, nelle parole di Federico Zeri: “Non si meritano niente”.
Curioso notare che le sfingi alate nella residenza di Mentana che fu di Zeri provengano proprio da Villa Torlonia, le stesse sfingi che si trovano all’ingresso del Casino dei Principi. Il grande storico dell’arte lasciò casa, fototeca d’arte (la più importante esistente) e biblioteca alla Università di Bologna, e divise la sua collezione personale tra i Musei Vaticani e l’Accademia di Francia a Villa Medici. Per Zeri lo Stato Italiano valeva nulla. Può anche darsi che egli si sia sbagliato nel giudicare il Trono Ludovisi un falso, ma di certo non cadde in errore nel pensare che la “Benemerita Repubblica” fosse solo un simulacro di alcuni buoni e inattuati propositi.
Riccardo Rosati