Ha simpatia per il freddo. Sembra quasi che lo vada cercando. Strano. E’ nato in un paese cantato nei secoli per il suo clima e le spiagge ridenti e l’azzurro intenso del cielo e del mare, in quella città dal fascino inconfondibile dove il poeta latino Orazio si rivolgeva al sole – ‘alme Sol possis nihil urbe Roma visere maius’, gli torna a mente il verso, reminiscenza del suo professore di latino al liceo, un po’ trombone, quando, levatosi in piedi dietro la cattedra, la voce vibrante, recitava ampi stralci del Carmen Saeculare – perché riconoscesse come non vi fosse al mondo niente di più maestoso. ‘Wie heisst Du?’
Poche frasi, storpiate, è il suo primo approccio con la lingua tedesca. E’ disteso sulla sabbia e tenta di comunicare con una ragazza bionda ed esile. Sedici anni entrambi. La sera, poi, passeggiando mano nella mano, il primo bacio a labbra strette, protetti dalle cabine, il tentativo timido e maldestro di accarezzarle il piccolo seno e le cosce magre.
‘Auf Wiedersehen…’, in effetti un addio. Lei parte il giorno dopo.
La Germania che tanto lo attrae nasce sulla costa romagnola. Tra gli ombrelloni gli asciugamani variopinti i pattini bianchi e il juke-box che sforna a ritmo continuo il gettonato Sapore di sale di Gino Paoli. Poi verrà la notte di Valpurga la Norimberga dalle ‘cattedrali di luce’, come la definiva il poeta Brasillach, Il Trionfo della volontà della regista Leni Riefenstahl il passo cadenzato di milioni di uomini in feldgrau e il bunker tra le rovine di una spettrale Berlino. Finis Europae…
Ora, in questa mattina di autunno inoltrato, soffia sulle mani strette a pugno. Cerca un po’ di calore. Periferia di Francoforte. Gli alberi protendono i rami scheletrici sul bordo della strada, avvolti da un sottile strato di nebbia, trasudanti umidità pioggia spruzzi di neve.
‘Solita scelta sfigata per arrampicarmi nel bosco’, si dice.
In fondo, però, è felice. La felicità d’essere solo e libero. Come un lupo, disperso il branco, che torna là dove è la sua natura a condurlo. Ancora un libro dell’infanzia trasognante e spensierata, Jack London Il richiamo della foresta. E gli viene a mente il Trattato del ribelle di Ernst Juenger. A volte le parole riescono a tradurre gli stati d’animo e le situazioni e il variegato mondo delle emozioni e, cosa rara e difficile, la condizione reale dell’esistenza. La sua, ad esempio.
Il termometro è sceso sotto zero.
Una strada asfaltata, con ampie curve, sale pigra fino in cima al monte Taunus. Non si tratta di una vera montagna; un rilievo che si estende ad est del Reno e raggiunge il basso corso del Meno. In automobile è una passeggiata domenicale e, nel piazzale dove si ammira il paesaggio sottostante – fino ai vigneti bassi e fitti che si affacciano sul fiume -, c’è una Gaststaette riscaldata che offre birra Henninger e panini.
Vi sono, però, anche diversi sentieri contrassegnati da cerchi e quadrati bianchi e rossi – i colori della municipalità di Francoforte, orgogliosa d’essere stata tanto a lungo, per circa cinque secoli ‘libera città imperiale’(1372) e, successivamente, dopo il Congresso di Vienna fino alla sua annessione al Regno di Prussia (1866) – su pietre e tronchi. Il terreno è scivoloso, i piedi affondano nel fango su strati di foglie marce. Qua e là macchie di neve. C’è una atmosfera da fiaba, di gnomi nascostisi in qualche anfratto, di elfi addormentati in attesa della stagione primaverile.
Silenzio. Armonie. Visioni.
Mario ritrova il gusto del camminare della solitudine della montagna. Fa parte della sua pelle; gli è entrato dentro e l’ha avvinto. Riemergono vivide le immagini di quelle notti intorno al fuoco, con i camerati fedeli, ad attendere l’alba. Il solstizio d’inverno sui monti Lepini. Il cerchio sacro, le braccia dietro la schiena, rigidi e assorti, levando il canto: ‘Ascolta il ruscello che sgorga lassù…’.
Nostalgia? L’animo si spaura, un momento di esitazione… al contempo, però, respira la presenza del mistero, di forze magiche e arcane, di qualcosa che vibra con il vento fra i rami. Si sente spoglio di troppi pensieri, inutili, di riflessioni simili a gabbie, in un processo immediato di identificazione ove il Tutto in energia musica colori non dà né chiede un nome e dove le singole parti vi si compenetrano. Ed egli è…
‘Vedi, perché temere di rompere gli argini imposti dalla ragione?’.
