10 Ottobre 2024
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Attilio Bonvicini: La Scelta – Ritratto di Attilio

Attilio Bonvicini
La Scelta

Ritratto di Attilio

Da «Lettera aperta al Principe Valerio Borghese»
del partigiano Piero Operti compresa nel volume «Lettere aperte»
edito da Giovanni Volpe Editore
«A Torino nel novembre ’44 recandomi al Mauriziano a trovare un amico di recente operato conobbi un giovane ufficiale suo com­pagno di camera, ferito a una gamba, il tenente Affilio Bonvicini di Tremo. Con la mia vecchia pratica d’ospedale e di feriti, al primo sguardo notai che il suo braccio sinistro era affetto da paresi, con limitazione dei movimenti del polso e delle dita, e poiché si trat­tava d’una lesione da tempo consolidata, con quell’invalidità, che Io rendeva inabile al servizio militare, egli doveva esser tornato in guerra e in un secondo tempo aver riportato la nuova ferita, scheg­gia alla gamba destra, della quale era allora degente.

Questo fatto bastava a destare il mio interesse, ma il volto del giovane non era meno eloquente della sua storia riassunta dalle fe­rite, poiché egli aveva quella bellezza che la natura avara concede solo ai suoi privilegiati, come persuasa a un necessario compimento di perfezione, aggiungendola alla vaghezza austera che imprimono tra ciglio e ciglio l’intensità dell’anima e il rovello del pensiero. Affilati dalla lunga costrizione all’immobilità erano i lineamenti purissimi, e nelle orbite incavate i suoi occhi ad ora ad ora tra­sparenti o scuri avevano acquistato la paziente bontà che si affina tra capezzale e sala di chirurgia, mentre le brune palpebre conser­vavano il piglio soldatesco delle volontà rettilinee.
Poiché mi recavo al Mauriziano quasi ogni giorno e quando non vi erano altri visitatori la conversazione si svolgeva a tre, la nostra relazione ebbe tempo di farsi intima e seppi di lui ciò che fin dal principio avevo intuito. Aveva ventitré anni, era iscritto alla facoltà di magistero a Venezia e da quattro anni si trovava alle armi. Oltre alle ferite visibili, riportate la prima in Albania, la seconda in Italia, aveva, dall’Albania, una scheggia penetrata dalla clavicola nel peri­cardio, che lo classificava grande invalido.
L’immediato futuro escludeva in lui ogni pensiero del futuro lontano e i relativi problemi, ma io sentivo che un giorno il suo animo sarebbe conteso fra l’appello sociale d’una vita attiva e la vocazione agli studi metodici e alla conversazione coi Grandi che attraverso i secoli compirono il tentativo di umanizzare l’uomo.
Come per Mameli, Dandolo, Morosini e i loro compagni della difesa garibaldina di Roma, come per Borsi, Serra, Locchi nella prima guerra mondiale, nature votate alla poesia e capaci di tra­sferirla nella vita, le armi erano per Attilio il mezzo messogli nelle mani dall’ora del tempo per un’idea di giustizia che lo penetrava senza residui e che, finita la guerra, egli avrebbe servita in altri modi sino al suo ultimo respiro.
Intorno al suo letto trovavo spesso un gruppo di suoi compa­gni d’armi, tutti giovanissimi. fra i diciassette e i venti anni, ra­gazzi al loro primo servizio militare. Mi sembravano miei scolari del liceo, improvvisamente cresciuti in statura nella divisa di sol­dati, e mi sembrava strano di non doverli interrogare sulla lotta delle investiture o sulla prova ontologica di Sant’Anselmo, ma di interrogarli sui loro singoli drammi, che erano parte del dramma italiano. Qualcosa li accomunava che non era soltanto nell’età e nella personale educazione di cui nessuno d’essi era privo, un me­desimo lievito che insaporiva le loro anime e faceva limpido e fermo il loro sguardo, una stessa aura come di neofiti d’una religione appena rivelata. Giovinezza senza macchia e senza paura, floride spighe italiane cresciute per la falce della Storia.
In quei tempo esercitavo nella Resistenza funzioni di tramite fra alcuni reparti delle formazioni autonome e il CLN torinese, e avevo frequenti contatti col Presidente di questo, «Paolo», il pro­fessor Paolo Greco della nostra Università.
Quei volontari erano miei nemici: ragazzi della Decima Mas.
Non so quale innocente dolcezza si accompagnava alla loro vo­lontà di morire. Non desideravano se non il momento in cui il loro battaglione, il «Lupo», fosse rimandato in linea, per morire; e odia­vano il Comando tedesco che li aveva temporaneamente assegnati alle retrovie. Erano poco teneri anche verso il Governo di Salò, eclissato dal Comando tedesco. Nessuno di essi sperava più nella vittoria, ma questa evidenza aveva semplificato il loro problema. In una spaventosa selva di difficoltà ideologiche, morali e pratiche avevano scoperto la soluzione più semplice e sbrigativa, che li li­berava da ogni dubbio e da ogni quesito. Il cuore aveva preso il posto del cervello e gli prescriveva la propria legge.
Vi era una parola alla quale, udendola, o pronunziandola, un subitaneo irrigidimento passava in essi dall’anima al volto, come in un credente a cui si tocca il dogma supremo: l’onore. «Per l’o­nore». L’onore dell’Italia aveva subito una frattura che solo il san­gue avrebbe potuto cementare. Quell’onore era sentito come un impegno personale; esso esigeva una personale espiazione. Anche le parole «espiazione» e «redenzione» tornavano spesso sulle loro labbra.
