Cesare Forni, cavaliere errante del patriottismo,
che bastonò mezzo mondo e minacciò l’altra metà”
(“Critica politica” 1923, fasc. III)
- Cesare Forni, “l’Ercole biondo” della Lomellina inizia la dissidenza fascista.
Cominciamo col chiarire un voluto equivoco. Cesare Forni non è un “agrario” nel senso che più comunemente e spregiativamente si dà a questa parola. Non è, cioè, erede di una ricca famiglia proprietaria di terreni dai quali spesso vive lontana, in città, dei quali non conosce le problematiche, e all’incremento produttivo dei quali nemmeno si interessa (il famoso “la terra a chi la lavora e la fa fruttare di più”, che i fascisti contrapporranno, in un’ottica di solidarietà nazionale, al semplice ed egoistico “la terra chi la lavora” dei socialisti).
Non sono tipi, i Forni, che hanno cominciato da contadini, e poi piccoli affittuari, di accontentarsi di una rendita parassitaria. Per loro, la terra e la sua lavorazione è una vera “ragione di vita”, che, al prezzo di “affittanze” onerose che costano sacrifici (e l’investimento di tutto il capitale posseduto), li spinge ad incrementare i terreni “loro”. Che poi, in effetti, “loro” non sono, ma solo affidati con contratti dalla durata variabile, fino ai diciotto anni, che obbligano, di fatto, l’intera famiglia ad affiancare il padre nella conduzione della “azienda”.
Per essi vale appieno il ritratto ricavato dalla lettura delle fonti d’epoca:
Individui robusti e sanguigni, piuttosto rudi e schietti, dalla vita regolare, con famiglie generalmente assai numerose e dai costumi patriarcali, gran lavoratori, dall’alba la tramonto (specie tra i vecchi che hanno cominciato la loro carriera col condurre l’aratro). (1)
Se la descrizione fisica delle parole iniziali di questo brano si adatta perfettamente a Cesare, qualcosa da dire ci sarebbe su quel “gran lavoratore”. A Torino, dove i genitori lo mandano a frequentare Ingegneria (presumibilmente per una futura attività legata sempre alla terra), si lascia distrarre da altro, perchè “il gioco e la bella vita non gli dovettero dispiacere”, fino ad influenzare negativamente i suoi studi, con gran dispiacere del padre, esponente in vista del “partito dell’ordine” al suo paese.
Lui non se ne farà invece un cruccio, e al Duca d’Aosta che, qualche tempo dopo, sul fronte dell’Isonzo, gli chiederà cosa facesse nella vita civile, risponderà con sfrontatezza: “Giocatore di biliardo e studente a tempo perso”.
Sarà proprio la guerra a dare una svolta alla sua vita. In prima linea dal 12 maggio del 1915, vi resterà ininterrottamente fino a febbraio del 1919, quando tornerà a Torino. In questo periodo si guadagnerà una medaglia d’argento, due di bronzo, la promozione “sul campo” da Tenente a Capitano, e sarà prima inquadrato in un Reparto Alpino e poi nella nuova specialità dei Bombardieri.
A loro, che raggiungeranno la notevole cifra di circa 34.000 uomini, metà Artiglieri e metà Truppe d’Assalto, muniti di slabbrati cannoncini, tocca prendere posizione in primissima linea, spesso nella “terra di nessuno”, per scaricare, in prossimità dell’attacco, una tempesta di fuoco sul nemico e sulle difese avversarie costellate di filo spinato. Tutto questo inframezzato da scontri – anche all’arma bianca – con pattuglie avversarie che vanno loro spavaldamente incontro.
