Forni soldato valoroso non era certo l’uomo diplomatico
di cui cominciava ad avere urgente bisogno
la politica mutata della nostra gente.
(Salvatore Bianchi Martina, Fascismo vigevanese, Milano, 1928)
- Cesare Forni, “l’Ercole biondo” della Lomellina inizia la dissidenza fascista.
È giunto il momento di occuparci – sia pure in maniera sbrigativa – di una vicenda che non è, come potremmo dire con termine moderno di solo “gossip”, ma che ha risvolti importanti nella storia del fascismo lomellino e del suo leader, Cesare Forni.
Nel Comune di Semiana arriva, tra la fine del ’20 e i primi mesi del ’21 il Conte Cesare Carminati di Brambilla, acquista una vasta tenuta agricola e si stabilisce in un antico castello colà esistente.
Non è forse un momento scelto bene per dedicarsi all’agricoltura, con i continui scioperi e agitazioni che rendono la vita difficile ai proprietari, ma il Conte, ex Ufficiale di Cavalleria durante la guerra, non è uomo da spaventarsi facilmente. Fa circolare la voce di aver bisogno di qualche “uomo di mano, svelto a maneggiar coltelli e impugnar rivoltelle”, e mette su una sua personale “squadra” di autodifesa, dal momento che dei fascisti locali, comandati da Cesare Forni si fida poco (ed è ricambiato di pari ostilità).
Un bel giorno arrivano a Semiana a chiedere ospitalità anche due squadristi milanesi: il notissimo Albino Volpi e l’ex ardito e legionario fiumano Cesare Casiraghi, che si trovano anche invischiati nella storia mai chiarita dell’omicidio di uno dei predetti “uomini di mano”.
Forse, alla base c’è una rivalità d’amore nel corteggiamento della moglie del Conte, Giulia Mattavelli, figlia del postino di Lanzo d’Intelvi, che, mentre era a Milano interventista e amica di Corridoni ha conosciuto il Carminati Brambilla ed è andata a convivere con lui (si sposeranno solo nel ’25), soggiogandolo col suo carattere forte e volitivo che sostanzia una “persona franca e piacente, allegra e spiritosa, amante dell’intrigo, dell’avventura e dell’emozione forte”.
Basta questo suo temperamento a far nascere la leggenda che la vuole a cavallo, al comando della sua “squadra”, in spedizioni antisovversive, imbracciando impavida il fucile, proprio come la vede Nenni a Roma, alla sfilata dopo il 28 ottobre: “Ecco le squadre della Lomellina. Galoppa in testa una contessa, metà femmina da lupanare, metà amazzone d’avventura, che ha diretto le squadre punitive ed ora manda baci sulla punta delle dita alla Regina”
Nonostante non sia una gran bellezza (“non molto alta, bionda, di bella carne, con la figura un po’ rotondetta e prosperosa” la descrivono le cronache dell’epoca) ha grandissimo successo con gli uomini. Oltre al capo-squadrista Silvio Magnaghi, sue vittime saranno Renato Ricci, Francesco Giunta, e persino Mussolini, in occasione della sua visita a Mortara dell’8 maggio del ’21, di cui si è detto.
Per Mussolini, impunito tombeur de femmes, si tratta di un’avventura passeggera, e la prova migliore è che egli non si spende minimamente quando, nel 1923, i Conti sono costretti a lasciare Semiana, per il montare nei loro confronti di una protesta “tutta fascista”, che fa a capo a Cesare Forni. La loro meta finale sarà Adria, dove il marito inizierà una nuova vita con la messa in opera di un Canapificio.
Non è qui il caso di fare la storia successiva della “Contessa nera”. Chi vuole la trova in “Le donne e il duce” di Mimmo Franzinelli. Essa, comunque, si conclude quando il Duce, infastidito da certi suoi intrallazzi romani, le ordina il rientro coatto in Polesine nell’estate del ’43.
L’ultima beffa è con la socializzazione del Canapificio, disposta dalle Autorità della RSI con estrema determinazione, anche come rivalsa per l’atteggiamento antiproletario (vecchia abitudine, già degli anni venti) dei proprietari.