Io volevo salvarli. Mi angosciava il pensiero della fine verso cui quelle fiorenti creature della mia terra precipitavano e che per molti di essi non sarebbe stata la vagheggiata morte in bellezza. E parlai loro con l’intento di staccarli dal loro reparto, di strapparli alla loro strenua follia. Non potevano negarmi il patriottismo, neppure quel particolare patriottismo a cui essi erano più sensibili e che si com­misura alle cicatrici. Volevo acquistare la loro fiducia e con cautela graduavo le mie parole. Mi ascoltavano in silenzio. Si risentivano scolari dinanzi al maestro esperto a cercar l’anima dei giovani, a suscitare nelle loro menti la soluzione delle difficoltà. Ma la posta in gioco era ben altra che la critica della ragion pura. Mi segui­vano, ma quando avvicinavo qualche punto della loro dogmatica avvertivo una rispettosa addolorata resistenza. Se un argomento li rendeva perplessi si volgevano al comandante del loro plotone. Attilio, e una sua parola bastava a distruggere la mia opera paziente.
Allora ripiegavo per non compromettere la battaglia. determinato a riprendere domani le operazioni d’approccio.
Con essi volevo salvare Attilio. Volevo salvarlo per l’Italia che non abbonda di anime religiose capaci di liberamente prescriversi una disciplina severa come la regola monastica e ferma come la regola militare; egli apparteneva alla razza trentina dei Bronzetti e dei Battisti; riconoscevo in lui una di quelle coscienze cristalline che non concedono nulla alle circostanze e cercano nell’interiorità più profonda i motivi dei propri atti, uno di quei rari spiriti chia­mati da Cristo il sale della terra. Il primo conflitto mondiale mi aveva insegnato che le convulsioni di ogni dopoguerra. simili ai movimenti incomposti d’un organismo leso nei centri nervosi, di­pendono in misura notevole dalla terribile selezione delle batta­glie, dalla falcidia di valori spirituali che un popolo subisce con la scomparsa della sua migliore giovinezza.
Un pomeriggio in cui il gruppo era completo mi intrattenni più a lungo con i miei giovani amici. Bisognava prima di tutto che io riuscissi ad eliminare ogni sospetto di pusillanimità dal gesto che chiedevo loro. Le bianche pareti della stanza, la nebbia che premeva alle finestre ci isolavano dal mondo. Lo Strazio della Patria, presente nelle carni di Attilio, riempiva i nostri cuori. E l’anima della Patria aleggiava su noi, fatta sensibile dal nostro dolore, ol­tre la tragica antitesi che impersonavamo. oltre le due immagini che di lei ci venivano offerte, entrambe stravolte e irriconoscibili.
Sentivamo tutti di trovarci a un’ora decisiva della nostra vita e nessun pensiero della nostra sorte particolare sussisteva. come negli attimi supremi che tutti avevamo sperimentato, quando ammas­sati nella trincea si abbassa il sottogola c si toglie la sicurezza alle armi nell’imminenza del segnale.
La mia parola aveva finalmente presa su quei fanciulli, incri­nava la loro certezza, schiudeva ai loro occhi orizzonti più vasti. Traendola da tutto il suo passato prospettai loro la visione dell’Italia nella concretezza delle sue zolle ubertose e delle sue morbide ma­rine, delle tombe auguste e delle culle respiranti, e quell’immagine proiettai verso il futuro. patrimonio d’ineguagliata nobiltà che l’aterna vicenda delle umane sorti non poteva né distruggere né me­nomare, e per il quale occorreva a noi l’ardente coraggio di vivere. Fiducioso nel mio successo vibrai l’ultimo colpo conchiudendo: «Per uno Stato viene il momento in cui non esiste altro onore che non sia l’intelligente difesa dei propri interessi».
Con volti smarriti i ragazzi si volsero al loro comandante. Attilio aveva ascoltato senza interrompere, sollevato nel letto. con la mano sinistra sul petto, la nuca appoggiata ai guanciali e gli occhi chiusi. Il suo profilo pareva ricavato in un blocco di alabastro, la sua fronte splendeva come neve.
«Lo Stato, quando c’è – egli disse lentamente senza aprire gli occhi – faccia quello che deve e può; ma per i singoli, onore è sot­trarre la propria condotta alla gravitazione dei fatti. Come la fede religiosa, è una realtà solo per chi lo sente: noi lo sentiamo e ad esso abbiamo consacrato la nostra vita».
I ragazzi ripresero il fiato e il colore. Nel silenzio che seguì la mia sofferenza si acuì in spasimo. Dopo una breve pausa aggiunse: «Il nostro sacrificio è necessario per riscattare colpe che furono com­messe. Cosi vuole la Storia, e la parola redenzione non ha altro significato».
Egli non sapeva di pronunziare, dopo cento anni, le parole di Attilio Bandiera alla vigilia della fucilazione.
Alcuni giorni dopo Attilio venne a salutarmi. Le sue ferite erano da poco rimarginate e si reggeva appena. Sotto la mantellina aveva la mano sinistra infilata nella giubba. Partiva l’indomani col suo battaglione per raggiungere il fronte della Romagna. Sapevamo entrambi che non ci saremmo più riveduti. Lo abbracciai e la parte di me più giovane e viva Io invidiava ardentemente.
Egli fu ferito in uno degli ultimi fatti d’armi sul Senio, quando gli Angloamericani compirono la definitiva avanzata. Passò attra­verso vari ospedali e da ultimo in quello di Merano. Chi è stato ferito grave sa che esiste un momento nel quale il vivere o il mo­rire dipende da un atto di volontà. Attilio volle morire. Egli si spense dopo una lunga agonia il 20 luglio».
PIERO OPERTI

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