“Romagna solatia,dolce paese
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator Cortese,
re della strada, re della foresta”
Con questi notissimi versi, che concludono la poesia “Romagna”, Giovanni Pascoli romagnolo verace, ha costruito, forse involontariamente, la leggenda del “Passator cortese”, il mito del brigante spietato e crudele con i ricchi ma altrettanto generoso con i poveri. Infatti è proprio a questa poesia e al poeta che la cantò che Stefano Pelloni, in arte Passatore, deve gran parte della sua notorietà, poichè queste rime sui banchi di scuola le abbiamo imparate tutti a menadito, magari abbiamo dimenticato chi fossero i Guidi e i Malatesta, ma le immagini del Passatore e della “azzurra vision di San Marino” difficilmente sono state cancellate dalla nostra memoria.
In romagna il mito del passatore era ancora vivo quando Pascoli da fanciullo, nelle lunghe serate invernali, seduto davanti al caminetto avrà sentito gli anziani raccontarne le avventure, le sue clamorose imprese, i suoi delitti, le sue gesta, le sue astuzie e la sua generosità. Il Passatore fu un autentico protagonista del suo tempo, amato e odiato, rispettato e temuto, il suo cappellaccio, la sua barba nera e il micidiale schioppo ne fecero l’emblema della Romagna. C’è chi giura, ancora oggi, che fosse un ragazzo bello e affascinante, dallo sguardo accattivante e dai profondi occhi scuri.
Ma chi era veramente questo Passatore? Certamente per quanto riguarda il nord è stato il più noto brigante che abbia movimentato la cronaca di quel periodo, siamo a metà del 1800 quando raggiunse l’apice della notorietà.
È chiaro che se la gente ne parla ancora, se la sua immagine compare sull’etichetta di un vino pregiato, significa che le sue vicende hanno colpito la fantasia del popolo, ma in realtà Stefano Pelloni fu lui stesso un prepotente, che usava spesso l’arroganza, che compì crudeli vendette e che perseguì con feroce accanimento e freddezza le persone che gli si opponevano o cercavano di contrastarlo.
Non starò ad elencare tutte le rapine e le razzie che compì nel corso della sua carriera, furono molteplici e ne ricavò un bel bottino. Ad ogni impresa il maltolto veniva in parte diviso fra i briganti, una porzione era destinata ai fiancheggiatori, alle “coperture” o alle persone che avevano dato le “dritte” , e il resto veniva nascosto nel bosco, seppellito in punti precisi che conoscevano solo il Passatore e i suoi più fidati gregari.
A quei tempi la Romagna era ben lontana da quella che conosciamo oggi fatta di spiagge di velluto e di estati spensierate, allora al mare non ci andava nessuno e l’acqua serviva soltanto a ricavare il sale dalle saline di Cervia o a sfamare qualche famiglia di pescatori. Molte zone in provincia di Ravenna erano ancora coperte da acquitrini malsani e la popolazione moriva di malaria. La romagna tutta era da circa tre secoli, sotto il dominio dello stato pontificio, tolta la parentesi napoleonica, che non aveva di certo migliorato le condizioni della popolazione, le terre erano sempre state dominio dei Papi. Non esisteva libertà di stampa, né tanto meno di pensiero, nei paesi più piccoli erano i parroci a farla da padroni e la povera gente ravvisava nelle tirannie che subiva, il rappresentante diretto del despota che stava a Roma. Si spiega anche con questo l’insorgenza di un forte sentimento anticlericale che ancora permane nella gente di romagna. In seguito non a caso la Romagna divenne il primo focolaio dell’idea repubblicana, e sempre non a caso si tenne proprio a Rimini il secondo congresso degli anarchici italiani, nel maggio del 1872 durante il quale si mise in luce il giovane imolese Andrea Costa.
Stefano Pelloni dunque crebbe in un contesto di malcontento generale, era nato il 4 agosto del 1824 ultimo di dieci figli. Il padre possedeva un piccolo podere con casa e stalla e guadagnava benino avendo in concessione il diritto di traghettare su una zattera i passeggeri da una parte all’altra del fiume Lamone. Da questa attività , ereditata in famiglia da generazioni, derivò a Stefano Pelloni il nomignolo di Passatore, appellativo che era già del padre e che non lo abbandonò mai.