Questo inciso rileva ai fini della nostra storia perché, per quanto incredibile possa sembrare, l’influenza della Contessa avrà un ruolo importante (forse anche determinante) nel futuro di Forni, che, comunque, già agli inizi del 1922 comincia a presentarsi meno certo di quanto era parso fino allora.
E’ stato De Felice ad individuare, tra la fine del 1922 e l’inizio del 1923 la nascita del primo dissidentismo fascista, che egli ha distinto tra le manifestazioni “elementari ed endemiche” connesse alla lotta per il potere locale e quelle più propriamente politiche, laddove la contrapposizione è tra “rivoluzionari” (la vecchia guardia squadrista delusa dagli esiti del 28 ottobre soprattutto) e “opportunisti dell’ultima ora” (esponenti dei ceti moderati in massima parte, che hanno aspettato la “certezza” del successo fascista).
D’altra parte, sono gli stessi “marciatori” i primi ad accorgersi che non tutto è andato come volevano:
Camminammo a lungo, storditi dalla stanchezza, così che senza accorgersene ci trovammo in treno.
“Ma come! E ‘un siamo ancora arrivati che ci mandano via? E senza fucilare nessuno? O che rivoluzione l’è! O ‘un s’è vinto?”.
“E se s’era perso e ci avrebbero condito loro e ci avrebbero”.
“E ci sloggiano, E siamo troppo pericolosi per star quaggiù”.
Ma nessuno aveva nemmeno più la forza di bestemmiare. Mi sdraiai su un portabagagli di terza, che sedili e pavimento erano pieni zeppi di gente. Sotto i compagni, con voce afona, commentavano le giornate.
Solino smoccolava per lo scempio della sua divisa nuova. Bocca si domandava se il suo principale lo avrebbe ripreso alla panetteria, dopo sei giorni di assenza. Altri ricordavano le famiglie, la propria vita, gli affari. Mi parve che Giovanni, nel frastuono, mi chiedesse se ci avrebbero concesso un appello straordinario pe gli esami.
Poi le voci ad una ad una si affievolirono, e nel vagone, zeppo di gente, rimase solo il monotono rullio del treno. (1)
Questa dissidenza è destinata alla rapida sconfitta, perché portata avanti soprattutto da “non politici”, presto richiamati all’ordine da ragioni di sopravvivenza, da “sentimentali” che non riescono a darle vera forma organizzata e collegata sul territorio nazionale, da pavoliniani “brontoloni” (“anche una punta di vizio di brontolare fa parte dello squadrismo”) che, al dunque, rientrano nelle file.
Più furbi (e spesso “navigati”) i loro avversari che sapranno adattarsi alle circostanze e, soprattutto, riusciranno ad adattare il fascismo ai loro progetti.
Al gruppo dei “rivoluzionari”, che forse anche meglio potremmo definire degli “idealisti” appartiene Cesare Forni che, se non altro, non ha alcuna carica da arrembare o da difendere in sede locale, dove anzi la sua preminenza è più che certificata e premessa di futuri successi nazionali.
Ma egli ha condiviso con i suoi squadristi, che spesso sono anche i “suoi” contadini, e i “suoi” soldati in guerra, la stessa ansia di “populismo palingenetico” (è l’espressione che Mario Canali userà nella biografia di un altro illustre dissidente, il Capitano pisano Bruno Santini, squadrista e fascista della prima ora), che ha contribuito a “saldare le masse al giovane movimento fascista”. Non intende rinunciarvi e deludere le speranze ora che si è vinto.
Non può, quindi accettare proposte di mediazione, di qualunque tipo e da chiunque provenienti:
In proposito Forni non aveva dubbi. Né poteva averne. La sua era la mentalità politica tipica dello squadrismo vittorioso. Se l’azione fascista per lui si era sempre risolta, sostanzialmente nell’efficacia del gesto squadristico, a maggior ragione, ora la difesa dello squadrismo nazionalrivoluzionario avrebbe dovuto continuare a costituire il metro di misura esclusivo anche per la nuova politica fascista. (2)
Le beghe romane che verranno non lo interesseranno mai, fin da quando rinuncia a partire per Roma con lo stesso treno di Mussolini (a bordo ci saranno anche Cesare Rossi e Aldo Finzi, a maggior ragione ci sarebbe stato posto per lui), per restare, invece, sul campo, con i suoi uomini.
