Walter Benjamin e Gershom Scholem, attraverso l’azione intellettuale hanno agito profondamente, secondo modalità diverse, sulla cultura del XX secolo. Il loro pensiero attende, in particolare quello di Benjamin, di esser attualizzato anche nel XXI secolo. Scholem, nell’immediato, ebbe maggior fortuna editoriale dell’amico berlinese, sia pure in relazione all’ambito degli studi inerenti la cabala, via esoterica della quale è, ancor oggi, riconosciuto come uno dei massimi esegeti. Al contrario, tanto la vita raminga del melanconico Benjamin, quanto il tratto frammentario della sua opera e del suo metodo d’indagine, hanno ritardato il diffondersi del suo pensiero. In Italia, la promozione e lo studio della sua filosofia va ascritto al lavoro indefesso compiuto da Giorgio Agamben e da pochi altri. In ogni caso, nella definizione della filosofia benjaminiana, un ruolo di primo piano è stato svolto proprio da Scholem, che fu, per così dire, deuteragonista di Scholem, in un dialogo, umano prima che speculativo, durato un’intera vita.
Con il conferimento di tale incarico, il pensatore invitava Scholem non semplicemente a custodire il lascito: «ma a riprodurlo, a renderlo pubblico» (p. 395). Lo studioso della cabala avrebbe dovuto svolgere un lavoro simile a quello tecnicamente compiuto dalla camera «oscura» rispetto alla fotografia, che etimologicamente significa «scrittura di luce», con chiaro riferimento all’opera benjaminiana. Del resto, chi meglio di Scholem poteva conoscere il senso ebraico dell’archivio? Questo doveva essere: «come un’arca costruita secondo il modello ebraico, per un tempo dopo la catastrofe, dopo la fine» (p. 399). La catastrofe che con la Seconda guerra mondiale si abbatté sull’Europa e che, nel 1940, «costrinse» di fatto Benjamin giunto in Spagna, a Port Bou, dopo una rocambolesca escursione notturna sui Pirenei per sfuggire ai tedeschi, a togliersi improvvidamente la vita. Pur da fedele archivista, Scholem, non perse mai la propria autonomia di giudizio, mostrando in molta parte della corrispondenza con l’amico, una malcelata perplessità di fronte al duplice volto di Giano che andava manifestandosi nel sistema filosofico di Benjamin.
Riteneva sostanzialmente che il filosofo delle Tesi di filosofia della storia, stesse facendo indossare, con uno sforzo non celato, allo sfondo teologico-ebraico della propria filosofia, gli stretti abiti del marxismo, che lo avrebbero reso, alla lunga, sistema spurio ed inutilizzabile. In fondo, il rapporto tra questi due volti di Giano-Benjamin è esemplarmente chiarito dalla prima Tesi di filosofia della storia. In essa si dice di un automa turco intento a giocare a scacchi e capace di battere qualsiasi avversario, in quanto era guidato a distanza: «da una mano impresentabile» (p.420), quella della teologia. L’automa rappresenta in tale allegoria, l’abito stretto del marxismo, che avrebbe dovuto essere vivificato dall’impianto mistico che Benjamin aveva conosciuto con la frequentazione di Scholem e per la confidenza acquisita con le opere di quest’ultimo dedicate alla cabala.
Le lettere fanno emergere anche una sorta di reticenza pudica tra i due, che testimonia la reciproca stima. Infatti, Campanini rileva che: «Il silenzio e la reticenza di cui rimbombano queste pagine, sono una forma di pudore» (p. 400) reciproco. Prima del 1932, i rapporti tra loro erano stati turbati, per un breve periodo, dal mancato arrivo a Gerusalemme di Benjamin, nonostante questi avesse incassato da Magnes, responsabile dell’Università di Gerusalemme, per intercessione di Scholem, una somma di danaro che avrebbe dovuto permettergli di studiare l’ebraico, essenziale per il suo arrivo in Israele. Si evince, inoltre che l’archivio, come sostiene Campanini, è un lascito cifrato, dominato dal rischio del plagio. Plagion in greco significa obliquo, tortuoso. Esso non riguarda semplicemente il rapporto intellettuale tra i due amici, ma anche altre relazioni intrattenute da Benjamin nel corso della sua esistenza, centrate sempre su una «influenza bidirezionale» (p. 428). In questo senso è paradigmatico il rapporto del filosofo con Ernst Bloch. Scholem, a proposito del saggio di Benjamin su Kafka, nelle lettere così chiosa: «Da dove vengono in realtà tutti quei concetti: è Ernst Bloch che li ha presi da te o tu da lui?» (p. 411). Asserzione motivata dal fatto che, in diversi luoghi degli scritti dei due pensatori, si fa riferimento al medesimo tema rabbinico inerente le differenze «minime» che distinguerebbero il mondo a venire, il mondo redento, dalla realtà attuale. In realtà, i due si sarebbero richiamati, attraverso una lunga sequela di riferimenti letterari, alle tesi di Maimonide relative al tempo messianico, influenzandosi vicendevolmente. Scholem, prodigandosi per la divulgazione delle opere dell’amico nel secondo dopoguerra, ha sicuramente pagato il debito maturato nei suoi confronti: lo testimoniano, tra l’altro, le intense pagine della biografia benjaminiana, Storia di un’amicizia (Adelphi, 1997), cariche di pathos nostalgico e melanconico. Nel mettere in atto tale «redenzione della memoria» (p. 421) del filosofo, Scholem ha messo in atto anche la redenzione di se stesso, rimanendo fedele alla «bidirezionalità», eredità imprescindibile di Benjamin.
Giovanni Sessa