Guardiamoci e guardateci.
Nessuno faccia il viso spaurito, nessuno abbassi gli occhi con falsa compunzione tremante. Ai conigli e ai coccodrilli, come alle bagasce, noi sputiamo sul muso.
(articolo su “L’Assalto” del 1° dicembre 1920)
Pur dopo una così terribile strage, i fascisti bolognesi intendono proseguire per la loro strada, decisi a sfruttare insieme le simpatie dalle quali cominciano a sentirsi circondati e lo smarrimento degli avversari.
Lo faranno con tre articoli del loro giornale e con la partecipazione, in prima fila, a due episodi della guerra civile che si va sempre più consistentemente profilando, nelle vicine Ferrara e Modena.
Comincia “L’Assalto”, che, a partire dal 1° dicembre, in tre numeri, esaurisce gli obblighi di presentazione agli avversari, alla pubblica opinione, ed ai simpatizzanti ancora incerti.
Con “Giovinezza di tutta la provincia rossa: a noi !!!” pubblicato sul numero 2 del giornale, una decina di giorni dopo i fatti di Palazzo d’Accursio, ad essere presi di mira sono i socialisti:
Guardiamoci e guardateci.
Nessuno faccia il viso spaurito, nessuno abbassi gli occhi con falsa compunzione tremante. Ai conigli e ai coccodrilli, come alle bagasce, noi sputiamo sul muso. La giovinezza fascista è qui, tutta severa, tutta vigilante, tutta fieramente diritta – oggi più di ieri – e con tutta la voce dei suoi mille e mille petti gagliardi grida ancora una volta la sua squillante adunata: “A noi!”. È la voce romantica della libertà quattrocentesca conquistata dai nostri nonni carbonari.
(…..)
Lontano canaglie. Non ci toccate. Voi predicaste ieri la guerra civile, la rivolta armata, la dittatura e la tirannia delle classi, l’instaurazione di un regime antisociale ed antiumano che voleva fare del nostro Paese una grigia e immiserita e funeraria landa dove voi, corvi, avreste potuto satollare tutte le vostre incomposte libidini di paranoici e mentecatti. Ebbene, noi fascisti abbiamo raccolto la vostra sfida. Ed eccoci qui. Qui da soli. Noi con voi. A fare la rivoluzione. Dove sono i vostri sicari che attendono di giorno e di notte all’imboscata? Dove sono i Danton, i Robespierre, i Carnet, i capi comunardi e gli strateghi dei vostri eserciti rossi?
Li abbiamo veduti scappare, in mille contro venti, i vostri Enjolras vittorughiani, i vostri petrolieri, i vostri terroristi delle settimane rosse di tutto il mondo. Li abbiamo veduti, resi pazzi ed incoscienti dal terrore, i vostri arditi lanciabombe, fare un’orribile strage dei vostri, di tutti i vostri. Lontano da noi. Non ci toccate. Risparmiateci la fatica di sputarvi sul viso deforme! A soldati coraggiosi e leali, gente che non scappa, ad uomini modesti ed onesti che sanno morire, come sapevano pur morire i vostri padri comunardi e giacobini, noi, e con noi tutta la giovinezza fascista, potremmo concedere cavallerescamente l’onore delle armi. Da pari a pari. Ma oggi, con voi, no. Lontano. Non ci toccate. (1)
Ma non è finita. Occorre chiudere il cerchio, con due attacchi, decisi e violenti, come nello stile del giornale, prima alla borghesia e poi agli agrari.
Sul numero 3, che va in edicola l’11 dicembre, l’articolo di fondo, che occupa quasi tutta la prima pagina, ha un titolo che lascia pochi dubbi: “Contro i bolscevichi e contro i pescecani”.
