Esiste un’intercapedine, uno scomodo frammezzo in cui vivono scomodamente coloro che, da posizioni di destra politica, combattono la destra economica neoliberale trionfante. Sul filo di quella lama, in quel passaggio angusto si può esprimere, da parte del pensiero identitario, un giudizio non ostile sutaluni aspetti dei concetti di biopolitica e biopotereintrodotti da pensatori di ultrasinistra. Non c’è dubbio che il potere sia radicalmente cambiato nell’ultimo mezzo secolo e che siamo passati da una società “disciplinare” a un mondo nel quale si è allargata l’idea e la pratica del controllo. Lo comprese per primo Michel Foucault agli albori del fenomeno, negli anni 70 del Novecento. Foucault aprì la strada alla rappresentazione del potere postmoderno tentata successivamente da Gilles Deleuze e Félix Guattari con la teoria dei “mille piani”, di cui è debitore anche il tortuoso percorso intrapreso con esiti incerti da Toni Negri e Michael Hardt in Impero.
Interessanti furono gli studi sulla sessualità del filosofo francese, con la scoperta che essa non ha mai avuto le caratteristiche con le quali la conosciamo oggi. Solo a partire dalla modernità, la sessualità appare come un elemento “intrinseco al sé” tanto da sentire il bisogno di istituire e poi dichiarare una identità sessuale individuale. Secondo Foucault, si tratterebbe di una volontà inedita di potere e sapere indotta dall’alto, giacché la conoscenza, in tutti i suoi aspetti, è il mezzo privilegiato per sorvegliare la gente e controllarla. La fase del potere disciplinare e repressivo ha lasciato spazio a un sistema più funzionale, pervasivo, maggiormente adatto alla società di mercato.
Dopo il Sessantotto, il potere si fa biopotere, ovvero modella corpi, desideri, modalità fondamentali della vita per appropriarsene. Le relazioni di potere non sono mai state tanto verticali, apicali, nonostante la modalità reticolare prodotta della tecnica informatica, instrumentum regni privilegiato del potere globale piramidale. Secondo Gilles Deleuze, la vittoria della società “di controllo”, epifenomeno del dominio neocapitalista, spiega il declino della società civile (nel significato di civis, membro attivo di una comunità), caratterizzata da strutture forti, armatura e spina dorsale della realtà, portatrici di istituzioni e identità solide. Tutte sono entrate in crisi, dalla classe alla Chiesa, dalla famiglia allo Stato. Il crollo di quei muri – per noi, a differenza dei neomarxisti dianzi citati, pilastri fondativi di ogni ordinata comunità – ha determinato la generalizzazione di meccanismi che si diffondono come virus. La logica antica della produzione investe ogni ambito sociale, con movimenti che somigliano all’incedere ondulatorio di un serpente. Come rettili, fanno poco rumore e avvelenano con morsi sottili, oppure avvolgono e soffocano la preda.
Interessante, al proposito, è una riflessione del filosofo Giorgio Agamben, autore di Homo sacer: la sicurezza, come concetto guida della società, si contrappone progressivamente alla legge e alla disciplina come strumento di governo. Fin dai tempi dei fisiocratici (Quesnay, Turgot) non si trattava di prevenire le carestie o di regolamentare la produzione, ma di lasciare che avvenissero per poi governarle e assicurarne gli esiti. E’ lo stesso principio del potere finanziario, che produce crisi periodiche per liberarsi delle scorie e prendere il controllo di nuovi pezzi di economia. I dispositivi della sicurezza (parola mai tanto usata come negli ultimi vent’anni) tendono ad aprire e globalizzare per guidare i processi, a differenza della legge, orientata a prevenire e regolamentare.
La legge fattasi disciplina vuole instaurare un ordine, la sicurezza si limita a governare il disordine. Non è un caso che il termine ordine sia caduto in disuso, abbandonato al lessico di qualche attardato nostalgico. Un’amministrazione controllata del disordine può funzionare se sussiste una certa libertà di circolazione, commercio e iniziativa, dunque entro il perimetro della narrazione liberal liberista. E’ per garantire “sicurezza”, ovvero il caos organizzato e per niente calmo in cui il sistema prospera, che ovunque installano telecamere e sensori. Non possiamo oltrepassare i nuovi muri, i santuari del potere, banche, centri commerciali, stazioni, supermercati di quartiere, senza trovarci di fronte alle nuove dogane. Addetti alla sicurezza, richiesta di documenti, perquisizioni personali da parte di entità private, l’esibizione di infiniti “passi” o card, in attesa dei microchip che faranno alzare miracolosamente la barriera o la terranno definitivamente chiusa.
