Sulle origini del monoteismo, vi sono numerose teorie e molte di queste concordano sul fatto che non si sia trattata di una prerogativa esclusiva del popolo ebraico. In particolare, considero molto significative ed affascinanti le ricostruzioni di Sigmund Freud nei tre saggi su Mosè e la religione monoteistica, pubblicati tra il 1934 ed il 1938, poi confluiti nell’unico testo “Der Mann Moses und die monotheistisce Religion” (L’uomo Mosè e la religione monoteistica), pubblicato nel 1939 ad Amsterdam (1), pochi mesi prima della morte all’età di 82 anni. Già in precedenza il padre della psicoanalisi si era occupato del grande patriarca biblico, componendo uno scritto in forma anonima “Il Mosè di Michelangelo”, nella rivista Imago nel 1914. In questo saggio l’interpretazione di Freud era stata particolarmente originale, in quanto partendo da un elemento all’apparenza secondario, cioè il nodo della barba nella mano di Mosè, era riuscito ad esprimere una nuova chiave di lettura del comportamento del leggendario personaggio. Infatti, Freud si oppose alla spiegazione più accreditata, secondo la quale Michelangelo avrebbe rappresentato il patriarca nel momento in cui si scagliava con impeto contro l’idolatria del popolo ebraico, causando la rottura della tavole della Legge. L’illustre medico austriaco preferì leggere nella posa del Mosè di Michelangelo un atteggiamento di calma ritrovata, in cui la ragione prese il sopravvento sull’ira. Noi siamo abituati a pensare a Freud come a uno dei più insigni esponenti della psicoanalisi, ma per il numero dei suoi scritti, può essere considerato meritatamente anche uno scrittore.
L’analisi di Freud comincia rivolgendo l’attenzione alla figura di Mosè ed al suo nome, che in lingua ebraica suonerebbe come “Mosheh”. Nel libro dell’Esodo è riportato che la sua etimologia sarebbe riconducibile all’acqua e, quindi, traducibile come “colui che viene tratto dall’acqua”, in base anche al racconto del suo ritrovamento miracoloso nel fiume (2). Freud, tuttavia, confuta questa ipotesi, considerandola non adeguata alla forma attiva del corrispondente verbo ebraico ed indicando, come più plausibile, un’origine egizia del nome, con il significato di “bambino” o “figlio di”.
In tale contesto, secondo Freud, Mosè sarebbe stato un nobile o perfino un membro della famiglia reale (riscontro che in qualche modo trova conforto anche nella leggenda biblica). Per questa sua vicinanza al faraone, sarebbe stato anche un convinto sostenitore della religione universale di Aton. Alla morte di Ekhnaton, probabilmente Mosè si trovò a governare una provincia di confine dell’esteso impero egizio, dove si erano insediate alcune tribù semitiche. Dopo aver ottenuto la fedeltà di questa popolazione rozza e poco erudita, affascinata dai suoi discorsi colti e raffinati, Mosè si sarebbe messo alla loro guida, conducendoli fuori dall’Egitto, approssimativamente tra il 1358 ed il 1350 a.C., nel periodo storico considerato di “anarchia” in Egitto e prima della restaurazione politica e militare messa in atto da Harem-hab (4). E’ necessario precisare, comunque, che gli esegeti biblici sono piuttosto concordi nell’inquadrare i fatti narrati nell’Esodo, più o meno nella stessa epoca storica (5). Nel racconto freudiano, Mosè non solo introdusse tra gli Ebrei il culto del dio Aton, ma inaugurò anche la pratica della circoncisione. Il Mosè di Freud, però, non riuscirà a vedere la terra di Canaan, in quanto vittima di una sanguinaria rivolta da parte del suo popolo che avrebbe ripudiato anche il culto del dio Aton. In parte la sua teoria troverebbe qualche illustre precedente, come nell’opinione di Ernst Sellin (6) che, nel 1922, ritenne di aver trovato nel libro del profeta Osea qualche indizio in merito alla tragica fine di Mosè. Quando gli Ebrei abbandonarono l’Egitto ed occuparono l’oasi di Meribah-Qadesh, situata tra il Sinai e la Palestina, entrarono in contatto con la tribù araba dei Madianiti, da cui appresero il culto per il dio vulcanico YHWH (il famoso tetragramma ebraico), una divinità gelosa e vendicativa, le cui caratteristiche anche crudeli sono ampiamente disseminate nell’Antico Testamento biblico. Nella nuova sede, secondo Freud, il popolo dovette adottare uno stratagemma compromissorio, in quanto era indispensabile abbracciare il culto per il nuovo dio, cancellando le tracce di Aton. Ciò risultò più semplice per i gruppi già presenti nell’oasi, mentre le tribù che avevano affrontato l’Esodo ancora ricordavano gli insegnamenti su Aton. La figura di Mosè, allora, fu riesumata ed applicata al sacerdote, fondatore della nuova religione, indispensabile come mediatore tra la divinità ed il popolo per poter imporre l’ordine sociale.