L’obiettivo principale sono questa volta i borghesi (e, in specie, gli arricchiti di guerra, i cosiddetti “pescecani”), contro i quali viene fatta promessa di battaglia “fino alla morte”, perché espressione di quella “falsa borghesia” che, con il “falso proletariato” sta portando alla rovina l’Italia. L’incipit è veramente fulminante:
Ci hanno raccontato che giorni or sono, mentre noi fascisti passavamo in colonna serrata, facendo del battito del nostro cuore un tacito ritornello alle nostre canzoni, un pescecane classico, tutto sbandato all’indietro per lo strapiombante peso di una pancia troppo gonfia di imbecillità e di sterco, abbia esclamato, attraverso un giocondo strizzare di occhi porcini: “Io, ai fascisti farei un monumento…”
Se noi fascisti l’avessimo udito, gli avremmo certo piantato, nel bel mezzo della sua faccia di mollusco viscido, uno sputo rotondo, uno di quei brevettati sputi fascisti di cui già onorammo i connotati sparuti e sbilenchi del Prof. Avv. Fovel, l’innocuo tartarinesco Rabagas, non appena uscì, come le talpe in cerca di sole, dalla sua tana in via dei Mille.
E adesso eccoci qua, noi fascisti, a parlarci alto e chiaro. (2)
Con ogni probabilità, questo articolo, come il citato precedente sul numero 2 del giornale, è da attribuire a Dino Grandi che si fa interprete così delle idee e delle aspirazioni della gioventù che viene dal fronte, e che si sente lontana dai neutralisti del ’15, ma anche dai profittatori che non vogliono riconoscere agli ex combattenti i diritti che essi reclamano, soprattutto in virtù delle promesse fatte in trincea.
Si può dire che identico è, nel numero successivo, l’approccio a quelli che pure i fascisti sentono come nemici, forse più pericolosi degli stessi socialisti, perchè insinuanti e poco propensi ad uscire allo scoperto. Sono gli agrari, ai quali già nel titolo dell’articolo, per non lasciare dubbi, vengono promessi “due cazzotti”:
Gli agrari fanno oro l’occhiolino dolce ai fascisti, li chiamano “cari ragazzi”, e poi, piano piano, attraverso un’abbondanza di sorrisi, ed un risalto di coccarde appariscenti sì e no, vogliono persuadere noi, dico noi, fascisti, che la lotta agraria è stata soltanto un episodio di disonestà e di tirannia proletaria.
Gli agrari, rannicchiati nelle loro comode ed eleganti tane, pretenderebbero oggi di trasformarci in sicari a difesa dei loro interessi e della loro vigliaccheria.
(…..)
Questo perché la borghesia terriera, a differenza della borghesia industriale, la quale non conta più di cinquant’anni di vita, essendo nella quasi totalità una borghesia ereditaria, è anche una borghesia zuccona, avara, imbecille, taccagna e vilissima, cioè tutto fuorchè borghesia.
(…..)
Noi fascisti non muoveremo un dito per salvare la sua traballante carcassa. (3)
L’articolo è importante anche perché nel finale accenna ad un nuovo “sindacalismo degli operai della terra”, che gli uomini di Arpinati si impegnano a favorire e proteggere, inaugurando quella sindacalizzazione fascista dei rurali che proprio in Emilia, e nel Ferrarese in maniera speciale, avrà sviluppi imprevisti forse per gli stessi organizzatori.
La chiave del successo sta nella stanchezza dei contadini, dopo due anni di tirannia di Leghe e Sindacati, nell’ammirazione per lo spavaldo coraggio degli uomini in camicia nera, che fa venire fuori la vigliaccheria dei prepotenti di ieri, nell’efficacia dell’azione dei primi organizzatori, che spesso dal sindacalismo rivoluzionario provengono, e nella credibilità di un discorso che, per esempio sempre nello stesso articolo, arriva a dire: “Ai servi della gleba, che esistono ancora, malgrado tutti i bugiardi riformismi e tutti i cataplasmi democratici, noi andiamo incontro agitando il nostro orifiamma di liberazione”.
Il giornale, comunque, non trascura i riferimenti alla realtà quotidiana, nella quale sempre più vanno prendendo corpo le azioni fasciste.