Fin da piccolo fu astuto e disubbidiente, un carattere inquieto. Dotato di un’agilità sorprendente, nelle liti fra compagni primeggiava sempre per forza o per astuzia. Non aveva paura di nessuno ed era anche capace di mentire al momento giusto. Il padre disperato per i suoi comportamenti violenti decise di allontanarlo da casa, per farlo studiare, ma senza successo alcuno.
Ancora giovanissimo il Passatore, si trovò coinvolto in quello che oggi verrebbe definito un “omicidio colposo”, pare che durante una rissa, scagliando una pietra verso il suo avversario colpisse invece una donna incinta che, per conseguenza, prima perse il bambino e poi morì a causa di un’infezione. Accusato di omicidio e tratto in arresto fu condannato a tre anni di carcere. Evaso, si dette alla macchia e iniziò la sua carriera di brigante. Forse la realtà degli eventi che portò il Passatore in galera per la prima volta fu leggermente diversa, questa leggenda dell’omicidio involontario servì solo ad alimentarne il mito. In realtà di certo c’è che Stefano Pelloni aveva solo 15 anni quando iniziò a fare i conti con la giustizia pontificia e a 19 era già un brigante discretamente quotato. Successivamente fu arrestato ed evase diverse volte acquisendo sempre più fama e diventando il ricercato numero uno. In tutte le parrocchie fu diffusa una circolare che lo descriveva, una serie di dati che fanno sorridere se paragonati agli odierni identikit:
“Stefano Pelloni
nativo del Boncellino
domiciliato in Boncellino
surnomato Malandri o Passatore
condizione bracciante
statura giusta
anni 20
capelli neri
ciglia idem
occhi castani
fronte spaziosa
naso profilato
bocca giusta
colore pallido
viso oblungo
mento tondo
barba senza
corporatura giusta
segni particolare sguardo truce”
I simboli sono importanti, sintetizzano significati complessi che richiederebbero lunghe spiegazioni, sono rivelatori dell’animo di chi li elegge in propria rappresentanza ed è tristemente rivelatore per i romagnoli che essi si siano dati quale personaggio simbolo la figura di questo brigante, che nella realtà storica non fu nient’altro che un bandito feroce e inutilmente crudele. Un torbido figuro, sifilitico, privo di intelligenza e spessore storico, il quale rubava ai ricchi perchè rubare ai poveri equivaleva a “cercare il grasso nella cuccia del cane”(come si dice in romagna) e che ai poveri non ha mai dato il becco di un quattrino se non per comprare la loro omertà. Ben sapendo che solo con le minacce non avrebbe ottenuto uguale fedeltà, rimborsava adeguatamente e abbondantemente chi lo proteggeva, in modo da attirare le “simpatie” di sempre nuovi contadini poveri disposti ad accoglierlo nelle loro case, a nasconderlo nei loro capanni. La sua generosità dunque era suggerita da un preciso interesse, così come per comprarne favori e complicità pagava le donne che lo seguivano e che che servivano ad allietare lui e la sua banda.
Altrettanto sintomatico è il fatto che Stefano Pelloni abbia a suo tempo richiamato a sé l’attenzione di quel Peppino Garibaldi, antenato di questa nostra bella patria, confermando così il detto che “il simile attira il simile”. Nell’agosto del 1849 Garibaldi passò in Romagna in fuga dopo la tentata rivoluzione con la Repubblica Romana di Mazzini, in quel periodo si parlava molto della banda del Passatore e lui, inseguito dagli stessi austriaci che davano la caccia ai briganti, deve averne sentito raccontare di quel bandito “giustiziere” che umiliava i gendarmi e le guardie papaline, tant’è che riuscì a sfuggire alla cattura proprio percorrendo gli stessi sentieri battuti dal Passatore e rifugiandosi in Toscana, come spesso anche Pelloni faceva. Dall’America, nel 1850, l’eroe dei due mondi scrisse una lettera in cui decantava le lodi del romagnolo “Le notizie del passatore sono stupende… noi baceremo il piede di questo bravo italiano che non paventa, in questi tempi di generale paura, di sfidare i dominatori.”
