Un racconto breve di Giacinto Reale
Fiume d’Italia, febbraio 1920
Aveva piovuto tutta la notte, e il freddo si era fatto sentire; solo all’alba un vento gelido proveniente dalle montagne dell’interno, non inconsueto in quella fine di febbraio del 1920, aveva spazzato via le nuvole ancora cariche d’acqua e schiarito un po’ il cielo.
Guido non aveva dormito bene; nonostante il freddo avrebbe preferito passare la notte all’aria aperta, magari su quell’albero dove si era ricavato un comodo “nido”, come amava chiamarlo, e invece era rimasto a Fiume, in quel piccolo appartamento che aveva da poco affittato vicino al porto.
Il motivo era semplice: il giorno prima il Comandante lo aveva chiamato nel suo ufficio, e, con un’aria insolitamente seria, gli aveva detto:
“Keller occorre che mi fai un favore. Mi rivolgo a te perché voglio che la cosa sia risolta senza troppo fragore e senza incidenti. Forse non lo sai, ma da una decina di giorni, nei vecchi magazzini del porto si sono sistemati una quarantina di legionari, di quelli giunti di recente, e che non sono ancora inquadrati in Reparti.
Stanno lì tutto il giorno, giocano tra loro, si azzuffano per burla, mimano assalti all’arma bianca, tirano per aria petardi e bombe da esercitazione. Insomma, credono di imitare i loro confratelli maggiori, quelli che tu, qualche mese fa, facesti sloggiare da lì e con i quali formasti la mia personale guardia del corpo, la “Disperata”.
Avrei potuto anche tollerarlo, ma ieri sera, quando sono capitati dalle loro parti, per caso, due Ufficiali dei Granatieri, quelli gli sono saltati addosso e li hanno allontanati a pedate. È una cosa che non doveva succedere: ora i colleghi dei due picchiati vogliono organizzare una spedizione contro quei birbanti, e ne uscirebbe, ne sono sicuro, un conflitto a fuoco tra fratelli che intendo evitare.
Ho promesso alle due vittime che entro qualche giorno i magazzini saranno sgomberati e gli uomini suddivisi tra i vari Reparti presenti a Fiume. Tu sei l’unico, con la tua indiscussa autorità, che può realizzare il mio programma senza che corra del sangue”.
Non rimaneva che obbedire. In verità a Guido, qualche settimana prima, era stato assegnato anche un altro compito, che si stava rivelando più difficile del previsto: D’Annunzio si era convinto che tra i suoi più stretti collaboratori vi fosse una spia di Nitti, Cagoia, come lo chiamava lui, e gli aveva chiesto di individuarla.
Infatti, era successo che quattro dei suoi “Uscocchi”, sbarcati in borghese ed incognito sulla costa vicino Ancona, erano stati arrestati appena messo piede a terra. Avevano il compito di procedere, con il sottinteso beneplacito di Giulietti, il potente organizzatore dei marittimi, che fin dall’inizio appoggiava l’impresa dannunziana, al dirottamento di un battello carico di armi e vettovaglie dirette alle truppe bianche in Russia.
Di colpi del genere ne erano già stati fatti, e, in qualche caso, la merce sequestrata era stata riscattata dai legittimi proprietari, fornendo così linfa vitale alle scarse risorse della Reggenza, ma stavolta qualcosa non aveva funzionato, e l’unica spiegazione possibile era quella ventilata dal Poeta, e cioè che ci fosse una spia a Palazzo.
Guido, autorizzato anche dal suo ruolo di “Segretario d’azione” del Comandante, aveva cominciato ad intrattenersi di più nei locali del Comando; spesso stava nell’ufficio di De Ambris, che era il Capo di Gabinetto, guardava, osservava, chiedeva, ma senza troppa insistenza, per non suscitare sospetti.
Alla fine la sua attenzione si era concentrata su due personaggi che in quelle stanze erano di casa: il maresciallo dei Carabinieri Alcide Renzi e un civile del luogo, Carlo Slocovich, già fervente sostenitore della causa dell’italianità, che era un esperto cartografo e aveva messo la sua esperienza e le sue conoscenze al servizio della Reggenza.
Ambedue sapevano certamente delle azioni piratesche: il Maresciallo aveva il compito di procurare documenti falsi ma perfetti agli Uscocchi, e Slocovich invece sceglieva i posti migliori per gli sbarchi clandestini e poi tracciava le rotte più sicure delle navi dirette a Fiume.