Sì è detto già di come il grave episodio di palazzo D’Accursio sia stato sostanzialmente trattato da “L’Assalto” in maniera marginale (contro le dettagliate cronache di tutta la stampa). Va aggiunto che, nello stesso modo, sul numero successivo, viene riferito di un’altra azione squadrista fuori Bologna, che può considerarsi veramente la prima “uscita” delle squadre.
A Castel San Pietro le elezioni del 24 ottobre avevano confermato l’Amministrazione socialista, con il consueto contorno delle piccole prepotenze ai danni degli avversari, ma con la novità che stavolta, ad essere preso di mira era stato, tra gli altri, Augusto Alvisi, noto esponente fascista.
La cosa non può essere fatta passare sotto silenzio, se non altro per rispettare la regola, spesso citata dagli arpinatiani, del “dente per dente, occhio per occhio”, che, nel caso specifico, dà origine ad una spedizione sul paese, il 6 dicembre, di un centinaio di uomini montati su quattro camions e quattro automobili.
Alla fine risulteranno devastate la Camera del Lavoro, la Cooperativa birocciai, la sede delle Leghe e verranno asportati bandiere e quadri dal Municipio, mentre resteranno feriti da bastonate alcuni sovversivi.
Il subbuglio in paese è grande, ma l’azione fascista molto favorevolmente impressiona quanti fino allora hanno dovuto subire in silenzio. Alla Commissione Parlamentare verrà raccontato che, nel corso dell’assemblea subito convocata per protesta dalle Leghe in sede, per dimostrare il vandalismo degli avversari, un contadino che qualche mese prima aveva subito un trattamento analogo per il suo comportamento giudicato antisindacale, indicando mobili distrutti e scrivanie ribaltate, se ne esce (in dialetto) con una frase che tradotta dice più o meno “Sembra proprio di vedere la mia biroccia quando me la rovesciaste nel fosso coi pomodori”.
L’azione delle squadre fasciste, capitanate da Gino Baroncini, ha un epilogo destinato a diventare classico per le future spedizioni squadriste in molte parti d’ Italia: il materiale “predato” viene portato a Bologna e bruciato in piazza, di fronte ad una folta folla festante.
Azione certamente eclatante ed impensabile solo due mesi prima, ma che – nello stile sobrio che Arpinati, il “silenzioso operante”, sta imponendo al suo Fascio – viene riassunta in un breve comunicato (probabilmente, sotto forma di volantino, anche distribuito alla cittadinanza) che rivendica l’azione “per un bisogno incoercibile di libertà e giustizia” contro le prepotenze dei locali dirigenti rossi, e conclude, perchè non ci siano dubbi: “PRONTI AD UCCIDERE, PRONTI A MORIRE”.
In questa ottica, la necessità di fare fronte comune contro un nemico di forza enormemente superiore, porta a rinsaldare i vincoli di solidarietà cameratesca tra Fasci vicini.
Si comincia a Ferrara, dove a capo degli squadristi c’è Olao Giaggioli, valoroso Ufficiale in guerra, decorato con quattro medaglie d’argento, antisocialista fervente, ma per nulla disposto a farsi strumentalizzare dai padroni dell’Agraria. È lui che organizza, in occasione delle elezioni amministrative, la prima dimostrazione di forza, con una ronda volante presso i seggi, per evitare la ripetizione delle violenze dell’anno prima, quando le cabine elettorali sono stati presidiate dai socialisti, che hanno coartato in tutti i modi la libera espressione di voto di quanti ritenevano potenziali avversari.
Ma il peggio deve ancora venire.
In città, il contemporaneo svolgimento, il 20 dicembre, di due manifestazioni che, da una parte vogliono ricordare Giulio Giordani, e dall’altra esprimere sdegno per l’aggressione bolognese all’Onorevole Niccolai, Deputato del collegio Ferrara-Rovigo, dà luogo a incidenti molto gravi, anche con il coinvolgimento di squadristi bolognesi.