Il Passatore non fu veramente né “cortese”, né eroe, compì rapine in ogni paese della Romagna seminando terrore e lasciando morti sul suo cammino, se ne contano almeno una ventina a suo carico, ma sia ben chiaro che la sua avventura di politico non ebbe nulla, non si interessò di liberare la sua terra dall’oppressore ma semplicemente di arraffare quanto più possibile ai cittadini benestanti e solo per tornaconto personale.
Dopo che molta parte dei componenti la sua banda erano stati arrestati, per uno strano scherzo del destino, fu denunciato proprio da un pover’uomo, senza casa, preda delle peggiori tribolazioni e della miseria più nera, fu scovato nascosto in un capanno, ucciso dai gendarmi e portato in giro su un carretto a dimostrazione, per tutto il popolo, che la sua epopea era terminata: era il 23 marzo 1851.
Vorrei brevemente ricordare, in contrapposizione, un altro ribelle che visse e operò in Emilia Romagna, qualche decina d’anni prima del Passatore e di cui ho già avuto modo di scrivere qualcosa, si tratta di Prospero Baschieri. Due storie simili per molti versi, per le modalità in cui agirono e in cui finirono i protagonisti ad esempio, ma differenti per intenti e finalità.
Una premessa, nel 1796 le province settentrionali dello Stato Pontificio erano state invase e conquistate da Napoleone Bonaparte alla testa dell’esercito francese, queste regioni erano entrate, a forza, a far parte della repubblica cispadana, che l’anno dopo con l’annessione della Lombardia divenne cisalpina. Ed ebbero così origine, un po’ ovunque, moti di resistenza popolare, simili per forma e per motivazioni a quelli per cui è rimasta gloriosamente famosa la Vandea. In Italia tali movimenti passarono alla storia con il nome di “insorgenza” e in dialetto bolognese gli aderenti vennero chiamati “insurzènt”. Il fenomeno, per falsa ideologia, è stato volutamente sottaciuto e dimenticato, ma resta il più grande caso di insurrezione popolare che la nostra storia conosca, sia per estensione, perché toccò tutte le regioni cadute sotto la dominazione francese che per durata, poiché continuò dal 1796 al 1814. Per questo motivo gli insorgenti, di cui si fa scarsa menzione nei libri di storia, vengono ricordati solo come briganti e le loro gesta indicate alla stregua di delinquenza comune.
In quel lontano 1809 Bologna e i suoi dintorni erano affamati dalle truppe napoleoniche che, in nome della “fraternità e libertà”, tenevano tutta la popolazione soggiogata da atti di forza e violenza, razziando indisturbati i magazzini e depredando opere d’arte da ogni dove. Icone religiose, libri antichi, quadri, reperti archeologici venivano continuamente prelevati e spediti a Parigi. Napoleone, nel conquistare Bologna sconfiggendo le truppe papaline, aveva promesso libertà, ma aveva finito al contrario col soggiogare il popolo, ridurlo alla miseria e aveva sottoposto i nobili a prestiti “volontari” fino a 250.000 lire. Il capoluogo emiliano fu letteralmente saccheggiato. Nel cortile di San Salvatore fu addirittura allestita una fonderia per sciogliere gli oggetti di culto sottratti dalle chiese e ricavarne metallo prezioso. La fame e la disperazione avevano già fatto ribellare il popolo in sanguinose insurrezioni che erano sfociate nell’assalto ai forni del 1801, quando per protesta era stato rimosso da piazza del Mercato anche “l’albero della libertà” eretto dai francesi al loro arrivo.