Analizzando il comportamento del popolo ebraico in maniera psicoanalitica, a questo punto Freud individua un periodo di cosiddetta “latenza”, durante il quale l’abbandono della dottrina di Aton ed il ricordo della figura del vero Mosè rimasero nell’inconscio del popolo ebraico, per poi riaffiorare alcuni secoli dopo, parimenti ad una sorta di “senso di colpa”. Il pentimento per l’uccisione di Mosè, infatti, diventa per Freud un requisito indispensabile per favorire il desiderio di un Messia, destinato a ritornare per redimere e salvare il popolo eletto. Inoltre, il dio Yaweh presentava caratteristiche del tutto diverse da Aton. Quest’ultimo era considerato dagli Egizi un dio pacifista, al contrario del sanguinario Yaweh, comunque più adatto ad imporsi nell’immaginario collettivo di un popolo che doveva occupare nuovi territori. Secondo Freud, durante il periodo di evoluzione religiosa, grazie anche ai contatti con il raffinato pensiero ellenista, il dio Yahweh si avvicinò sempre di più alla figura di Aton, il cui lontano ricordo continuava a persistere nell’inconscio del popolo ebraico, fino alla diffusione del cristianesimo che rese la “religione del padre” (quella mosaica), “religione del figlio”. Secondo il pensiero freudiano, pertanto, Mosè può essere considerato il primo Messia, mentre Cristo ne diventa il sostituto e successore. Il senso di colpa del popolo ebraico fu ripreso dalla figura di Paolo di Tarso, il vero fautore della separazione del pensiero cristiano dalla dottrina ebraica, assumendo la nuova denominazione di “peccato originale” (7). Risulta evidente come la ricostruzione freudiana su Mosè si presenti come un’estensione della ricerca storica condotta nell’opera Totem e Tabù (8), con l’intento di unire elementi della disciplina antropologica a quella psicoanalitica. Nella visione freudiana, in epoca primitiva gli uomini vivevano in piccole comunità, dominate da un maschio dispotico che si appropriava di tutte le femmine. Un giorno i figli trovarono il coraggio di unirsi e di uccidere il padre, dividendo i resti del cadavere in un macabro banchetto quasi rituale. A seguito del pentimento per il gesto violento e del conseguente senso di colpa, i maschi della nuova comunità inventarono un nuovo ordine sociale, rinnegando il misfatto, obbligando i consociati all’esogamia e proibendo l’incesto. Alla figura del padre fu sostituito un feticcio artificiale, a cui rivolgere la propria devozione, chiamato totem. Tale modello evolutivo, secondo Freud, sarebbe alla base di tutte le religioni storiche, in particolare di quelle monoteiste. Il gesto cumulativo di uccisione del padre avrà importanti conseguenze nella storia dell’uomo, trovando forme diverse di espiazione. Il comportamento evidenziato da Freud è molto sentito in ambito classico: basti pensare all’Edipo re di Sofocle o ad altre rappresentazioni teatrali dove, comunque, il personaggio principale, un eroe, viene presentato come circondato dai propri nemici e destinato a soffrire per tutto il dipanarsi dello spettacolo. Il totem assume un’importanza simbolica comunitaria, in quanto il singolo non avrebbe mai osato sfidare il padre, ma soltanto il gruppo unito dimostra di avere la capacità di spodestarlo. Quando il totemismo lasciò spazio alle religioni storiche, il sacrificio umano dell’uccisione del padre fu sostituito dal sacrificio animale, anche se presso molte civiltà ( nello stesso ambiente semitico come riportato negli antichi testi e nella Bibbia), si continuò a praticare sacrifici umani per ottenere il favore delle divinità. Con il progredire della civiltà e con il rafforzamento dei vincoli della famiglia patriarcale, aumentò anche l’importanza del “figlio”, esprimendosi nella costruzione di numerose divinità giovanili. Il senso di colpa, tuttavia, non riusciva a placarsi nell’inconscio collettivo, cercando sempre nuove forme di purificazione.