Ad un potere fintamente plurale, reticolare nella prassi ma verticale nella sostanza, non si possono opporre che forme di resistenza e ribellione plurale. Dinanzi a un dominio sfuggente, “tecnico”, senza luoghi, occorre ripensare due intuizioni di Carl Schmitt. La prima riguarda la definizione del politico come fenomeno polemico e quindi, guerra, sia pure a intensità variabile e non necessariamente armata, con la conseguente distinzione di amico e nemico. Il passo successivo è prendere atto che lo schema diseguale, la differenza immensa di risorse, la sfuggente mobilità degli scenari, porta a una contrapposizione simile a quella descritta nella Teoria del Partigiano. I fronti sono mille, mobilissimi e sempre nuovi; non vi si possono opporre idee, ma anche meccanismi reattivi del passato. Ci vuole un ribelle di tipo nuovo, il partigiano antimondialista del terzo millennio. Anche il centro deve essere mobile, capace di raggiungere una somma cangiante di raccordi e nodi integrabili su capisaldi comuni.
Michael Hardt utilizza una metafora azzeccata: bisogna diventare carovana. La carovana attrae nel suo movimento gente di ogni sorta, nei momenti decisivi può diventare folla, massa critica. Sconcertante, nell’analisi del teorico altermondialista è l’esortazione “a un pellegrinaggio senza meta, in un viaggio di scoperta collettivo e perpetuo.” A noi sembra che questo sia proprio ciò che desidera l’avversario globalista e neoliberale, confrontarsi con un magma senza capo né coda, privo di una direzione, che corre a perdifiato privo di meta. E’ il concetto di moltitudine che Hardt e Negri contrappongono all’impero, ma si tratta della massa di manovra desiderante, materialista sino all’animalizzazione, funzionale al potere degli iperpadroni. Il marxismo, anche nelle sue componenti più dinamiche, mostra sempre il suo limite costitutivo di fratello spurio del liberalismo di cui condivide gli orizzonti. Va tuttavia utilizzato metodologicamente per la sua capacità di individuare le contraddizioni e le finalità di dominio liberalcapitaliste. Dietro il concetto di biopolitica sta l’intero arsenale del nuovo vocabolario politico; pensiamo alle parole con cui Bill Clinton, verso la fine del secolo XX secolo, salutò la decodifica della struttura del DNA umano. Il presidente democratico, progressista e liberal parlò di una nuova frontiera biopolitica. Al netto della tradizione americana, in cui frontiera è il termine utilizzato per giustificare il millenarismo messianico degli USA, era evidente che intendesse segnare il territorio, definire un nuovo orizzonte della politica come volontà di potenza sulla vita. Stava oltrepassando la zona grigia che separa la dimensione pubblica dalla privata, intima di ciascuno.
Corpo biologico e corpo politico iniziavano un processo di fusione destinato a eliminare il confine tra zoé, la materia viva bruta, e bios, la vita consapevole. Il potere, in alleanza con il livello apicale della scienza e della finanza che investe nella ricerca, si appropriava del corpo fisico per farlo oggetto di dominio e rivendicare su di esso diritti di accesso, addirittura di proprietà. La vicenda delle vaccinazioni ne è un episodio. Premesso che alcune sono indispensabili, perché le ricerche sono segrete, perché non sappiamo che cosa ci viene iniettato, obbligatoriamente e sotto pena di sanzioni? Non è soltanto questione dei pur immensi interessi economici di Big Pharma. Abbiamo il diritto di chiederci se siano in corso operazioni di ingegneria antropologica sul nostro corpo, a quali mutamenti eventualmente conducano, a quali logiche rispondano, quale disordine celino. La menzogna troppe volte ha coperto operazioni indicibili. Se i sospetti di molti sono stupide anticaglie o resistenze di complottisti, basta aprire i cassetti e dire la verità.