Quel vecchio professore riprendeva fiato sulla panchina al Colle Oppio, dopo essersi fatto trascinare da una coppia di aristocratici levrieri afghani. E amava chiacchierare con sua zia Ada e lui, ragazzetto inquieto e insofferente. E raccontava loro dei viaggi in terre lontane ed esotiche, fra le montagne e i picchi e i sentieri impervi e laghi ove il cielo si specchiava e vi si confondeva. Il Tibet ignoto.
‘Quante pretese ci facciamo intorno alla natura dell’uomo. E troppe domande’.
Poi, folgorante, seguiva la risposta, rimaneva lì, sospesa, in attesa paziente d’essere compresa, si rendesse viva.
‘L’uomo… ‒ e come se cercasse le parole, quelle più vere e più giuste e belle, in una pausa carica d’effetto – è soprattutto l’immenso tumulto dell’irrazionale da cui salgono improvvise le fantasie e le immaginazioni, dove egli ritrova se stesso e abbraccia l’infinito’.
Era Giuseppe Tucci, l’ho saputo dopo, che Giovanni Gentile aveva posto alla guida dell’I.S.M.E.O., voluto dal filosofo per aprire l’Italia alla conoscenza della cultura e delle lingue dell’Asia, e che divenne fra i maggiori studiosi soprattutto del Tibet con viaggi in quel paese, rimasti leggendari.
Coinvolto, prigioniero quasi, in questa atmosfera egli non vede più i segnali del sentiero prescelto, continuando il cammino verso l’alto, quella la meta iniziale, ma dove sia l’uscita dal bosco non ne ha più idea. Intanto la nebbia s’è fatta più fitta e ogni dove grigio e triste. Dagli scarponi sale umido e freddo.
‘Ed ora?’, si chiede.
Non ha paura, forse solo uno strato sottile di ansia, la delusione di essersi perduto e di non darsi mai a compimento quanto sorto in lui di emozioni e sentimenti. Sentirsi un fallito? Beh, non esageriamo… Eppure v’è in lui qualcosa d’irrisolto, d’inappagato. Come il cuore di un amante tradito. Del suo eroe, il Cyrano de Bergerac, il guascone dal grande naso e dalla spada abile e ardita, nascosto sotto il balcone di Rossana…
Prossimo a Drieu la Rochelle, lo scrittore francese, che aveva aderito al Fascismo per ‘misurare’ le proprie forze, reagire alla decadenza dell’Europa e alla inquietudine del suo animo.
’15 marzo 1945, dopo aver aperto il rubinetto del gas, ingoia un flacone di pasticche di Gardenal. Sulla sua scrivania una copia aperta delle Upanishad’.
Cita quasi a memoria la conclusione di un libricino, letto quando era ancora in Italia, che tanto lo aveva colpito da comprarsi la traduzione dei testi indiani. Romanticismo fascista? Forse qualcosa di più e di diverso. Stoicismo, pensa.
Gli dei, quelli delle fonti delle foreste del lupo delle notti gelide e del pallido sole, si sono ritratti all’avanzare di un nuovo dio straniero geloso ed esclusivo e in questi luoghi hanno trovato rifugio nascondendosi alla vista degli uomini, gli dimostrano la loro benevolenza.
‘Gruess Gott!’.
Come dal nulla si trova accanto un vecchio signore, dal cappello feldgrau a visiera, gli occhialetti rotondi, il naso aquilino, un po’ curvo ma dal passo sicuro. Egli conosce il percorso, si muove lesto. Ha familiarità con lo spazio. Gli appartiene?
Ecco di fronte la piazzola il parcheggio delle automobili la finta baita con le insegne luminose il vocio il motore acceso, insomma tutti i segni della ‘Zivilisation’, la sua malattia. Arrivare presto e bene alla meta non conoscere il riposo meditativo della sosta gli occhi impotenti a raccogliere il particolare senza il quale l’universale risulta vago e spettrale nella sua nudità.
Si volge per ringraziare. Nessuno più gli è accanto. Al confine di due mondi.
Il locale è ben riscaldato fumoso i tavoli già quasi tutti occupati. Ordina una birra, lo disseta, gli rinfresca la gola e, al contempo, distribuisce dentro un piacevole calore. Il panino lo tradisce, mollicoso con la fettina di prosciutto secca. Esce. S’incammina, questa volta, costeggiando l’asfalto della strada.
Il giorno di festa va consumandosi. La montagna l’ha accolto; ora egli la rinnega e si immerge di nuovo nella vita della città. O, meglio, la montagna, nella sua eternità, lo attende paziente…