Prove, però, Guido non ne aveva: la sua era, più che altro una sensazione epidermica; non poteva sopportare quei due “uomini d’ordine”, e poi… altri sospettabili non ce n’erano.
Naturalmente, al Comandante non aveva parlato degli scarsi risultati delle sue indagini. Lo avrebbe fatto al momento opportuno, quando cioè gli fosse riuscito di far cadere in trappola i due. Prima, però, doveva risolvere quella fastidiosa questione dei moli.
Si vestì, indossò il suo vecchio cappotto da aviatore, quello di quando stava nella squadriglia di Baracca, e scese in strada.
Aveva appuntamento, al Caffè Centrale, con Giovanni Comisso e Henry Furst, due dei suoi abituali compagni; il posto lo aveva scelto lui: desiderava mangiare una bella fetta di Sacher, come solo lì sapevano fare.
Aveva quasi finito, quando li vide arrivare: Giovanni indossava quella sua solita mantella da Ufficiale di Cavalleria (anche se era assegnato ad una Compagnia Telegrafisti, ma a Fiume nessuno ci badava) e Furst era in borghese, sempre sobriamente elegante. Con loro un giovanotto, in divisa di Ardito, che Guido aveva visto in giro, ma nessuno gli aveva ancora presentato. Lo fece Giovanni: “Guido questo è Achille Terzi: fiorentino, studente universitario, poi Tenente degli Arditi, ora ha disertato ed ora è qui con noi. L’ho preso sotto la mia tutela e conto di farne al più presto uno dei soci della nostra Associazione “Yoga, Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione”.
Il giovane gli tese la mano, e la stretta fu vigorosa, come era prevedibile. In lui, oltre l’aspetto robusto e agile insieme, che denotava l’uomo d’arme avvezzo al combattimento, colpivano gli occhi, verdi ma non “acquosi”, anzi penetranti, continuamente in movimento, che gli davano l’aspetto di un lupo in caccia.
I quattro si avviarono al molo. Giunti al vecchio cantiere dove si erano sistemati i reprobi, entrarono con risolutezza. Dal fondo buio e dalle carlinghe di due vecchie navi in disarmo e lì parcheggiate, emersero una trentina di uomini: erano tutti a torso nudo, nonostante il freddo, portavano il pugnale alla cintura e qualcuno aveva in bella mostra anche delle minacciose Glisenti.
Guido non perse tempo:
“Ragazzi – disse – Voi sapete chi sono e io credo di conoscervi uno per uno, anche se non vi ho mai visto prima, perché siamo fatti della stessa stoffa e vogliamo le stesse cose: un’Italia forte e rispettata, che riunisca a sé tutte le terre che furono sue e da lei vogliono tornare.
Quello che è successo l’altra sera non deve più ripetersi. Non dobbiamo dare spago ai molti nemici che abbiamo all’esterno, ma anche qui a Fiume. Perciò domani lascerete questo posto e rientrerete nei ranghi. Chi è il più alto in grado qui?”
Si fece avanti un Tenente degli Arditi, alto e magro, con una massa di capelli che ne incorniciavano il volto, illuminato da uno sguardo insieme ingenuo e cattivo. “Sono io, Tenente De Dominicis” disse scattando sugli attenti.
“Bene – intervenne subito Keller – “Lei domani si presenti al palazzo del Comando, dal Tenente Comisso che vede qui alla mia destra, con l’elenco completo dei suoi uomini, compreso Grado e Arma-Specialità di appartenenza; sarete assegnati ai Reparti secondo i vostri precedenti, e vi assicuro che se avete voglia di menar le mani, qui c’è da fare per tutti”.
Aveva appena finito che gli uomini proruppero in ripetuti: “Viva D’Annunzio Viva Keller, viva Fiume Italiana”, e si fecero intorno ai loro visitatori.
Stettero insieme per una mezz’oretta, in un’affannosa ricerca di nomi conosciuti ed episodi guerreschi vissuti insieme, poi Comisso si avvicinò a Guido e gli sussurrò in un orecchio: “Sarà meglio se andiamo, ricordati che dobbiamo mettere a punto quel nostro progetto”.