Attività guerresca che richiede fegato e nervi saldi, e, nell’arruolamento, non si va troppo per il sottile:
Quanto ai soldati bombardieri, nell’estate 1917 essi provenivano dai convalescenziari o dalle chiamate di volontari presso le Unità di Fanteria. E chi fu a contato per necessità di comando, con questi “volontari”, non li trovò sempre di suo gusto: anime dannate, elementi pericolosi che avevano provato il piacere della violenza, “uccisori” professionisti, che ad un indubbio coraggio univano il desiderio di saccheggio e l’insofferenza per la disciplina. Più pericolosi, in certo qual modo, degli Arditi, la cui “arditezza” aveva dei limiti posti dall’alto”. (2)
Non lo spaventa certo il contatto con questi uomini rudi e fin troppo spregiudicati, dei quali si guadagna il rispetto con l’esempio e con l’autorità che gliene deriva. Già la sua figura fisica impone soggezione nel particolare ambiente delle trincee dove lui, “Capitano Forni, forte muscoloso tipo di Ardito alpino” nel ricordo di Marinetti, anch’egli Bombardiere, che lo incontra nel corso di una esercitazione, e “biondo leone di Lomellina” nella definizione dannunziana, si impone già al primo contatto.
Impressionato resta anche Cesare Maria de Vecchi che ha messo insieme un Reparto misto formato da Arditi e bombardieri scelti, il cosiddetto “Nucleo Arditi de Vecchi”, e chiama a farne parte anche quell’Ufficiale, che a sperimentate capacità guerresche e sicuro carisma unisce un atteggiamento di “cameratismo e solidale complicità di gruppo” con i suoi uomini, naturale prosecuzione della consuetudine con i “suoi” contadini e premessa dello specialissimo rapporto con i “suoi” squadristi lomellini.
Il 19 febbraio del 1919, come accennato, rientra al Deposito di Torino dal quale era partito quattro anni prima. Anche per lui, però, come per tanti che rivedono casa dopo molto tempo, il ritorno alla “normalità” di allora sarà impossibile.
Lo stato d’animo del reduce Cesare, in particolare, non è molto diverso da quello descritto da due autori diversissimi tra loro, ma che in comune hanno, come il giovane Capitano dei Bombardieri, un’esperienza di guerra combattuta con coraggio e valore:
Quando tornai dalla guerra – appunto come tanti – avevo in odio la politica e i politicanti che, a mio parere, avevano tradito le speranze dei combattenti, riducendo ad una pace vergognosa l’Italia e a una umiliazione sistematica gli Italiani che avevano il culto degli eroi.
Lottare, combattere, per ritornare al paese di Giolitti, che faceva mercato di ogni ideale? No, meglio negare tutto, distruggere tutto, per tutto rinnovare dalle fondamenta. (3)
Chi ha comandato una Compagnia in tempo di guerra, può ricominciare, senza sforzo, a studiare sui banchi della scuola? Chi ha comandato un Battaglione, può rimettersi, senza sentirsi umiliato, a fare l’impiegato d’archivio o lo scrivano a 500 lire al mese? La vita civile diventava per loro impossibile… potevano rientrare nella vita normale, in stato fallimentare, essi che avevano vinto la guerra? E inoltre, non avevano essi ogni giorno rischiato la vita? (4)
Se “fare l’impiegato d’archivio o lo scrivano a 500 lire al mese” non è certo il rischio che corre Forni, stante la solidità economica acquisita dalla sua famiglia in tanti anni di sacrifici, è indubbio che egli conosce lo stesso malessere di Balbo verso una politica che sta umiliando l’Italia in campo internazionale e la sta conducendo sull’orlo della guerra civile all’interno.
A Torino, sono stati proprio gli ex combattenti, guidati dal capitano degli Arditi Gino Covre, a novembre dell’anno prima, a dare l’assalto prima ad un corteo socialista che percorreva le strade intonando motti antipatriottici, e poi alla sede della Camera del Lavoro che, invece di predicare la concordia cui tutti aspirano a guerra finita, organizza in continuazione scioperi, con l’inevitabile corredo di violenze.
Pur privo di ogni precedente politico, Forni capisce d’istinto qual’è il suo posto nei contrapposti campi che vanno profilandosi, e fa la sua scelta. Ad aprile è, con De Vecchi, il vecchio camerata dei tempi di guerra, nella Commissione esecutiva del Fascio cittadino, e ci resta fino ad agosto, quando finalmente congedato, può effettivamente tornare a casa.
