Più volte, nelle nostre riflessioni, abbiamo parlato di capovolgimento, rovesciamento di valori e principi. Il nostro è un tempo invertito. E’ la vittoria delle streghe di Macbeth, la tragedia di Shakespeare sul potere, l’ambizione, il buio. Le tre streghe ne sono il motore, con oscure profezie e la frase con cui aprono il dramma: fair is foul, and foul is fair. Bello è il brutto, e brutto è il bello, strillano tra risa sardoniche per poi uscire di scena “su per la nebbia e l’aria unta”. C’è un che di malsano, malato, nell’affermazione che rovescia ogni senso e ogni ragione: il bello è brutto e viceversa. Il bene diventa male e la menzogna predomina sulla verità.
Nella tragedia del bardo inglese il mondo al contrario viene sconfitto al termine della battaglia finale che disvela le profezie oscure delle streghe, ma nel presente diventa pane quotidiano, cibo velenoso che intossica e inverte la scala dei valori. Lo vediamo dappertutto: nelle strade sporche, nei muri lordati da scritte e graffiti tutt’altro che artistici, con buona pace degli aedi dell’arte di strada; nella sciatteria di abbigliamento, postura, condotta, che diventa volgarità spacciata per comodità, spontaneità, trasgressione, l’ obbligo grottesco dei forzati della liberazione; nell’indifferenza per il bello e l’arte, ridotti a sfondi, location – come si dice adesso – per i selfie in cui protagonista è il nostro ego smisurato e insieme minimo; nel linguaggio elementare, sguaiato, scurrile; nell’indifferenza per la verità, superata dalla menzogna per coazione a ripetere; nella musica ripetitiva che imita il baccano metropolitano per accompagnare sballi e dipendenze; nella pelle occupata da tatuaggi senza significato, brutti, spesso bizzarri, insensati, segno da un lato della smania di autocreazione e di volontà di distinguersi nella massa, dall’altro prova di un’ estetica imbarazzante unita alla dipendenza dalle mode. Tutti sembrano comportarsi allo stesso modo, nella trascuratezza comune, nell’abbigliamento, nell’ atteggiamento, nelle preferenze: difficile distinguere tra “plebe ricca e plebe povera” (Nicolàs Gòmez Dàvila). Soprattutto, è arduo rintracciare il bello: la bruttezza tracima da ogni lato diventando il segno distintivo della modernità postera di se stessa. Paesaggi meravigliosi vengono sfigurati da chilometri di orrendi parallelepipedi, cubi e fabbricati informi, i nonluoghi frequentati da generazioni rese ignoranti, insensibili, imbruttite e abbrutite nonostante trucco, belletto, abiti firmati. Centri commerciali, capannoni presto dismessi, insegne pubblicitarie, svincoli diventano il ritrovo, lo scenario di vita, incontro, auto riconoscimento di una massa identica intenta a passatempi, occupazioni e passioni volgari. L’architettura – chiusa la partita con l’ornamento – non ha più ambizioni di bellezza e durata, a differenza del passato in cui edificare appariva agli uomini il modo migliore di lasciare una traccia di sé, un lacerto di eternità, il segno di un passaggio non casuale, l’ansia di trasmettere un modello di civiltà.
Su tutto, domina il sistema della comunicazione massificata, la pubblicità e l’intrattenimento che – diversamente dal passato anche recente – impongono modelli e personaggi caratterizzati dalla bruttezza, dall’anormalità esibita, dall’ostentazione di ogni eccentricità e perfino deformità. Evidentemente tutto ciò è voluto, elemento centrale della potente opera di deidentificazione, regressione, riduzione animale cui siamo assoggettati. Poiché tutto deve servire a qualcosa, essere utile ad alimentare il circuito del consumo e del profitto, l’uomo postmoderno riderebbe – di una risata stolida, sguaiata, carica di soddisfatta mediocrità – se gli capitasse, per caso o errore, di leggere un brano delle Pietre di Venezia di John Ruskin: “ricorda che le cose più belle del mondo sono anche le più inutili: i pavoni e i gigli, ad esempio” .