E’ in atto una potente campagna di spossessamento della vita, nascosta da formule consolatorie, luoghi comuni allettanti ma palesemente infondati, un mondo in cui sembra che non si possa vivere senza seguire i consigli di un esperto ed attenersi a manuali di istruzioni. Hanno scavato tra noi un abisso di estraneità da colmare con apparati sempre nuovi di ingegneria sociale. Ivan Illich usò la felice espressione “istituzionalizzazione del prossimo”, la base operativa per governi (o meglio governance) occhiuti e assertivi quanto asserviti, la vita amministrata da remoto, dall’alto, ma anche accerchiata da ogni lato. Il senso della vita viene fatto coincidere con le modalità del controllo biologico, tecnologico, tecnoscientifico delle popolazioni penetrato nel lavoro, nel linguaggio, nei corpi, nei desideri, nella sessualità. La vita, zoé e bios, è stata catturata da un’armata di competenti, operatori, tecnici, supervisori,consulenti, intenti a un’opera di omogeneizzazione e confezionamento delle nostre esistenze concrete secondo i dettami dei detentori del biopotere. Carl Schmitt non poteva immaginare che la sua definizione di sovrano (colui che decide nello stato d’eccezione) sarebbe stata superata per spostamento, allargamento progressivo degli stati d’eccezione. Spiega Agamben: “[la linea] si sposta in zone via via sempre più ampie della vita sociale, in cui il sovrano entra in simbiosi sempre più intima non solo col giurista, ma anche col medico, con lo scienziato, con l’esperto, col prete”.
Di volta in volta, nei ruoli liquidi e intercambiabili di una società in perenne movimento, diventiamo bisognosi, e poi, paradossalmente, bisognosi dei bisognosi da pedagogizzare, a cui prodigare cure per soddisfarela necessità di occuparci di qualcuno. Non certo per altruismo, ma nell’ambito di un solipsismo radicale che ci rende incuranti dei veri bisogni altrui. Alcuni anni fa, l’industria giapponese inventò il Tamagochi, l’animaletto virtuale che emette suoni e rumori. Il suo proprietario guarda lo schermo, processa la richiesta e agisce di conseguenza. Il tamagochi assolve a due compiti assai importanti per il biopotere: ci permette di “prenderci cura” di qualcosa, acquietando i sensi di colpa dell’individuo-monade, ma soprattutto si lascia possedere! Questo è il livello dell’interesse per il prossimo dell’era biopolitica. L’organizzazione del disordine è pervenuta a tutto ciò attraverso il controllo individualizzato e il mantra della sicurezza separata dall’ordine civile, etico, spirituale. La tecnica sta afferrando ciò che non sembrava alla sua portata, il metafisico, le emozioni, il senso di identità, il libero arbitrio. Ne è prova l’omiciattolo contemporaneo, l’homunculus realizzato della forma di vita sognata dagli alchimisti. Dove avevano fallito i maghi e si era spinta l’immaginazione letteraria di Goethe e di Mary Shelley sta riuscendo il biopotere tecnoscientifico neoliberale: un neo uomo espropriato di sé, insensibile e funzionale, pronto a scambiare la propria umanità con il consumo, la competizione insensata, prono alla volontà di superiori dei quali nemmeno immagina l’esistenza. Per i loro interessi, muove guerre “umanitarie”; per difendere un ridicolo stile di vita da animale domestico si fa forte dei “diritti dell’uomo” di cui è circondato, il disordine organizzato in forma di legge.
Il biopotere e la biopolitica, sistema di dominio privato, ci impongono di interrogarci su un’educazione strumentalizzata e ridotta a addestramento, sull’onnipotente sistema di intrattenimento e condizionamento sovraccarico di immagini, parole, emozioni banalizzate. Il biopotere, infine, è un efficientissimo apparato antropotecnico il cui obiettivo è la regressione dell’umanità allo stato animale. Da creatura di Dio a individuo, da soggetto a oggetto, infine codice a barre più un cartellino contenente i nostri dati nella filiera post umana: animali d’allevamento. Rinchiusi in stalle igienizzate, sottoposti a un regime alimentare e sanitario deciso da un’equipe di esperti al servizio del mercato, senza una normale vita sessuale. Anche la riproduzione è tecnica, asettica, con provette e siringhe, in tutta sicurezza. Sicurezza, il surrogato dell’ordine nell’era del biopotere.
ROBERTO PECCHIOLI