8 Ottobre 2024
Appunti di Storia

ASPETTANDO LA RIVOLUZIONE: inizia la dissidenza fascista (dicembre 1922) 2^ parte – Giacinto Reale

 

Noi, oggi più che mai siamo col Duce,

con Benito Mussolini, il creatore del nostro movimento,

e gli daremo il nostro più incondizionato appoggio.

Nella presente crisi, Mussolini si batte per l’ideale.

E allora Mussolini è nel vero,

e se è nel vero, noi dobbiamo essere con lui.

(Forni su “Il Risveglio” del 26 agosto del 1921, in occasione del Patto di Pacificazione)

 

  1. Cesare Forni, “l’Ercole biondo” della Lomellina inizia la dissidenza fascista.

 

Il 1922, destinato ad essere definito “l’anno fascista per eccellenza”, di rivelerà tale anche per Cesare Forni, che, nell’arco di due mesi passerà dal ristretto ambito della sua Lomellina alla ribalta nazionale, per poi arrivare, verso la fine dell’anno, a quelle prime manifestazioni di dissidentismo che lo vedranno ancora protagonista, con risvolti anche drammatici.

Tutto, però, comincia a Mortara l’8 maggio dell’anno prima, quando arriva per un comizio, Mussolini, accompagnato dal fratello Arnaldo. Lo fa, con indubbia intuizione scenografica, pilotando personalmente una potente auto sportiva, e scortato da 30 motociclisti in camicia nera. Anche in paese, l’immagine è curata: Silvio Magnaghi gli affianca, come accompagnatore-guardia del corpo, proprio Cesare Forni, che per prestanza e stazza, non è proprio uno qualunque e sembra impersonare perfettamente l’uomo nuovo fascista.

La scelta di Magnaghi, già Colonnello dell’Esercito, “sveglio, allegro e coraggioso”, già distintosi a Torino anche nelle manifestazioni pro Fiume, che da pochi mesi sta organizzando le squadre, sulla base di formazioni di cavalleria, di ciclisti (col manganello legato alla canna della bicicletta), di motociclisti e di Arditi, si rivela vincente. L’impressione che Cesare fa sulle folle, sarà efficacemente riassunta, per i suoi lettori, di qui ad un annetto, in occasione delle giornate milanesi dello sciopero di agosto, da un anonimo cronista francese, che così la trasmetterà ai suoi lettori d’Oltralpe: “Grand great blond, dont la chemise noire est striee de tout l’arc-en-ciel des croix internsationales de la bravoure”.

In quelle poche ore passate fianco a fianco, Cesare sarà letteralmente affascinato dalla figura del Direttore de “Il Popolo d’Italia”, che, da parte sua fa, un discorso efficace, che tocca tutte le corde del sentimento dei presenti:

Noi rinnoviamo qui il nostro giuramento, o magnifica gioventù della Lomellina redenta, non permetterai più che i tiranni di ieri tornino ad imperversare su queste terre. Ad esse vogliamo consacrare la nostra prima vittoria. Noi abbiamo combattuto ed abbiamo vinto. Ora si tratta di ricostruire. E per la ricostruzione siamo un esercito immenso. I fascisti in Italia sono ormai cinquecentomila. (1)

 

Parole che sono armoniosa musica per le orecchie di Forni. Ad impedire che “i tiranni tornino ad imperversare” ci penserà lui, con una formidabile tenaglia. Con l’azione, quando con le sue squadre, e in prima persona, alieno da ogni inutile violenza (si vanterà di non aver mai imbracciato un’arma durante la guerra civile), butterà gamballaria l’intero apparato socialista, che sembrava invincibile. Con i fatti, stipulando, di lì a qualche mese, nella sua duplice veste di responsabile del Fascio di Mortara e Segretario Generale della Confederazione dei Sindacati Economici Autonomi della Lomellina, nuovi accordi con la controparte agraria, che prevedono Uffici di collocamento, di avviamento al lavoro e una Commissione arbitrale per risolvere le vertenze, assicurando così la agognata pace sociale, sulla falsariga delle richieste che erano già state delle Leghe,