In Lomellina, la situazione non è delle migliori, anche se simile al resto d’Italia: contadini in rivolta, (mal)guidati dal massimalismo socialista, borghesi delle città, fittavoli e proprietari delle campagne sulla difensiva, angariati e sottoposti non di rado a violenze.
Quando, a novembre, si arriva alle elezioni politiche, con il movimento mussoliniano presente solo a Milano, Cesare non può, per temperamento e convinzioni, stare a guardare. Di Fasci in zona ce n’é pochini, quasi tutti in embrione più che effettivi, con l’eccezione di Stradella, dove già una ventina di giorni dopo San Sepolcro, ha preso vita una Sezione che arriverà a contare alcune centinaia di iscritti.
Allora, egli scende risolutamente in campo, in appoggio al fratello Roberto, candidato della Lista dei Combattenti, e lo fa alla sua maniera, senza farsi minimamente intimidire dalla tracotanza di chi sente già vincitore.
Scontri e incidenti a Sannazzaro, a Pavia, a Mortara e altrove. Escluso, per il momento, l’impiego di armi da fuoco, il gigante dagli “erculei muscoli e dai “pugni formidabili” impone il rispetto, assicura lo svolgimento (quasi) regolare di comizi e manifestazioni, e si guadagna fantasiosi soprannomi degli avversari: “l’ammazzasette”, “il baubau”, “l’enfant terrible”, “al balabiut”, “al mat” e via dicendo.
Finita la campagna elettorale, torna a Torino, e “riprende servizio “al Fascio, dove prende posizione, in nome dei vecchi legami trinceristi, a favore del vecchio compagno d’armi De Vecchi, perennemente in lotta con Mario Gioda.
È il suo, comunque, un impegno di scarsa rilevanza, in quello che può essere considerato il periodo più burrascoso e triste della sua vita: in lui anche il “malessere del reduce” assume forme esagerate, che i suoi nemici gli rinfacceranno per anni:
Altri sono gli interessi che lo attraggono, in questi mesi, sicuramente più della politica. Non sa, infatti, sottrarsi al’ambiguo e rovinoso fascino del gioco d’azzardo, non disdegna le belle donne e le fugaci avventure galanti, finisce per farsi coinvolgere in affari avventati e disgraziatissime operazioni commerciali, che lo riducono assai prossimo alla rovina. (5)
Tutto finisce quando, come vuole la tradizione alla quale sentono di appartenere, intervengono gli altri componenti della famiglia. Ad aprile del 1920 il padre e il fratello Virgilio lo raggiungono a Torino, sanano i debiti, compresi gli interessi, e il 3 maggio “chiudono” tutto, con una scrittura privata che subordina il loro intervento “all’espressa e precisa condizione che il fratello Cesare si allontani nella giornata da Torino, si rechi presso la famiglia e vi permanga in modo definitivo”.
Il suo rientro galvanizza, per la fama che lo circonda, i primi fascisti, che cominciano ad organizzarsi e a saldare le fila. L’avvenimento più importante è, con ogni probabilità, la nascita del Fascio di Mortara, destinato ad avere un ruolo guida.
Affidiamoci alla penna di un giornalista che, se anche cede qualcosa al gusto narrativo, è sempre rigoroso nelle ricostruzioni, come in questa relativa al Fascio di Casale (siamo sempre “in zona”), ma che rende perfettamente l’idea di ciò che avviene, nei mesi finali del 1920, un pò dappertutto:
Quel che avvenne il 20 novembre del 1920 sorprese tutta la città. In via Filippo Mellana, a Palazzo Lanza, si trovarono 14 uomini. Il più conosciuto era De Vecchi, arrivato apposta da Torino. Gli altri 13 erano tutti giovani di fegato che avevano combattuto nella guerra mondiale e si sentivano pronti a opporsi alla marea montante del nostro bolscevismo.
Se ci rifletto oggi, a tanti anni di distanza, resto sempre colpito dal numero molto esiguo dei primi squadristi della mia città. Quando li confronto con la folla di socialisti che riempiva Piazza del Cavallo per festeggiare la conquista del Comune, mi sembravano dei nani così pazzi da assalire un gigante.