Infatti, in piazza, con i Ferraresi, ci sono pure una cinquantina di petroniani, venuti a rendere il favore ai camerati locali che erano stati presenti, in una ventina, a Bologna.
Anche in questo caso come nel capoluogo il 21 novembre, l’Autorità media, trovando, alla fine, una soluzione che sembra accontentare tutti. I socialisti manifesteranno all’interno del Teatro Comunale, mentre i fascisti non si muoveranno dalla loro sede di corso Giovecca.
Ancora una volta, però, qualcuno non sta ai patti: i socialisti, per raggiungere il Teatro, fanno volontariamente ed ostentatamente lunghi giri in città, sventolando le rosse bandiere di fronte alla numerosa folla che riempie le strade, trattandosi di giorno di mercato, con la presenza, quindi, anche di molti provenienti dal contado.
Cittadini inviperiti corrono allora ad avvisare i fascisti, riuniti nella loro sede, che, verso le 14, in numero di 300 circa, escono inquadrati per raggiungere il Castello. La situazione così precipita, per il casuale incontro tra le squadre fasciste e un folto gruppo di manifestanti (sono infermieri del locale ospedale) che, forse in ritardo, ma con bandierone rosso, stanno raggiungendo il loro luogo di raduno.
E succede l’irreparabile. Contro gli squadristi che occupano il centro della strada, viene aperto contemporaneamente il fuoco dai manifestanti che si sono rifugiati sotto i portici e da cecchini appostati sul terrazzo del Castello che è anche sede dell’Amministrazione comunale. Pure qui, come a Bologna, la complicità del Sindaco e degli amministratori è evidente. Sono loro che hanno consentito l’accesso ad uomini armati in un luogo che avrebbe dovuto essere adeguatamente sorvegliato.
Questa volta, fortunatamente, non c’è lancio di bombe sulla strada, ma i fascisti, bersagliati da più parti, hanno tre morti. Con loro, cade anche un infermiere, sindacalmente “organizzato”, ma estraneo ai fatti, tanto che i genitori, qualche giorno vorranno (e il Fascio acconsentirà alla richiesta) che il suo funerale si svolga insieme a quello delle vittime fasciste, che sono: Franco Gozzi, Giorgio Pagnoni e Natalino Magnani.
Solo l’intervento della Forza Pubblica, che provoca la fuga dei cecchini così ben riparati, e quindi in grado di fare altri danni, evita un numero maggiore di caduti, anche se sul terreno restano alcune decine di feriti, quasi tutti di parte fascista.
Magnani appartiene al Fascio bolognese, che lo commemora, insieme agli altri, con severa compostezza:
Ieri a Ferrara anche noi fascisti abbiamo avuto i nostri morti
I fascisti, abituati a combattere e ad andare incontro ai propri nemici a viso aperto, nelle strade e sulle piazze, sono stati presi all’imboscata dai bolscevichi asserragliati e nascosti dietro le inferriate del Castello di Ferrara.
Non piangiamo.
Non protestiamo.
I nostri fratelli caduti non sono i primi e non saranno gli ultimi.
Alla guerra si va soprattutto pronti a morire.
Sulle loro salme insanguinate, tutti i fascisti d’Italia, presentando le armi, rinnovano il loro giuramento.
Ancora più fermo.
Ancora più solenne. (4)
Comincia da questo episodio, anche a Ferrara, la fine del predominio rosso. Giacomo Matteotti, che arriverà a gennaio, per assumere il controllo del movimento socialista, decimato dalla latitanza dei dirigenti, inquisiti per i fatti del Castello, dovrà andare in giro, in un clima di grande ostilità, circondato da guardie rosse armate di bastone.