Restare sul campo, però, comporta dei rischi che lui, poco pratico di corridoi e pugnalate alle spalle forse non intravede. Primo fra tutti, quello di lasciarsi invischiare nelle mille polemiche locali che, apparentemente sopite nel periodo della lotta, ora emergono in pieno.
E, com’è nel suo temperamento, Forni non disdegna un coinvolgimento totale, anche aldilà dei confini geografici entro i quali fino ad allora si è mosso, soprattutto laddove si parla di questioni agrarie. Prima a Brescia appoggia Turati contro il Governo (che gli appare negativamente succube di “questa Roma fangosa, che non è affatto purificata”) su un problema in fondo marginale che è quello dell’assegnazione della Cattedra Ambulante di Agricoltura, e poi duella verbalmente con Rossoni e Baroncini sul tema dell’organizzazione sindacale, difendendo, contro le ipotesi del sindacalismo integrale, la realtà di organizzazioni autonome, sia pur sempre sotto l’egida del Partito.
I guai maggiori, però, gli verranno dalla mai sopita ostilità dei Carminati-Brambilla. Il 4 febbraio si presenta a Semiana e, in piazza, accusa il Conte, che ha già espulso d Partito a luglio dell’anno precedente, di mancato rispetto del concordato e omesso pagamento degli arretrati di monda, chiedendo le sue dimissioni da Sindaco.
Dell’episodio c’è anche una divertita-divertente descrizione di Giampaolo Pansa:
Quando arrivava al maniero del Conte Carminati-Brambilla, Forni aveva sempre un aspetto poco rassicurante. Era un armadione massiccio, con la camicia nera carica di medaglie. La mattina di domenica 4 febbraio 1923, sulla divisa aveva indossato un cappottone per difendersi dal freddo-umido della Lomellina.
Era una giornata di nebbia fitta, una cortina grigia che nascondeva persino il castello del nobiluomo. Una volta entrato in paese, si piazzò sulla via centrale, aspettò che i suoi uomini radunassero un bel po’ di gente e cominciò a leggere la vita al padrone di Semiana. (3)
L’azione fa effetto, e isola completamente la coppia reazionaria dalla popolazione. Non ha considerato, però le esistenti “buone relazioni”, favorite da incontri torinesi, intrattenute dalla Contessa con certi vertici romani, e con Francesco Giunta in particolare. È proprio il fiorentino a restituire, qualche giorno dopo, la tessera all’espulso Carminati, provocando l’irata protesta di Forni, che vedrà così smentito il suo operato.
Ne nascerà un duello tra i due, che, dopo un primo rifiuto a battersi dello sfidato, per “indegnità” dello sfidante, collegata alle sue avventure torinesi delle quali si è detto, si terrà finalmente, a Roma, il 25 aprile, concludendosi, per la gravità delle ferite reciproche, senza la riappacificazione dei due contendenti, a testimonianza dell’“inusitato accanimento” da essi manifestato.
Forni, nelle more, risolve anche la questione locale, riespellendo il Conte (per il rinnovato motivo dell’ostilità verso quelli che sono ormai sindacati fascisti, e mancato rispetto dei patti). Questa volta non c’è più niente da fare, nonostante gli intrallazzi romani della Contessa. I due si allontanano dalla Lomellina, e di loro in zona non si sentirà più parlare.
Anche la successiva inchiesta svolta da Renato Ricci, inviato al Partito a Torino (e qui “omaggiato”, già al suo arrivo, dalle grazie della Carminati Brambilla, che si reca a fargli visita all’hotel Ligure, stanza 34, come annotano le cronache dell’epoca) non approda a nulla di concreto contro Forni, e viene “messa agli atti” da Mussolini.