Inutili se fosse vero che l’uomo è solo ciò che mangia (L. Feuerbach). Tutto ciò che è “utile” in senso strumentale è oggi programmaticamente brutto, mentre in passato così non era e perfino gli utensili del contadino rispondevano a un’idea di bellezza, di gusto. Lo sguardo era rivolto in alto. Oggi tutto congiura a farci chinare in basso.
La comunicazione pubblicitaria diventata visione del mondo guida la marcia del regresso: Zara, multinazionale della moda ( pardon, fashion…) a buon mercato, ha un testimonial nuovo/a – o meglio *, il magico asterisco che nega la natura: si chiama Ceval Omar, è transessuale ( l’eroe del nostro tempo) immigrat* e ner*, nonché grass* e francamente brutt*. Come è ovvio, la scelta non risponde a criteri di mercato – nessuno compra un prodotto per invidia o imitazione del modello di riferimento – ma per abituare alla bruttezza, alla confusione, al pappone multiculturale e transumano a cui ci stanno riducendo. Diffondere degrado e bruttezza aiuta a riconfigurare il post –uomo non più sapiens.
Non è dunque per semplice senso estetico che bisogna difendere la bellezza, ma perché su quella trincea è in gioco tutto: l’essere e il non essere, il bello e il vero. La bellezza si trova nel mistero che dà il via all’immaginazione, la quale a sua volta crea e connette alla natura e all’arte. Scrisse il poeta romantico John Keats: “la bellezza è verità, la verità è bellezza. Questo è tutto ciò che al mondo sapete, e tutto ciò che dovete sapere.” E lo disse in un canto dedicato alla bellezza senza tempo di un manufatto artistico, un’urna, un’anfora dell’antica Grecia, sublime, perfetta manifestazione della bellezza che non ha bisogno di giustificazione.
Chi ci scaraventa in un oceano di brutture ci sta togliendo la sapienza insieme con il senso della bellezza, porta della trascendenza. Lo sanno bene i nemici dell’uomo, i nostri nemici. Quelli che in tempi di nichilismo viscido, soffice ed egualitario, intendono farla finita con la verità e la bellezza, con la civiltà e le sue bandiere. Ceval Omar rappresenta Barbie per l’azienda Inditex, ieri icona di un modello di bellezza femminile, oggi adattata , dicono gli entusiasti del nuovo corso estetico (e anestetico) al fatato mondo dell’inclusione , ossia dell’omologazione, l’uguaglianza in basso che non conosce limiti.
Come non ha limiti il dominio della volgarità, del risentimento e dello svilimento da parte della generazione degli “ultimi uomini”. Il loro tempo – il nostro – è quello in cui l’umanità “non genererà più stelle”( F. Nietzsche). Una tipologia umana, secondo il solitario di Sils Maria, “tanto più disprezzabile perché non sa più disprezzarsi”. Con il suo avvento la terra “ è diventata piccola e su di lei saltella l’ultimo uomo che rende tutto più piccolo. “ La battaglia per la bellezza, per quanto risulti incomprensibile all’uomo impegnato esclusivamente nel successo e nelle crescita misurata in denaro , è decisiva in quanto respinge l’idea di un essere solamente animale, utilitario, gettato sulla terra per scambiare e accumulare cose, unico pegno di felicità. La bellezza, tra le altre cose, è gratuità. Essa continua a godere di un certo prestigio nell’ambito museale. Pensiamo all’ immagine pittorica di Simonetta Vespucci, la musa di Sandro Botticelli. La sua sfolgorante bellezza continua ad incantare i visitatori , ma rimane confinata nel chiuso, un retaggio del passato. Passato, ovvero finito. Nessuna bellezza è riconosciuta oggi; non esiste bellezza che sia viva, in azione, presente. Possiamo cercare ovunque per cielo e terra: non troveremo alcuna Simonetta, nessun David , nessun Laocoonte avviluppato dai serpenti con i suoi figli, non un solo palazzo o tempio, un Partenone, una cattedrale. Al loro posto abbondano le “installazioni” e ogni stranezza che possa essere compravenduta con il bollino di conformità di una casta di ciarlatani.