Di contro, aumentano le adesioni al Fascio. In questo periodo viene maturando la decisione di Italo Balbo di iscriversi alle schiere mussoliniane. “Interventista intervenuto”, decorato con due medaglie d’argento e una di bronzo, beffardo protagonista di audacie guerresche tra gli Alpini, “pizzo di ferro” – come lo chiamano i suoi uomini – porta al fascismo ferrarese il contributo decisivo del suo indubbio carisma di capo ed organizzatore, che ne farà, nei mesi successivi, uno dei principali protagonisti sulla scena squadrista propriamente detta, non sempre “in linea” con le direttive milanesi, talvolta contestato anche nella sua Ferrara, ma sempre, sicuramente, vicino al cuore ed al sentimento della base attivistica.
Sostanzialmente simile lo svolgimento dei fatti a Modena. Qui, il 24 gennaio, durante i funerali di un fascista caduto due giorni prima, il diciannovenne legionario fiumano Mario Ruini, guardie rosse appostate nell’edificio della Posta centrale aprono improvvisamente il fuoco contro il corteo funebre, nel quale è inquadrata anche una folta rappresentanza bolognese.
La fucileria colpisce la colonna, composta anche da donne e ragazzi, e fa due morti: il diciannovenne nazionalista Orlando Antonimi e il ventenne fascista bolognese Augusto Baccolini.
Ancora una volta inadeguata appare l’azione delle forze dell’ordine, incapaci di prevenire la delittuosa azione socialcomunista.
Lo rileva una fonte competente, Umberto Baccolini, Tenente dei Carabinieri e fratello di uno dei caduti, in una lettera indirizza al Comando del Battaglione Mobile Carabinieri Reali di Bologna:
Dopo l’assassinio politico vilmente compiuto nella persona di mio fratello Augusto, dopo che i Prefetti di Bologna e Modena hanno dimostrato, nel concedere il permesso di onorarne degnamente la salma, una titubanza che io reputo immorale, ho ripugnanza a servire, nel presente momento, il Governo d’Italia asservito… alla parte più turbolenta e incivile del nostro povero Paese
Rassegno, quindi, con la presente, le mie dimissioni, e prego di darvi sollecito corso essendo mio fermo proposito svolgere attivamente quella opera di cittadino per la quale mi occorre libertà di pensiero e di azione (5)
Contemporaneamente, l’ormai ex Tenente chiede l’iscrizione al Fascio bolognese:
Sul cadavere del mio povero fratello Augusto, del quale voglio raccogliere intera l’eredità morale, ho, senza teatralità, ma con animo fermo, incrollabilmente fermo, tacitamente giurato di prendere il posto di combattimento che non deve rimanere vuoto e che spero mi venga riservato di diritto
La presente valga quindi come domanda di ammissione al fascio di combattimento, del quale condivido la fede ed approvo il programma, e fra le cui fila mi parrà di ritrovare interamente la personalità del povero morto. (6)
La domanda viene accolta e Baccolini diventa uno dei più attivi dirigenti del Fascio bolognese, fino ad assumere la carica di Segretario Federale e di Comandante della Colonna di città alla Marcia.
A Modena, alla testa del corteo fascista c’è Arpinati, accompagnato dalla futura moglie e dalla cognata. La ricostruzione fatta dalla figlia, nell’affettuosa biografia dedicata al padre, ci aiuta a capire lo spirito e i modi della presenza fascista a quella che era solo una cerimonia funebre:
Non pensavano dovesse accadere niente, tanto è vero che erano accompagnati dalle mogli, dalle fidanzate, dalle madri…il papà aveva con sé la nonna e la zia Dalia. Dall’edificio della Posta centrale si aprì il fuoco contro il corteo e caddero due fascisti, Antonimi e Baccolini, e mio padre fu ferito ad una caviglia. Affidò la fidanzata e la cognatina ad un conoscente, e con i suoi si gettò avanti, correndo “a zoppo galletto”, ma ormai il palazzo della Posta era deserto e, anche per tutto il tragitto fino all’Ospedale, non gli riuscì di incontrare anima viva. La ricerca della mamma fu molto laboriosa: mi raccontano che il papà girò per tutta Modena, dicendo: “Ma dove saranno andate a finire quelle due ragazze? Che cosa dico stasera al padre? (7)
Anche il ferimento non è cosa che può fermare, comunque, l’azione di Arpinati e dei suoi uomini nella loro città. Anzi essa prosegue e si intensifica, ormai inarrestabile.