È il momento di festeggiare e chiudere la faccenda. Il 31 maggio a Mortara si tiene un gran raduno di tutte le forze fasciste che manifestano consenso e solidarietà al loro capo. Si fa vivo lo stesso Mussolini, con un telegramma: “Voglio anch’io essere presente alla manifestazione in onore di Cesare Forni, veterano ormai di due guerre. È tempo che tutti i dissensi tacciano, che tutte le fila si stringano pienamente. Fra poco i sordidi nemici del fascismo si accorgeranno terribilmente che le loro speranze sono idiote”.
Quando parrebbe, però, che i problemi di Forni si stiano risolvendo, la situazione precipita nuovamente, per la posizione che egli sceglie di prendere, con la consueta irruenza, nella disputa tra Mortara e Vigevano, in lizza per la designazione a capoluogo di Provincia.
Ne approfitta Giunta, che non ha dimenticato i vecchi rancori, e, dopo una nuova inchiesta –questa volta condotta da Attilio Teruzzi – ai primi di dicembre comunica le avvenute dimissioni di Forni dal Partito e dalle cariche pubbliche ricoperte.
La scelta è determinata dalla volontà del vecchio Capo-squadrista di evitare una formale espulsione, che a questo punto appare inevitabile, dal PNF, e coinvolge quasi tutti i protagonisti della stagione rivoluzionaria in Lomellina, che si dimettono a loro volta. In prima linea i già citati De Scalzi (che viene anche arrestato per qualche giorno) e Magnaghi, mentre più defilato si mantiene Lanfranconi.
Alla fine di gennaio del 1924 la lacerazione è netta, la provincia pavese è divisa quasi a metà, al punto che, nello stesso giorno, si tengono due separati Congressi provinciali, che vedono, a fianco di Forni, oltre alla “vecchia guardia” e ai sodali fittavoli (che “lo adorano come un salvatore”), molti rappresentanti degli ambienti studenteschi universitari.
E questo –considerata la istintiva vocazione”rivoluzionaria” dei giovani – dovrebbe far riflettere sul portato delle idee che egli –pur senza essere un teorico, e nemmeno un politico, porta avanti, a somiglianza, d’altra parte, della quasi totalità dei dissidenti. Lo si capisce bene scorrendo questo elenco:
…nel corso del ’23 vengono a maturazione ed esplodono, in bilico tra intransigentismo e suggestioni revisioniste, i casi di dissenso più noti e clamorosi: quello di Raimondo Sala in Piemonte, di Cesare Forni in Lombardia, di Ottavio Corgini in Emilia, dei Fasci nazionali e del Capitano Santini in Toscana, dei “Liberi fascisti” nelle Marche, di Misuri in Umbria, di Calza-Bini nel Lazio, di Padovani in Campania. (4)
Anche inutile, a questo punto, dare conto della vera persecuzione della quale Forni viene fatto oggetto nei mesi a seguire, e alla quale lui, il “magnifico uomo di cazzotti” del quale abbiamo detto, non sa opporsi con intrighi e ricerche di protezioni.
Teruzzi, Rossi, Marinelli, e perfino il vecchio amico Bolzon gli fanno fronte unito contro, finchè si arriva, al 9 dicembre, alle dimissioni da un Partito che non è più quello al quale tutto ha dato.
Il passo successivo è la sua candidatura, alle elezioni dell’aprile del 1924 nelle liste dei Fasci Nazionali, fondati dallo squadrista della primissima ora, del Fascio di Alessandria, Raimondo Sala, già Sindaco della città.
Naturalmente verrà eletto, unico tra i candidati dissidenti, nonostante gli impediscano i comizi, costringendolo, con una iniziativa non prevista dagli avversari, a scrivere una lettera aperta a Mussolini, che viene inviata al “Corriere della Sera”, e pubblicata il 2 marzo: “Perseguitatemi pure, Presidente. Io non mi piegherò finchè non mi avrete fatto togliere la vita. Noi combattiamo una santa battaglia, non contro di voi, né contro il vostro Governo, ma contro la degenerazione del Partito”.
La lettera fa il suo effetto. Una settimana dopo, domenica 9 marzo, Forni è aggredito, alla stazione di Milano, da una squadra di undici picchiatori, tra i quali Albino Volpi e il fratello della nota Contessa, mentre poco lontano Dumini, incaricato da Roma, sorveglia l’azione.