Ma era questa la loro forza: andare in pochi contro tanti. L’arma più grande di cui disponevano era l’assurdo coraggio. I socialisti non si aspettavano di averli addosso. Per arroganza, per ignavia, per eccessiva presunzione, li sottovalutavano e li irridevano. Ma proprio questo atteggiamento li avrebbe persi. (6)
Qualcosa del genere accadrà anche a Mortara, dove l’arrivo di Forni darà una decisiva spinta ai primi segni di ripresa della fino allora difficile vita del piccolo Fascio, e realizzerà un unicum nella stessa storia degli inizi del movimento mussoliniano.
Infatti, come è stato giustamente notato, se pure la componente agraria (soprattutto padana) ha un ruolo importante alle origini del fascismo, non è essa a guidarlo, ad eccezione della Lomellina:
Ben poche figure di punta del movimento provengono, tuttavia, da quell’ambiente. I leaders più importanti sono per lo più di estrazione urbana e piccolo borghese. Per la gran parte si tratta di avvocati, pubblicisti, giornalisti, organizzatori sindacali, molti con alle spalle l’esperienza del sindacalismo rivoluzionario o di una chiassosa militanza nazionalista.
Forni, invece – e il caso appare più unico che raro – di quel mondo rurale è diretta espressione, anche se non farà mai l’imprenditore agricolo. (7)
La sua sarà un’opera non facile, in quella che con Ferrara e Rovigo, viene considerata la provincia più rossa d’Italia, nella quale l’infatuazione massimalista ha provocato una serie di violenze tali da dare l’idea, soprattutto in occasione dello sciopero agrario di marzo (che durerà 48 giorni), di una zona “in stato di assedio”, nella quale dominano le formazioni paramilitari sovversive: Guardie Rosse e Ciclisti Rossi, vanamente o per niente contrastati dalle esigue forze dell’ordine.
Il colpo di grazia è dato dall’ordine delle Leghe ai mungitori, fino ad allora esclusi dallo sciopero, di astenersi dal lavoro, con le cascine che risuonano dei lamentosi muggiti delle mucche lasciate con le mammelle gonfie.
L’effetto, anche psicologico, di tale situazione su chi a fianco agli animali vive giorno e notte, li considera quasi “di famiglia”, al punto di chiamarli con nomi di persona, è facilmente comprensibile. L’inumanità di tale decisione (che arrivare al punto di marchiare con inchiostro il palmo delle mani dei mungitori, così da accertare eventuali violazioni del divieto) scaverà veramente un solco incolmabile tra persecutori e perseguitati. La di poco successiva uccisione – durante uno sciopero di tagliariso – di Luigi Magni, fittavolo e sindaco di Castellato de’ Giorgi, “sorpreso” a lavorare, in giorno di sciopero, la sua terra, insieme ai figli, sarà la dimostrazione più tragica dell’irreversibile degrado della situazione.
Se questo registra la cronaca, anche la realtà politica dà un segnale poco incoraggiante: alle elezioni amministrative di ottobre, 45 Comuni su 50 sono “conquistati” dai socialisti.
Un effimero momento di gloria. I tempi sono maturi perché qualcosa cambi.
– fine prima parte –
FOTO NR. 1: Cesare Forni al fronte
FOTO NR. 2: il caffè Guglielmone, primo luogo di raduno dei fascisti a Mortara
NOTE
- Pierangelo Lombardi, Il ras e il dissidente, Cesare Forni e il fascismo pavese, dallo squadrismo alla dissidenza, Roma 1998, pag. 24
- Mario Silvestri, Isonzo 1917, Rizzoli Milano 2014, pag. 225
- Italo Balbo, Diario 1922, Milano 1932, pag. 6
- Emilio Lussu, Marcia su Roma e dintorni, Torino 1945, pag. 16
- Pierangelo Lombardi, op. cit., pag. 84
- Giampaolo Pansa, Eia eia alalà, controstoria del fascismo, Milano 2014, pag. 93
- Pierangelo Lombardi, op. cit., pag. 11