Giacinto Reale ha un merito – più di uno, va da sé, come possedere Frodo, un cane e grosso e rumoroso e affettuoso – e, cioè, di provocare stimolanti dibattiti sulla vuota sciatta mediocre vetrina di fb. Questo segno dei tempi da nani e, proprio per questo, gettonata e utilissima puttana. Dibattiti al limite della provocazione che io mi trovo ad apprezzare, pur se sovente sono in disaccordo con le sue tesi. Opinioni, le sue, troppo prossime a Renzo De Felice, a cui rimprovero aver trasformato il Fascismo – ‘la poesia del XX secolo’, per dirla con Robert Brasillach, il mio fratello più caro – in una sorta di contenitore vuoto di sogni di ideali di orizzonti o, se si vuole, di illusioni. Un mondo, però, senza utopia è una sana gretta piatta schifezza, soprattutto per chi, come il sottoscritto (qui poco rispondente – uno squadristico ‘me ne frego!’ ci sta – al ruolo di professore storia e filosofia, esercitato con adolescente entusiasmo), ama far antecedere l’irrompere delle emozioni alla presunzione della ragione.
Contro le tesi del De Felice vi sarebbe da dire altro e ancora e di più, ma qui gli strali sono diretti ferocemente e volutamente maligni – si fa per dire – alla mente e non al cuore dell’amico Giacinto e a tutti coloro, come mi si assolva verso lo stesso Adriano Romualdi (e l’accostamento aggrada l’innato gusto di rendere sempre grossolana e plebea la provocazione) e verso quel Roberto Mancini (altro tipo di professore che osa figurare fra le mie amicizie e non solo virtuali!), i quali si ostinano a raffazzonare il Fascismo a esclusivo ‘italianissimo’ patrimonio o, solo al margine e fra i paletti e i termini reazionari o romantici , a ‘fenomeno europeo’…
Indubbio quell’inizio salvifico e rigeneratore, che prese le mosse il 23 marzo ‘19 da piazza San Sepolcro, merito dunque di questo nostro ingrato paese, ma io non sono stato un solo fruitore di storia (devo a mio padre interesse e passione), sono stato militante giovanissimo fra l’ostinato e l’inquieto – e non solo io. Abbiamo scelto ‘la parte sbagliata’ in cui ci si ritrovava fra rotoli di manifesti barattoli di vernice manici di piccone e l’abbiamo scelta perché ci faceva sentite diversi, con qualcosa di rozzo e di nobile al contempo… e del futuro vuota (?) nostalgia.
Noi abbiamo accettato di pensare e vivere il Fascismo ‘immenso e rosso’, per citare ancora e sempre Brasillach, che presuppone nel suo essere universale riconoscersi là dove si combatte per l’Idea – tempo e spazio ininfluenti –, lo stare con i più miseri con i reietti i proscritti ‘i dannati della terra’ (in sintonia con il ‘fascista di sinistra’, il già succitato Mancini) perché già il Duce volle anteporre l’Italia ‘proletaria’ a quella prettamente ‘fascista’ (distinguo necessario per le troppe scorie borghesi, clericali e monarchiche a soffocarne l’originario intento). La storia, le storie. Poi c’è in me quel fondo libertario – non è casuale come i miei eroi prediletti siano il visionario Don Chisciotte e il funambolo Cyrano – che soffre della sindrome chiavistelli e sbarre, li vedo ovunque, anche se mi venisse offerto regno e percorrenze di un ipotetico ed estremo orizzonte.
So bene – consapevole del rischio – che il ‘mio’ Fascismo finisce per essere un vago sentore, un sentimento, una nobile causa valida in ogni luogo e per le occasioni le più disparate – Assad oggi, Castro e Guevara ieri –, ma io credo – caro Giacinto e voi tutti amici miei carissimi, Adriano e Roberto – che si possa si debba far coabitare le radici (la nostalgia) con il proiettare lo sguardo le mani le gambe oltre ogni forma di ostacolo che il ‘nemico’ ci oppone ‘sempre’… Solo così ‘noi siamo uomini d’oggi’, a difesa de ‘la torre del nostro orgoglio e della nostra disperazione’.