Si difende come un leone, strappa di mano il manganello ad uno degli assalitori e mena colpi poderosi, ma poco può contro quel numero. Resta a terra, ferito, scampa al colpo di grazia che uno vorrebbe dargli, e il 24 entra a Montecitorio, unico tra i tanti in abito nero o tight, indossando la stessa camicia nera con i gradi di Capitano sul polso che aveva portato negli anni passati.
Il suo intervento non delude le aspettative, e ne conferma la natura di fascista “deluso” più ancora che dissidente, specie là dove nonostante tutto, ribadisce la fiducia incrollabile in Mussolini.
Il delitto Matteotti, del quale giudica incolpevole il Capo, gli sembra un’altra dimostrazione del degrado della “marmaglia” che si è impadronita del Partito, anche perché, di fatto, travolge molti dei suoi nemici (Rossi, Finzi, Marinelli) fino allora ai vertici. Non cadono, però, in sede locale soprattutto, i veti nei suoi confronti, senza che la successiva dichiarazione di voto a favore del Governo valga a mitigare la situazione.
Di contro, il suo lealismo mussoliniano provoca, invece, il raffreddamento di molti vecchi amici ora dissidenti, che non riescono a capire la sua ostinazione nel non voler rinnegare il patto di lealtà con un uomo che gli sta facendo tanto male.
Isolato da tutti, per lui è la fine. Capisce che la strada della politica è chiusa, e se ne va in Somalia, dove c’è il suo vecchio sodale De Vecchi, a provare, ma senza successo, la realizzazione di alcuni progetti agricoli.
Il fallimento della iniziativa lo riduce, al rientro in Italia, a fare l’agente assicurativo dell’Ina, fino alla morte, il 2 luglio del ’43, una ventina di giorni prima di vedere realizzata la sua profezia sull’inaffidabilità degli uomini che si erano impadroniti del Partito.
Questa, nella sintesi imposta dai limiti del nostro racconto, la particolarissima storia di Cesare Forni. E diciamo “particolarissima” perchè, nel 1928, quando di lui si sarà persa ogni traccia “politica” un suo tenace avversario dei tempi andati, nella ostilissima Vigevano, ci terrà a distinguere il “fornianesimo” dal dissedentismo, e tributerà ancora, forse involontariamente, un tributo di ammirazione all’uomo:
Come già dissi, Cesare Forni, grazie al suo valore di squadrista e di capo dei combattenti, era salito fino al grado massimo nella gerarchia del Partito, di fiduciario per la Lombardia presso il Comitato Centrale.
…Forni soldato valoroso non era certo l’uomo diplomatico di cui cominciava ad avere urgente bisogno la politica mutata della nostra gente. Era più che altro una forte tempra di soldato, di capo di soldati, ma non certo l’uomo adatto a dirigere le sorti di una battaglia aspra e difficilissima quale è quella da combattersi essenzialmente con fine arte politica e diplomatica.
… Il suo errore, accorgimento finissimo dell’avversario temibile, è stato il vedersi costretto a combattere con armi non sue, di cui ignorava del tutto la potenza e l’ìnsidiosità, su un terreno sdrucciolevole e ingannatore che egli non conobbe mai. (5)
Forse voleva essere una critica, ma non riuscì nel suo intento, io credo…
– fine –
FOTO NR 5: la contessa Carminati Brambilla
FOTO NR.6: squadristi pavesi
NOTE
- Mario Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano, Roma 1980, pag. 257
- Pierangelo Lombardi, Il ras e il dissidente, Cesare Forni e il fascismo pavese, dallo squadrismo alla dissidenza, Roma 1998, pag. 233
- Giampaolo Pansa, Eia eia alalà, controstoria del fascismo, Milano 2014, pag. 162
- Pierangelo Lombardi, Per le patrie libertà, la dissidenza fascista tra mussolinismo e Aventino 1923-25, Milano 1990, pag. 16
- Salvatore Bianchi Martina, Fascismo vigevanese, cronaca, Milano 1928, pagg. 95,96