Sotto la sua guida, il Fascio di Mortara si trasforma e si dà una sede degna di questo nome, che sostituisce l’originario luogo di riunione, il caffè Guglielmone, in Piazza del Municipio. Questa trasformazione conserverà poi per sempre, come noterà, a marzo del 1922, “Il Secolo”:

 

Entrando nella sede del Fascio di Mortara, si ha l’impressione di entrare nella sede di un Comando Militare in tempo di guerra. Rapporti che arrivano ed ordini che partono. Si chiedono uomini e si dislocano. E si adopera il caratteristico linguaggio d’uso nei rapporti tra Comandi Militari.

Il Comandante di questo esercito, l’ex Capitano degli Arditi Cesare Forni, segretario politico della Federazione pavese – un giovane atleta dagli occhi più azzurri dei suoi molti nastrini al valore – parla chiaro e risoluto, senza eufemismi, senza perifrasi, senza mezzi termini. (2)

 

Né Forni trascurerà aspetti apparentemente minori, che però, e lui che conosce bene la vita dei campi lo sa, incidono fortemente sul benessere dei più poveri: “convince” (con aperte minacce) i proprietari a corrispondere ai mondariso gli arretrati della monda, e, nello stesso tempo, fa corrispondere ai più bisognosi, anticipi sulla prossima monda.

Sono questi i fatti che disorientano i vecchi agitatori socialisti, inconcludenti parolai in attesa della rivoluzione bolscevica.

A dargli una mano, sul campo sono personaggi come Silvio Magnaghi, al quale si è già accennato, Gigi Lanfranconi e Luigi De Scalzi, che meritano due parole.

Lanfranconi, comasco di origine, leader studentesco all’Università di Pavia, poi giornalista e avvocato, di convinzioni repubblicane, è stato interventista-intervenuto” e fascista della prima ora.

Quando riprende la sua attività politica, in Lomellina, si rende subito popolare per l’efficacia dei comizi, che non disdegnano qualche puntatina “attivistica” (anche se Cesare Rossi lo fredderà on una battuta che avrebbe potuto essere delle sue: “conosceva solo il fuoco delle sue freddure”), per la singolare immagine che lo rende inconfondibile (barba folta e nera, capigliatura scarmigliata, abiti sempre neri e cappellaccio dello stesso colore), e per una insistita passione per l’ironia e le barzellette, con le quali infiora non di rado anche i discorsi in piazza.

Più diverso non potrebbe essere Luigi De Scalzi, di Stradella, volontario di guerra, Capitano degli Arditi, tra i fondatori del Fascio del suo paese. Per la sua esperienza e le spiccate attitudini militari e di uomo d’azione, sarà a capo della Legione Stradellina, presente un po’ dovunque, e, in particolare a Milano nei giorni della Marcia. Nominato poi Console della Milizia, sarà espulso dal PNF nel 1923 per la sua adesione al dissidentismo del quale diremo.

Dopo un’alternanza di rapporti positivi/negativi con l’ufficialità regimista (parteciperà, da volontario, alla guerra d’Africa) chiederà di partire – di nuovo volontario – allo scoppio del conflitto mondiale, fino ad essere colto, mentre è in licenza a casa, dall’armistizio.

Dopo qualche tormentato mese, De Scalzi, probabilmente influenzato dalla sua cultura risorgimentalista e dall’esperienza della prima guerra mondiale (che significa avversione ai Tedeschi), passerà in montagna, con una sua formazione affiliata a “Giustizia e Libertà”, scontrandosi non di rado con i comunisti che, anche a guerra finita, non gli perdoneranno la sua autonomia.

La morte lo coglierà nel 1966, e qui avviene un fatto che, per la sua singolarità, ha giustificato queste righe, perché dà l’idea della complessità delle vicende delle quali parliamo. Il figlio, interpretando la volontà del defunto, chiederà che i quattro cordoni del feretro siano retti da due squadristi e due partigiani.