Secondo Freud, come si è detto, una nuova soluzione fu proposta da Paolo di Tarso che avrebbe rimodulato la figura storica di Gesù di Nazareth, come redentore di tutta l’umanità, sacrificando la propria vita “innocente”, contrariamente ad ogni logica umana (9). Nel mito cristiano, infatti, il “peccato originale”, al di là di ogni disquisizione teologica, costituisce un’offesa nei confronti del Dio Padre, riscattata dal sacrificio di suo figlio Cristo, mediante l’accettazione della morte in croce. Seguendo lo schema psicoanalitico di Freud, il “figlio” che offre al padre l’espiazione, in realtà realizza anche i suoi desideri inconsci verso di lui, divenendo a sua volta “dio”. Il rito dell’eucaristia, pertanto, ricalcherebbe una tipologia di banchetto “totemico”, dove i convenuti, che si definiscono non a caso “fratelli”, si cibano del corpo e del sangue del figlio che, comunque, identificano con il “padre”. A sostegno delle argomentazioni proposte da Freud, vi sono numerosi elementi che farebbero pensare ad un Mosè egiziano, piuttosto che di origine semitica. Si pensi, in primo luogo, al racconto della sua nascita, perfettamente corrispondente al mito del grande Sargon di Accad (10), abbandonato nelle acque, ritrovato per miracolo e destinato ad un futuro da grande sovrano. La redazione della leggenda di Mosè, come era uso comune nel periodo antico, fu elaborata non da storici che cercavano di raccogliere informazioni certe o quanto meno verosimili, ma da apologeti che miravano a creare una coscienza religiosa comune del popolo ebraico. Ed ancora si può citare il sostantivo “adonai”, traducibile come “signore”, con il quale gli Ebrei usano riferirsi al proprio dio, al posto dell’impronunciabile tetragramma sacro YHWH. Dal punto di vista glottologico le dentali “t” e “d” sono considerate con disinvoltura intercambiabili dagli studiosi e, pertanto, la radice “adon” è sorprendentemente simile a quella di “Aton”. A ciò si aggiungono altri importanti indizi che meriterebbero una trattazione a sé stante, come i riferimenti del libro dell’Esodo all’arca dell’alleanza, che Mosè avrebbe costruito su disposizione divina e che, in seguito, sarebbe stata custodita nel tempio di Salomone fino all’occupazione assira. L’aspetto dell’arca dell’alleanza è quasi la copia della “barca degli dèi”, collocata nei templi egizi, con la medesima raffigurazione dei cherubini ad ali spiegate. Le ipotesi sull’identità della figura di Mosè, alternative a quelle tramandate dall’Ebraismo e dal Cristianesimo, sono numerose. In particolare, giocando anche con l’etimologia del nome, alcuni ricollegano il suo personaggio a quello del faraone Thutmose I (figlio di Tot). Durante il suo regno, individuato nella prima metà del XV secolo a.C., l’apparato statale egiziano avrebbe ridotto in schiavitù le ultime tribù di una misteriosa popolazione, denominata degli “Hyksos”, secondo una parte di esegeti da identificare con il popolo di Israele. Come in un romanzo rosa, ma non per questo impossibile, Mosè sarebbe stato salvato da Hatshepsut, la bella figlia del faraone (11).
Il libro di Freud rimane un interessante “romanzo storico”, criticato per le sue interpretazioni ardite sia dagli esponenti religiosi che dagli studiosi agnostici. Nello specifico, per quel che maggiormente interessa a questa breve dissertazione, vorrei sottolineare come il culto di Aton, in realtà, non abbia avuto inizio con il faraone Akenaton, ma affondi radici fin dall’epoca della fondazione delle piramidi, peraltro molto discussa nella sua esatta datazione, fuori dalla cerchia degli stretti “osservanti” accademici. Il culto di Aton era, dunque, sviluppato già nel periodo dell’Antico Regno, non alludendo soltanto all’astro del nostro sistema planetario, ma soprattutto al “sole divino” presente in ogni essere umano. Lo stesso viaggio del dio Atum (o Aton) verso gli Inferi rappresentava il cammino iniziatico del neofita verso l’estrinsecazione del proprio “pneuma” divino. Si trattava di una pratica dottrinale segreta riservata soltanto alla stretta cerchi di fedelissimi al faraone. Pertanto, il culto del dio solare Aton non deve essere considerato solo come il passaggio da una forma religiosa politeista ad una più raffinata forma monoteista, volendo esprimere anche la metafora del carattere divino dell’uomo, capace di ricevere benefici non solo dal più potente degli esseri fisici, il Sole, ma dall’intera natura. Alcuni studiosi hanno messo in dubbio il rigido “monoteismo” del culto di Aton, in quanto scavi archeologici effettuati nell’area