“Hai ragione, Giovanni, non me ne sono scordato. Sai quanto ci tengo” Rispose Keller con uno di quei suoi sorrisi tanto rari quanto irresistibili, e così si avviarono.
Fatta qualche decina di metri, Furst si separò dagli altri: aveva appuntamento con Leone Kochnitzky che con lui collaborava all’Ufficio Relazione Esteriori del Comando fiumano. Allontanatosi l’amico, i tre si diressero ad una locanda del porto: s’era fatta ora di mangiare, e lì sapevano che c’era una saletta discreta che il proprietario avrebbe messo volentieri a loro disposizione, così che potessero tranquillamente parlare.
Appena giunti, si accomodarono in saletta, e non ebbero bisogno di molte parole con l’oste: li conosceva bene e sapeva delle loro “strane” abitudini alimentari, rigorosamente vegetariane.
Portò pane, latte, miele e due cesti con frutta e verdura, dopo di che si accomiatò e lasciò soli i suoi clienti.
“Guido – attaccò Comisso – occorre passare dalle parole ai fatti: dobbiamo liberare il Comandante dalla nefasta influenza di quella donna, la pianista, la Baccara, se vogliamo che torni ad impegnarsi a tempo pieno e nel modo dovuto nella causa comune.
La mia idea resta quella che ti ho già detto. Rapirla e portarla via da Fiume. Per il modo, avevo pensato ad un sistema originale e gioioso al tempo stesso. Come tu sai, a Treviso, che è la mia città, si parla ancora di una festa medievale che fu causa di guerra tra Padova e Venezia, la “Festa del castello d’amore”. A difesa di un castello di legno erano state messe le più belle ragazze della città che, con lanci di acqua ed altri mezzi, dovevano impedire l’accesso a una turba di “assalitori”.
Noi potremmo fare la stessa cosa qui: al grande stabilimento balneare sul molo mettiamo su una specie di castello, con merli e spalti, vi raduniamo le ragazze più carine di Fiume, capitanate dalla Baccara e partiamo con l’assalto. Una volta dentro, non sarà difficile prelevare la bella castellana, e, con un barchino già pronto, portarla in quell’isoletta al largo di Zara che scoprimmo qualche settimana fa. La lasceremo lì con un paio dei nostri uomini di guardia, e poi… beh, poi non lo so nemmeno io come andrà, ma credo che il Comandante capirà quello che vogliamo e perché l’abbiamo fatto, e tutto finirà bene”.
Guido aveva ascoltato attento e in silenzio. Conosceva già il piano, e aveva dato il suo assenso di massima. Ora si trattava solo di metterlo in atto. Mentre l’amico parlava, però, cresceva in lui una curiosa sensazione di disagio: il giovane Achille, da quando glielo avevano presentato, non gli toglieva gli occhi di dosso, stava ad ascoltarlo con particolarissima attenzione, ignorando completamente Comisso e tutti gli altri che c’erano intorno.
Guido era consapevole di fare quest’effetto ai suoi interlocutori, uomini e donne: il suo aspetto, il suo modo di fare, ora anche la fama che si portava appresso, avevano un fascino tanto evidente quanto inspiegabile, di cui, però, cadevano particolarmente vittima i più giovani, gli animi semplici e sognatori come il suo.
Cercò di non pensarci, e rispose a Giovanni: “Va bene, mi raccomando il segreto, però: il Comandante non deve sospettare niente. A tempo debito gli chiederemo il permesso, naturalmente, e l’autorizzazione a far partecipare la Baccara come “bella castellana”, ma dobbiamo fare tutto in modo che non sospetti. Anzi, comincia subito a far costruire il castello, e organizza una prova generale con i legionari: una ventina travestiti da donne li sistemerai all’interno, e il doppio daranno l’assalto. Desidero che la cosa sia curata nei minimi particolari, e conto su di te”.
L’amico assentì, convintamente, e poterono proseguire il loro pranzo, raccontandosi a vicenda aneddoti e facendo anche un po’ di pettegolezzi sui tanti strani personaggi che giornalmente capitava di incontrare in città.
Al momento di accomiatarsi, al gesto di Comisso che voleva dire: “Andiamo?”, Achille rispose: “Vai, Giovanni, io resto un po’ con Guido a sentire le sue storie, ti raggiungo più tardi in albergo”.
In effetti, però, egli in albergo non tornò, né quella sera, né mai più.
Continua…