Nessun rinnegamento dell’esperienza del 1921-22, che anzi, nelle intenzioni di De Scalzi può sposarsi con quella successiva del 1943-45. Ambedue animate, innanzitutto, dallo stesso amor di Patria.

Con loro, una serie di personaggi minori. Due parole su uno di questi, che ripete un tipo – fisico e caratteriale – abbastanza comune nelle squadre fasciste e autorizzerebbe una digressione socio-psicologica che rimandiamo, però, ad altra occasione. Il protagonista della nostra storia è Carlo Natale:

 

… figlio di un fittavolo di Ottobiano, che gestiva la cascina Casale, a Cofienza. Lo chiamavano Nadalon, per via della corporatura, un tipo grande e grosso, anche più massiccio di Forni, con una curiosa faccia da bonaccione che contrastava con la complessione fisica, e, soprattutto, con il carattere molto aggressivo… avrebbe poi percorso tutta la parabola del fascismo, RSI compresa, che lo vide finire a Genova, con un incarico politico.

Dopo la guerra fu condannato per collaborazionismo, ma se la cavò come molti altri. E se ne andò lontano da Mortara, a Sorrento, dove prese in gestione un piccolo hotel. Un giorno, era l’estate del 1966, litigò con un vetturino che pretendeva una tariffa eccessiva da un cliente dell’albergo. L’uomo cercò di colpirlo con la frusta, ma Natale gliela spezzò. Allora il fiaccheraio tornò a casa, prese la pistola, si ripresentò da Natale, e lo freddò con una scarica di rivoltellate. (3)

 

Sconfitti gli avversari, assicuratosi il pieno controllo della situazione locale con personaggi come quelli citati (e altri) Forni può cominciare a pensare a dedicarsi a quella proiezione nazionale alla quel probabilmente nemmeno lui “antipolitico al cubo” nella definizione di Pansa, pensava, quando tutto è iniziato, ma verso la quale lo stanno indirizzando gli eventi stessi.

E lo fa scendendo subito in campo sulla grossa questione che agita le file fasciste nell’estate, quella del Patto di Pacificazione, voluto da Mussolini, ma non ben digerito dalla base squadrista delle Province, oltre che da gran parte del vertice del movimento avviato a diventare Partito.

La posizione del leader della Lomellina, in verità, è in controtendenza rispetto a quella della maggior parte dei capi squadristi e dei Fasci emiliani e toscani, comunemente definiti, come il suo, “agrari”. Niente di scandaloso, solo l’ennesima prova della irriconducibilità del primo fascismo a schemi prefissati.

Scriverà, il 26 agosto, sul giornale locale “Il Risveglio”:

 

Noi, pur riservandoci sempre la più ampia libertà di critica e di giudizio, pur aborrendo da tutto ciò che possa parere ed essere feticismo, oggi più che mai siamo col Duce, con Benito Mussolini, il creatore del nostro movimento, e gli daremo il nostro più incondizionato appoggio. Nella presente crisi, Mussolini si batte per l’ideale. E allora Mussolini è nel vero, e se è nel vero, noi dobbiamo essere con lui. (4)

 

Una bella prova di lealtà e fiducia, ma che servirà a poco. Mussolini, consapevole di essere in minoranza, dopo la riunione del 16 agosto a Bologna, nel corso della quale i rappresentanti dei maggiori Fasci padani si sono espressi nuovamente contro il patto, si dimette dalla Commissione esecutiva, senza rinunciare a toni francamente melodrammatici: “La partita è ormai chiusa. Chi è sconfitto deve andarsene. E io me ne vado dai primi posti. Resto, e spero di poter restare, semplice gregario del Fascio milanese”.

Con lui si dimettono anche Cesare Rossi e Roberto Farinacci, sia pure per motivi opposti tra loro.