In genere, le loro prime azioni ritorsive si rivolgono – quasi in un rito liberatorio – verso gli odiati prepotenti di ieri: dopo i fischi a Bombacci e Graziadei al caffè Firenze, il 18 dicembre tocca, in due azioni separate, ai due Deputati socialisti Niccolai e Bentini avvocati difensori degli imputati per le violenze (che hanno colpito anche il parroco) avvenute a Trebbio a luglio.
Il primo, che è sfuggito al servizio di sorveglianza predisposto dal Questore fuori dal Tribunale, viene ferito con bastonate al capo, mentre il secondo, protetto dagli agenti, non riporta alcun danno.
Il 19 tocca a Francesco Misiano, l’odiatissimo disertore di guerra, che, affrontato da uno sconosciuto che gli chiede se è proprio lui il disertore Misiano, invano oppone ripetuti dinieghi, che non lo salvano, però, da sputi e improperi.
Il 21 gennaio sarà Zanardi, Sindaco della città dal 1914 al 1919, ad essere fatto oggetto di quella che ironicamente gli squadristi definiscono una “dimostrazione di simpatia” che, mai come in questo caso, riscuote il particolare plauso dei presenti, memori del passato, vergato da prepotenze, del vecchio amministratore.
Ironica, ma nemmeno tanto, la conclusione del racconto che “L’Assalto” fa dell’episodio: “Ha dunque capito l’On. Zanardi che a Bologna non spira più aria per lui?”
Fatti che, visti con l’ottica di oggi, appaiono gravi, ma che, nel clima agitato (e sanguinoso) di quei mesi forse tali non sembrano. I responsabili del Fascio, convocati dalla “Commissione Parlamentare di inchiesta sui fatti avvenuti a Bologna”, ripetutamente definiranno l’aggressione a Niccolai e Bentini (che ha provocato la nomina della stessa Commissione) “insignificante”, e forse molti bolognesi saranno d’accordo con loro, vedendola quasi come un atto di giustizia, prima manifestazione di quella che, con queste iniziali esuberanze, appare nient’altro che “una sortita di un esercito assediato”.
Buon ultimo, anche il – fino ad allora – temutissimo Ercole Bucco, capisce che la musica è cambiata. Lui, che prima girava per Bologna su una fiammante vettura rossa, proprietà della Camera del Lavoro, ritiene più prudente lasciare la città, facendosi portare in stazione da una autolettiga scortata dai Carabinieri.
Le cronache riferiranno poi che, rientrato nei primi giorni di maggio dell’anno dopo, si recherà alla sede del Fascio, dove, in un colloquio con Arpinati, riconoscerà i suoi errori di comportamento la notte del 4 novembre del 1920, ed ammetterà di essere un “estremista senza coraggio”.
Neppure il più capace di immaginazione dei quindici che il 9 aprile di due anni prima si erano riuniti, in un clima quasi carbonaro, per fondare il Fascio, alla presenza di Ferruccio Vecchi arrivato da Milano, lo avrebbe mai immaginato…
FOTO NR. 5: l’auto con mitragliatrice degli squadristi bolognesi
FOTO NR. 6: squadristi bolognesi in marcia
NOTE
- “L’Assalto”, numero 2 dell’1° dicembre 1920: “Giovinezza di tutta la provincia rossa, a noi!”, in prima pagina
- “L’Assalto”, numero 3 dell’11 dicembre 1920: “Il nostro posto”, in prima pagina
- “L’Assalto”, numero 4 del 21 dicembre 1920: “Due cazzotti agli agrari”, in terza pagina
- Ibidem
- “L’Assalto”, numero 5 del 5 febbraio 1921: “Un nuovo fascista”, in quarta pagina
- Ibidem
- Giancarla Cantamessa Arpinati, Arpinati mio padre, Roma 1968, pag. 42