di Tell el-Amarma, dove sorgeva la nuova capitale fondata da Akhenaton, hanno rivelato un certo numero di cappelle dedicate ad altre divinità. Per questo, si potrebbe parlare di culto “enoteista”, piuttosto che “monoteista”, in cui si individua un dio principale rispetto ad altre entità minori. E’ giusto precisare che si tratta di precisazioni molto difficili da individuare, anche perchè la stessa classificazione che suddivide le tipologie di religioni, a seconda del numero di divinità venerate/adorate, o in base all’effettivo ruolo di ciascuna, è un’esigenza tassonomica moderna, non molto sentita presso le civiltà antiche, ed ancora meno in ambito orientale. La stessa architettura del breve periodo del culto atoniano segna una rottura con gli schemi precedenti, con una tendenza ad adoperare stili “naturalistici” in alcuni casi finanche eccessivi. Le divinità dei complessi templari tradizionali erano collocate nel luogo più buio e nascosto dell’edificio, mentre il “Grande tempio” di Aton, fondato nella nuova Akhetaton, costituì il trionfo e la celebrazione della luce. Inoltre, nei templi egiziani più antichi la cosiddetta “sala ipostila” (12), formata da file di colonne che volevano rappresentare gli alberi della palude primordiale, era in penombra e la luce filtrava a stento, mentre nel tempio di Aton appariva completamente scoperta, in modo che i partecipanti al culto potessero adorare direttamente il sole nel suo viaggio da Oriente ad Occidente. Se da un lato il culto di Aton ebbe il merito di sottolineare la natura divina dell’uomo, dall’altro mise in ombra la sacra famiglia Osiride-Iside-Horus (13), con l’intera simbologia della necessità dell’uomo di calarsi nelle “tenebre” per poter ascendere verso la “luce”. Una tradizione che sarà ripresa nella dottrina cristiana, anche se in maniera consapevole soltanto dalla corrente gnostica, embrionalmente già tracciata nel prologo del vangelo di Giovanni, dove il Verbo, l’”archè”, scaturisce dalle tenebre primordiali per poi illuminare l’intero cosmo, così come rivive l’apparente paradosso, ma essenziale al ciclo vitale, della parentela Osiride-Iside-Horus. Come riassumerà mirabilmente Dante nella Divina Commedia, Cristo, essendo Dio, è anche padre di sua madre (14).
Note:
(1) Cfr. l’opera citata nella traduzione di Bori-Contri-Sagittario, Editore Bollati Boringhieri, Torino 2013;
(2) Cfr. Ahmed Osman, Mosè e Akhenaton. I segreti della storia d’Egitto ai tempi
dell’Esodo, Editore Harmakis, Arezzo 2015;
(3) I successori di Amenofi IV (Akhenaton) istituirono nei suoi confronti una “damnatio memoriae”, quando restaurarono le pratiche religiose tradizionali. Il faraone eretico fu completamente dimenticato, fino alle scoperte della sua capitale nel corso del XIX secolo;
(4) Harem-Hab fu dapprima capo dell’esercito durante i regni di Tutankhamon e di Ay. Quando diventò faraone alla fine del XIV secolo a.C,, riportò una certa stabilità in Egitto, dopo qualche decennio molto caotico;
(5) Gli studiosi sono abbastanza concordi nel collocare i fatti narrati nell’Esodo in un periodo compreso tra il 1500 ed il 1250 a.C., anche se un certo numero di esegeti preferisce individuare come periodo più probabile il 1500 a.C., sotto il regno di Amenofi II;
(6) Ernst Sellinn (1867-1946) fu un teologo protestante tedesco, insigne docente universitario e profondo conoscitore delle lingue orientali;
(7) Il riferimento al “peccato originale” è presente più o meno in tutte le confessioni cristiane, richiamando la prima disobbedienza a Dio da parte di Adamo ed Eva nel mitico Eden;
(8) Il libro fu pubblicato nel 1913 con il titolo tedesco, Totem und Tabu;
(9) Paolo di Tarso, San Paolo per i Cristiani, pur non avendo conosciuto direttamente Gesù Cristo, è considerato il fondatore della teologia del Cristianesimo;
(10) Si tratta di una figura ancora per molti versi avvolta dal mistero, che gli studiosi individuano come sovrano dell’impero accadico dal 2335 al 2279 a.C., nonché come unificatore dei territori dei Sumeri;
(11) Cfr. Jan Assmann, traduzione di Ezio Bacchetta, Mosè l’egizio, Edizione Adelphi, Milano 1997;
(12) L’aggettivo “ipostilo” deriva dal greco e significa letteralmente “sotto le colonne”, applicandosi a scelte architettoniche di varie civiltà;
(13) Il mito della “sacra famiglia” di Iside-Osiride-Horus compendia la dottrina egizia sulla morte, la resurrezione e l’ordine cosmico;
(14) Cfr. Canto XXXIII del Paradiso, dove Maria è definita “figlia del tuo figlio”
Luigi Angelino
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