I vincitori del confronto non pigiano però sull’acceleratore. Respingono le dimissioni sue e di Farinacci, mentre accettano quelle di Rossi che, con una lettera dai toni inaspettatamente duri, ha scavato un solco con gli uomini delle squadre. Per il resto, mentre il Patto è, di fatto, “sospeso” in tutta Italia, ogni decisione viene rinviata al Congresso di novembre.

Congresso che si svolge in un clima abbastanza teso, per la contemporanea mobilitazione antifascista, ed offre così la possibilità a Forni di mettersi ulteriormente in mostra nei ripetuti scontri di piazza, che gli sono congeniali. Al termine sarà chiamato a far parte del Comitato Centrale del Partito, in rappresentanza della Lombardia.

È la sua consacrazione e il riconoscimento della fedeltà al Capo, oltre che del buon lavoro fatto, per la gioia dei suoi cantori:

 

Addio rosei, anzi rossi, scarlatti, pavonazzi sogni di dominazione imperial comunista. Addio abbondanti vendemmie di prebende, di voti, di cariche, di onori.

Il miracolo è compiuto. La bandiera rossa è stata ammainata per sempre! Al suo posto, sulle Case del Popolo pavesate a festa, sventola il tricolore. (5)

 

Quando tutto sembra andare per il meglio, cominciano però a manifestarsi, nel campo fascista, le prime crepe, dovute a qualche “malinteso” iniziale e al temperamento di Forni stesso, poco propenso al compromesso e agli accomodamenti “comunque”.

Ecco che lui allora se la prende, su “Il Risveglio” del 3 febbraio, con i “falsi amici” dei primi tempi, che:

 

… aderirono al fascismo per paura e che, assicurata la tranquillità della propria pancia e del proprio portafoglio hanno buttato via il distintivo fascista, scoprendo le batterie del proprio sordido egoismo. (6)

 

Nel pur diverso momento storico, emerge una diffidenza ed una ostilità di fondo che non può non ricordare il noto fondo de “L’Assalto”, il giornale del Fascio bolognese, di qualche tempo prima:

 

Gli agrari fanno oro l’occhiolino dolce ai fascisti, li chiamano “cari ragazzi”, e poi, piano piano, attraverso un’abbondanza di sorrisi, ed un risalto di coccarde appariscenti sì e no, vogliono persuadere noi, dico noi, fascisti, che la lotta agraria è stata soltanto un episodio di disonestà e di tirannia proletaria.

Gli agrari, rannicchiati nelle loro comode ed eleganti tane, pretenderebbero oggi di trasformarci in sicari a difesa dei loro interessi e della loro vigliaccheria.

(…)

Questo perché la borghesia terriera, a differenza della borghesia industriale, la quale non conta più di cinquant’anni di vita, essendo nella quasi totalità una borghesia ereditaria, è anche una borghesia zuccona, avara, imbecille, taccagna e vilissima, cioè tutto fuorchè borghesia.

(…)

Noi fascisti non muoveremo un dito per salvare la sua traballante carcassa. (7)

 

 

Insomma, il matrimonio di necessità, imposto dalla tracotanza avversaria, scricchiola anche in Lomellina, nonostante l’avanzata fascista sia ormai inarrestabile: oltre 12.000 iscritti agli inizi del 1922, che costituiscono, con Cremona e Mantova, il 70% dei fascisti lombardi, e un incremento pari, se non maggiore (il 25 in più nei primi tre mesi dell’anno), delle adesioni ai sindacati fascisti, con un totale di 20.000 adesioni.

Berrette rosse e nere, verdi e granata contraddistinguono le varie squadre, anche se qualcuno esagera con la fantasia, come gli uomini della “Tiremm innanz”, che si pavoneggiaano con una camicia gialla completata da cravatta nera e tricolore nel taschino. Anche la stampa fascista si fa più forte, sostituendo l’iniziale giornaletto “Santa Canaglia” (è lo stesso nome originariamente pensato per “Il Selvaggio” di Bencini e Maccari), che aveva dato il primo segno di risveglio. E infatti, proprio “Il Risveglio” si chiama, in maniera più rassicurante, il giornale che, da giugno del 1921, diventa l’organo ufficiale della Federazione fascista e ospita frequenti articoli di Forni stesso.