Nato in una famiglia di contadini nel 1781, Prospero Baschieri,era il quinto di otto fratelli e aveva sofferto i sacrifici della miseria fin dall’infanzia, nelle fredde e paludose pianure emiliane di Maddalena di Cazzano fra Bologna e Ferrara, dove era venuto alla luce. Una zona intensamente popolata e coltivata, ma in cui le bocche da sfamare erano sempre troppe. Si racconta che fosse un omone alto più di due metri, forse il desiderio di farlo apparire “grande” lo rese addirittura un gigante nella fantasia popolare. Lo avevano soprannominato “Pruspron”, di carattere mite, se non veniva provocato, amava stare tranquillo e non avrebbe chiesto di meglio che sposarsi, lavorare la terra e mettere su casa a Cadriano, dove si era trasferito a vivere con la sua famiglia, ma furono i tempi tristi in cui cresceva a negargli anche queste minime soddisfazioni. Nel 1804, aveva rifiutato di aderire alla leva napoleonica e a ventotto anni era divenuto capo di un manipolo di “insorgenti”. Le imprese che compì dunque in quel periodo non sono da considerare atti di un criminale comune, ma vanno inquadrate in quel contesto di insurrezione popolare di cui sopra, come rivalsa di una Bologna sofferente per le continue ingiustizie patite durante il dominio napoleonico. Per quasi un anno era riuscito a sfuggire all’orrenda punizione della ghigliottina dando filo da torcere ai francesi, il suo nascondiglio erano le valli, allora paludose, che si estendevano intorno a Bologna, ricche di acque e di canneti e quindi impraticabili a chi non le conoscesse come le sue tasche. Dotato di una certa abilità strategica, riusciva sempre a cavarsela anche perché era benvoluto e amato dalla popolazione che lo reputava un rivoluzionario benefattore e lo aiutava a trovare sempre nuovi nascondigli.
Si era messo in testa di liberare il popolo dall’oppressore e, a capo di una banda di 25 contadini, il 4 luglio del 1809 invase i paesini di Budrio e Minerbio occupandone l’intero territorio. Pur sapendo di non poterne mantenere il controllo, sperava in cuor suo di alimentare focolai di ribellione e di trovare un sempre maggior numero di aderenti alla sua rivolta. Col tempo, si trovò a capo di una banda di oltre duecento uomini, con cui mise a soqquadro tutta la bassa emiliana. Animato solo dall’incoscienza e dal desiderio di libertà provò anche a liberare Bologna, cercando di aprire una breccia a porta Galliera, ma, con poche armi, senza cannoni e senza l’adesione popolare sperata, fallì miseramente e fu costretto alla ritirata dall’artiglieria napoleonica e dalla Guardia nazionale. Non si arrese, però, e, continuando con azioni di guerriglia, in seguito occupò altri paesi. Uomo d’onore e di grande coraggio, spesso sconfiggeva i soldati francesi senza fare loro del male, induceva i funzionari alla resa, li costringeva a scappare entro le mura di Bologna e divideva sempre i proventi delle sue imprese nei paesi che liberava con la popolazione affamata.
Non sarebbe stato tanto facile ridurlo alla resa, ma spesso la viltà e il tradimento vincono sull’onore e la fede: il 12 marzo 1810, Baschieri fu tradito e consegnato ai francesi dalla famiglia Rubini che gli dava in quel momento ospitalità. Raggiunto da un folto drappello, mentre si trovava ospite in una delle loro cascine in località “podere Malcampo”, dopo un conflitto a fuoco che non risparmiò morti da ambo le parti, Prospero, che si era battuto con forza selvaggia, venne ferito mortalmente. Prima di cadere si guardò intorno salutando per un’ultima volta la sua campagna, raccolse un pugno di terra stringendolo fra le dita chiedendosi perché tutti i popolani non avessero amato come lui quei luoghi, tanto da unirsi nella lotta, ma fu il pensiero di un attimo e poi, per non cadere in mano ai francesi, si tuffò nel canale dove morì dissanguato.