Premessa ‘chilometrica’, come mia abitudine, per entrare direttamente a parlare del secondo libro di Giacinto, ‘Avanguardia di morte…’ – racconti brigatisti, cinque per l’esattezza e per complessive 260 pagine. Più voluminoso del precedente ‘Se non ci conoscete…’ – racconti squadristi, anche questo composto di racconti cinque, più agili e frizzanti (delle ragioni dirò, a mio parere, qui di seguito). Dunque, pitagorico di adozione (barese di nascita), l’autore costruisce, anche nel medesimo numero di racconti, una sintonia un parallelismo tra il primo e secondo libro. E non soltanto per amore delle belle forme delle perfezioni geometriche di un eccesso di precisione o pignoleria (?) che lo contraddistingue…
Fra lo squadrismo di cui è fra i massimi cultori e la Repubblica Sociale vi sono venti anni di Regime – l’irriverenza spregiudicata e dissacrante del Fascismo BL 18 olio di ricino manganello e schioppettate si acquieta si disarma tace e soffre nell’ombra un po’ di rancore ma pur sempre una fede robusta –; poi troppi compromessi e qualche inganno di troppo l’Italia di otto milioni di baionette le sanzioni violate l’Impero e la Spagna lacerata (forse a fianco, inevitabile, di un sodale più avverso che camerata) e il fascino della Germania vittoriosa, vindice del diktat di Versailles, piazza Venezia il 10 giugno, le prime dolorose sconfitte, la Quarta Sponda la Grecia, il Mediterraneo un cimitero delle nostre navi… Dall’allegria alla tragedia. E l’ombra del tradimento che monta si articola pesca nel torbido solletica vanità rivalse piccole meschinità, i Savoia usi a cercare il carro inossidabile del prossimo vincitore su cui aggrapparsi, gerarchi in cerca di ambizioni personali, il Vaticano a benedire il nuovo soffio della Provvidenza, capitale e borghesia usura e pavidità. Il 25 luglio; l’8 settembre.
La Patria non è morta, ‘per l’Onore d’Italia!’, con o senza Mussolini, ‘le donne non ci vogliono più bene’ (Mario Castellacci l’autore della più bella canzone della guerra civile, come l’ebbe a definire Giorgio Bocca), le ausiliarie i marò della Decima, primi sul fronte di Nettunia, i bersaglieri del btg. Mussolini a difesa dei confini dell’Est, la GNR, a presidio del territorio, e le Brigate Nere di quel Partito di ‘combattenti e credenti’ auspicato dal quel folle poeta che fu Alessandro Pavolini. Un lavacro di sangue purificatore, questa la Repubblica Sociale, con l’aquila il fascio fra i rostri a campeggiare sul tricolore. E uomini come Nicola Bombacci, fra i fondatori del Partito Comunista nel ’21 e pronto a farsi appendere a piazzale Loreto accanto al vecchio amico, entrambi figli rissosi di Romagna. La socializzazione contro il capitale oltre il socialismo, la giustizia sociale di cui si fa interprete, ad esempio, Giuseppe Solaro, ultimo federale di Torino.
I racconti brigatisti traspirano tutto questo: anime belle nobili generose destinate ad essere sacrificate nell’eterna guerra del sangue contro l’oro, a donarsi perché oscure – in fondo, ben chiare – ragioni della storia l’impongono. Resta solo la morte quale atto conclusivo perché ai vinti non è dato essere accolti nel tempo a venire. Salvo il rinnegarsi assolversi mascherarsi… ma l’autore possiede un sentire troppo ferreo e coerente per scegliere questa soluzione per i suoi protagonisti (in un solo caso ciò si propone ed è forse il racconto più triste). Gli uomini le idee gli accadimenti, simili a piante ed animali, conoscono il limite ineluttabile del tempo – si tratta solo, sembra suggerirci Giacinto, saperlo ben spendere e uscirne in piedi e ad occhi aperti.
Una lezione questa di tutto rispetto che, accompagnandosi alla trama robusta del narrare, è indizio e invito alla lettura del libro. Del resto, essendomi volto in questi ultimi anni alla narrativa, il valore della testimonianza prevale sulla gestione di idee e critica storica, mi è familiare il modo di procedere di Giacinto. Collocare la finzione in un rigoroso contesto ove il rimando è documentato e riconoscibile. C’è, però, una differenza – ovviamente non parlo dell’impianto narrativo e delle forme linguistiche -, una differenza che rimanda a quanto scritto nella ‘premessa’. Dicevo come si passi dall’ottimismo del tempo eroico dello squadrismo vittorioso alla tragedia del tempo altrettanto eroico della fine annunciata. In generale i protagonisti dei miei racconti sono dei ‘sopravvissuti’, in qualche caso si ritrovano nel presente, spaesati e delusi ma sempre con uno scatto d’orgoglio. Quella fierezza e speranza, ‘le due sole virtù alle quali io credo’, di cui Brasillach affidava il conservarsi a uno sconosciuto ‘soldato della classe ‘40’… Questo manca a Giacinto, o meglio gli rimane solo la fierezza di chi prende atto che oltre le rovine nulla è dato rincorrere e che, nell’oggi, quell’avventu- ra, tragica ed esaltante, rimane affidata alla memoria raccolta e fidente. Non è poco, ma per quanto mi riguarda non m’è sufficiente.
Il cavaliere la morte il diavolo del Duerer, l’acquaforte riletta in modo magistrale da Jean Cau, deve pur insegnarci qualcosa. A pelle. Questione di razza. Combattere è un destino.