Incremento dovuto certamente anche al fatto che le azioni fasciste “fulminee e salutari” nei confronti degli agrari che non rispettano i patti, si contano a decine, e hanno una devastante efficacia, quale mai avevano conosciuto gli inutili scioperi proclamati a raffica dalla Leghe, ormai scompaginate e inesistenti.

Lo stile è prettamente squadrista, come dimostra il seguente “Avviso”, del Fascio pavese, diretto insieme a datori di lavoro e lavoratori:

 

Risulta a questo direttorio che qualche agricoltore non rispetta alla lettera il concordato in corso, tanto per gli avventizi che per i salariati. Ricordiamo a questi signori che, se entro la prima decader di novembre verificheremo ancora inadempienze, procederemo senz’altro all’occupazione militare dei fondi, come si è fatto a Confienza, ed ancora ieri l’altro a Villa Biscossi.

Siamo anche venuti a conoscenza di maltrattamenti inflitti al bestiame (due casi in tutto il circondario). Ricordiamo ai lavoratori salariati che si dilettassero di simili reati, che il manganello è sempre pronto per la tutela del patrimonio zootecnico nazionale. (8)

 

Ecco perché, quando scatta la contro-mobilitazione fascista, in occasione del cd. “sciopero legalitario” dell’inizio di agosto, ai fascisti lomellini, che sono ormai una realtà “importante”, oltre all’azione nelle località di competenza, viene dato l’ordine di tenere a disposizione del Genovesato parte delle forze, che si sanno esuberanti rispetto alle effettive necessità.

In più, Forni arriva a Milano con centinaia dei suoi uomini, perfettamente armati ed equipaggiati, e assume di fatto, nonostante la presenza del coriaceo Farinacci e di Teruzzi, delegato del Partito, il controllo della situazione.

Presente alla presa di Palazzo Marino, partecipe, con i suoi in prima fila, dell’assalto e distruzione dell’Avanti, è il vero dominatore della piazza fascista.

Siamo ormai all’epilogo. Con una serie di raduni locali e il perfezionamento dell’organizzazione per zone, le squadre lomelline si preparano alla Marcia. Quando l’ordine arriva, alle 8 del mattino del giorno 28 ottobre, 4.000 camicie nere sono alle porte di Pavia, la cui completa occupazione è completata nel pomeriggio, senza che ci sia nemmeno bisogno della presenza di Forni, che è stato “dirottato” a Milano, da dove, nella sede del Fascio di via S. Marco, coordina l’attività di squadre e Legioni nel capoluogo e nell’intera regione.

Il mattino del 1° novembre, con l’adunata conclusiva tutto finisce. È Forni a parlare agli uomini, mentre la sensazione di tutti è che egli sarà il prossimo Capo in Lombardia e forse anche oltre, in virtù del saldo rapporto che lo lega a Mussolini.

Ma le cose non andranno proprio così.

 

– fine seconda parte –

 

FOTO NR.3: squadristi pavesi

FOTO NR.4: Forni a Milano ad agosto del ‘22

 

NOTE

  1. (a cura di) Edoardo e Duilio Susmel, Opera Omnia di Benito Mussolini, Firenze 1955, vol. XVI, pag. 317
  2. Pierangelo Lombardi, Il ras e il dissidente, Cesare Forni e il fascismo pavese, dallo squadrismo alla dissidenza, Roma 1998, pag. 203
  3. Giampaolo Pansa, La notte dei fuochi, Milano 2004, pag. 114
  4. Pierangelo Lombardi, cit., pag. 159
  5. Ibidem, pag. 175
  6. Ibidem, pag. 179
  7. “L’Assalto”, numero 4 del 21 dicembre 1920: “Due cazzotti agli agrari”, in terza pagina
  8. Arturo Bianchi, A noi, storia del fascismo pavese, Pavia 2004 (anastatica), pag. 297

 

 

 

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