La cultura è il suo contrario in ogni ambito. Nella musica trionfano prodotti imposti dal mercato woke come Lizzo, cantante nera, sovrappeso, simbolo del mondo nuovo, che canta la bellezza della diversità e il dovere della sua accettazione accompagnata da ballerine altrettanto sgraziate e obese, poverette che, sembra, maltrattava e obbligava a prestazioni sessuali umilianti. La bruttezza elevata a modello diventa degrado, non di rado abiezione. Se lottiamo per il bello è per sopravvivere. Esistere. Per far capire cosa potremmo e dovremmo essere. La fine del bello è la morte dello spirito , la sottomissione all’impero dell’utile e del materiale, del prosaico e del banale, la scomparsa dell’unità ideale tra il bello, il buono, il vero. Persino nella Firenze del Rinascimento, patria della bellezza, il brutto, il triste, perfino il sudicio arrivarono al potere con il volto del sinistro frate Girolamo Savonarola, nel cui “falò delle vanità” ardevano gioielli, profumi, abiti, libri, manoscritti, quadri, compresi quelli del Botticelli , irretito dal monaco ferrarese. La disgrazia fu di breve durata: dopo quattro anni Savonarola arse sullo stesso rogo dove aveva tentato di distruggere vita, bellezza e arte in nome di un Dio accigliato e disumano, niente affatto cristiano.
Sempre nell’uomo è stata presente una tendenza verso il basso, il volgare, il sordido. Mai tuttavia era assurta a principio vincente come nella contemporaneità occidentale. Chi scrive rammenta due scosse, due moti dell’animo fortissimi e indimenticabili. Uno, a vent’anni, la vista improvvisa, nella National Gallery di Londra, della Cena in Emmaus di Caravaggio. Stupore, scoperta, l’attimo ineffabile degli umili discepoli che riconoscono Gesù risorto. L’altro, molti anni dopo, l’apparizione, altrettanto improvvisa, scomparse le nuvole con la rapidità del clima di montagna, delle pale di San Martino, un miracolo della natura che innesca, insieme con l’emozione senza fiato della bellezza assoluta, l’evidenza di un creatore, di un principio superiore che ci eccede. Fitte dell’ anima che il tempo non scalfisce, che l’abbrutimento del mondo non riesce a guastare. Sensazioni che fermano il fango, mantengono pulito lo sguardo, conservano intatta la speranza. È la contemplazione della bellezza, naturale o frutto del genio umano. Luoghi , opere che accendono i sensi, la ragione e lo spirito, poiché non c’è bellezza di cui l’anima non sia giudice ed arbitro, come insegna Agostino d’Ippona. La guerra delle idee, così necessaria, corre il rischio di spostarsi dove l’immediato, il superficiale, il quotidiano, fanno dimenticare l’ancoraggio con il buono, il vero, il bello.
A volte bisogna oltrepassare il presente per andare più a fondo, dove penetrare e ascoltare i sussulti ideologici del tempo che trascina verso il basso. Per rimanere in piedi, però, occhi aperti e cuore caldo in un mondo di rovine, fermi nel bene per riconoscere il male. Il bene per soffocare il male. Il bene per non sbagliare nel dubbio. La verità da capire. La verità per vivere nella realtà. La verità per camminare senza il peso della cattiva coscienza. La bellezza perché è piacere, gioia, conoscenza, sguardo che scavalca l’orizzonte. Bellezza da condividere, poiché io non sono nulla se non mi apro a “noi”. La trinità di bene, verità e bellezza è la più odiata dal principe del male, la più massacrata dal pensiero dominante postmoderno che non nasconde più il culto del brutto, il distacco dal bene, la rinuncia alla verità. Il bello è anche buono, lo sapevano i greci, padri dall’eredità dissipata. Quando la nebbia rende tutto confuso è l’ora di tornare all’essenziale, all’immutabile, alle uniche cose importanti: il bene, la verità, la bellezza. Sono il nostro dovere e la nostra salvezza. Perché se non è chiaro in che modo la bellezza salverà il mondo ( Dostoevskij) è chiarissimo che la bruttezza lo sta distruggendo. Non servono troppe domande: è sufficiente ciò che intuì il poeta e mistico tedesco Angelo Silesio: “la rosa è senza perché. Fiorisce perché fiorisce, lei a se stessa non bada, non chiede che la si guardi. “ Ma se la osservi, scopri la bellezza e non puoi più separartene.
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