I suoi nemici ne raccolsero il cadavere e, in segno di disprezzo, per additarlo ad esempio a tutta la popolazione della bassa che aveva plaudito le sue imprese, lo ghigliottinarono anche dopo morto e la sua testa, conficcata in cima a un palo, rimase esposta a lungo come monito in piazza del Mercato a Bologna, dopo essere stata mostrata come un trofeo, in una sorta di macabro corteo che aveva percorso tutte le lande dove aveva combattuto e vinto contro i francesi.
Baschieri era il contadino che aveva liberato la bassa e quando un uomo diventa un eroe si erge a simbolo per l’intera popolazione, così le sue gesta divennero leggenda, ma il popolo è vittima di una strana malattia per cui si lascia condizionare nei giudizi e nelle passioni dal successo e dall’insuccesso e si dimentica in fretta gli eroi innalzando i vincitori. Accadde che nel giro di poco tempo una canzone di chiara marca propagandistica, commissionata dal regime, venne applaudita di piazza in piazza proprio dai membri del suo clan, da coloro che prima lo avevano osannato e al quale il valoroso Prospero era stato a fianco fino al sacrifico ultimo della sua vita.
“Traversando per il campo
Per voler cogli altri andare
Mi mancarono le forze Non potei più camminare
E così steso per terra
Senza aiuto e alcun conforto
Dei nemici fui la preda e restai per sempre morto
Indi a Budrio con gran pompa Fui portato con gran festa
E dal popol nella piazza Beffeggiata fu mia testa…”
Per concludere vorrei sottolineare che se l’Emilia ha dimenticato chi provò a liberarla, la Romagna di contro ha scelto il simbolo sbagliato e non è che non abbia avuto alternative. Nella storia di questa terra non sono mancati uomini di ben altra tempra, addirittura di rilevanza storica eccezionale, e siccome il presente dovrebbe poggiare sulle migliori tradizioni e riallacciarsi alle nostre più profonde radici, mi verrebbe più spontaneo guardare con ammirazione a un personaggio importante per questo territorio quale fu Teodorico, detto il Grande, un uomo di “grande distinzione” che governò le nostre terre per trentatrè anni con buona volontà, arricchendoci culturalmente e lasciando la pace in eredità. Ravenna riceve ancora oggi milioni di visitatori ogni anno che vengono ad ammirare le sue opere: il mausoleo che costruì per se stesso, la splendida basilica di Sant’Apollinare ricordata nel mondo per i suoi mosaici e il vicino Palazzo Reale dei Goti, per menzionare solo alcune delle opere presenti in città e a lui riconducibili. Sotto il suo regno, l’economia italiana rifiorì, il principe germano e la sua gente seppero dar vita a uno dei momenti più luminosi della storia d’Italia e la loro presenza fu addirittura basilare per l’etnia e la cultura romagnola.
L’Impero Romano era crollato da tempo e buon per noi che le invasioni vennero da parte di popoli nordici, i quali portarono nuova linfa facendo rifiorire la nostra penisola in modo positivo e ci diedero lo spazio storico di alcuni secoli di civiltà.
Oggi sta avvenendo il contrario e l’invasione viene dall’Africa, è questo che veramente vogliamo?
Purtroppo vediamo come ogni significato superiore di carattere sia spirituale che materiale, è del tutto assente nella mentalità dei romagnoli, ma sappiamo anche che sono mancati negli ultimi anni di governi “democratici” veri personaggi che aspirassero alla formazione di una cultura e di una forma completa di civiltà. Gli “sgovernanti” che si succedono, continuano nell’opera di farci perdere completamente la nostra identità. Oggi fiutano e rincorrono nelle banche dell’ovest lo stesso nauseabondo puzzo che ieri voluttuosamente aspiravano nei Soviet dell’Est. Oramai è chiaro che fra l’uno e l’altro non vi è differenza, il lezzo è lo stesso ed è nemico viscerale dell’Uomo Europeo.
E’ ora di svegliarsi dunque si ripuliscano i falsi miti e si affrontino i tempi duri che si presenteranno, armati delle nostre tradizioni, della nostra memoria, in una parola della nostra identità che è l’arma più forte di cui possiamo disporre.
Franca Poli
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