“I teatri di marionette e i camposanti sono gli unici luoghi dove l’uomo possa prendere acuta coscienza di sé. Nei primi vede cos’è prima della morte, nei secondi quel che sarà dopo la vita”. Mi chiedo se questa considerazione di Papini sulla condizione umana non contenga un eccesso di pessimismo. Non intendo obiettare al dato biologico che ci vuole tutti mortali, ma a quello psicologico che ci vorrebbe burattini, e verificarne la coerenza con la nostra vita. Anche perché l’idea del burattino sembra avere oggi un ruolo determinante nell’interpretazione dei fatti.
Si direbbe una sorta di vox populi. Eppure il popolo è avvezzo alle dinamiche del potere. Per tradizione, c’è chi comanda e chi ubbidisce. Qui sembra però prevalere un fattore perverso. L’esser burattino, infatti, nega la libertà della persona molto più che l’esser schiavi o prigionieri. Non bisogna quindi vedervi un problema puramente politico o sociale, ma qualcosa che degrada la natura umana.
Burattino prende il nome da ‘buratto, il panno con cui lo si riveste. Ora, se quest’abito di marionetta lo adattiamo all’uomo, non è più un uomo, perché ne copriamo l’intima essenza, con conseguenze assai peggiori di quelle legate a crisi economiche, guerre o pestilenze. Un’umanità non più umana, una società ridotta a teatro di marionette, segna la fine della civiltà, tocca il fondo di una spirale discendente, è tragico epilogo della storia o, come qualcuno sostiene, annuncia il rovinoso stadio terminale del Kali Yuga.
Trasferendone il senso in tutt’altro contesto, la marionetta potrebbe godere di un nobile statuto metafisico e, come nel saggio di von Kleist, divenir metafora di una grazia e di una leggerezza dell’anima, di un essere che si abbandona all’inconscio e ai suoi impulsi divini. Così, San Francesco chiedeva ai suoi frati di essere obbedienti come cadaveri, i quali non si lamentano d’esser messi qui o là, e neppure ne chiedono la ragione. Tale regola – perinde ac cadaver – si ritrova in ogni gerarchia militare, e non a caso fu adottata dai gesuiti, il cui fondatore era soldato.
Ma un incalcolabile degrado etico divide l’ascetica passività del monaco, che cede volontà e libertà per servire un ideale religioso, dalla connivenza servile del burattino politico, che agisce per interessi personali. Nell’attuale sistema, il burattino è metafora dell’uomo-cosa spinta alla sua estrema radicalità, espressione di una totale reificazione dei rapporti umani, del vedere il nostro prossimo solo come strumento. È un aspetto del nichilismo moderno, della sua riduzione della vita a mera operatività e della socialità a forma di controllo.
Il burattinaggio è in fondo l’evoluzione maligna del vassallaggio feudale. Come quello, comporta un rapporto di subordinazione e di reciproco beneficio, ma su un piano di dissimulazione e di ipocrisia. Implica infatti una relazione segreta, clandestina, volta a fini illeciti, immorali, e sempre a danno di altri. Il vassallo che degenera in burattino lo fa rinunciando alla sua integrità personale, a ciò che lo rende nobilmente uomo. Anche quando il suo tornaconto è cospicuo o enorme – il che produce un danno equivalente ad altri – il suo ruolo resta sempre subumano e strisciante. Per accettare tale perdita di dignità deve mentire a sé stesso, credere d’agire non per effetto di fili che lo controllano ma disponendo del suo libero arbitrio.
Il burattinaggio sottintende inoltre una gerarchia indefinita, al cui apice non si trova alcun reale sovrano o pontefice. Teoricamente, si prevede che ognuno abbia sopra di sé qualcuno che lo comanda. Sopra il burattino assoluto, senza alcun ruolo di comando, che rappresenta il livello più basso, si troverà un burattinaio apprendista che lo manovra, e sopra questo un burattinaio di grado più elevato etc., in una piramide che tende all’infinito, verso spazi metafisici.
Sostanza del sistema è quel diritto di comandare a ‘esseri inferiori’ posto alla radice della nostra cultura: «dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra». Basta interpretare tale comando in senso lato per giustificare i rapporti di potere non solo tra uomo e natura, ma anche tra maschio e femmina, padrone e schiavo, tra classi o razze diverse etc. Il nostro vizio di ragionar per categorie verticali, per suprematismi, si cementa in quel funesto paradigma del dominio su cui si regge, idealmente e nei fatti, la nostra società.
Tuttavia, giunti alle più alte cariche dello Stato, ci saremmo un tempo fermati. Oggi invece troviamo sopra di loro, a tirarne i fili, arroganti entità economiche e finanziarie. Burattinai sempre più trascendentali, sui quali fiorisce una nuova e copiosa demonologia. Di loro si conosce la vocazione al male, l’impulso a dominare il mondo mediante maneggi turpi e segreti. Non dobbiamo però credere sia questo il nuovo non plus ultra, perché sarebbe in contraddizione con la natura interminabile dell’intero processo.
Occorre anche evitare il banale luogo comune secondo cui la misura del comando coincide con quella del denaro. In tal caso, il più ricco sarebbe il Motore immobile del tutto, l’alfa e l’omega del burattinaggio. Ma il burattinologo sa che il fenomeno da lui studiato trascende il denaro. Perciò, cerca di vedere oltre i bilanci aziendali, i fatturati o le proprietà materiali di qualcuno impastato, come noi, di limiti umani, anche se immensamente più ricco. L’impianto teorico del sistema lo costringe a salire verso regioni sempre più imperscrutabili.
Non fa come il sommo poeta che, giunto al cospetto del mistero divino, ammise che «a l’alta fantasia qui mancò possa». Nel suo viaggio tra inferni, purgatori e paradisi delle marionette, non lascia nulla di inespresso. Gli basta sollevare lo sguardo e, sopra il trono di Mammona, vedrà incombere nuovi burattinai: ordini religiosi, sette iniziatiche, entità aliene, esseri venuti da un altro mondo o partoriti da abissi satanici. Come una nube gravida di Idee platoniche, di Emanazioni e Archetipi del Potere che si incarnano in Forum economici, signoraggio bancario, logge, corporazioni, multinazionali etc.
Ci si può chiedere a questo punto se esista una causa prima, un Supremo Burattinaio, un Burattinaio Massimo di cui non si può pensare il maggiore e la cui esistenza è una necessità logica. Alcuni ancor’oggi optano per queste astrazioni teologiche, dal sapore medievale. Altri trovano più scientifico supporre una sinergia o un conflitto tra vari poteri, più o meno occulti e criminali. Non un Cervello Unico ma vari sistemi nervosi autonomi, che conferiscono al mondo un equilibrio instabile e pericoloso.
Si potrebbero qui presentare alcuni curiosi paradossi. Il burattinaggio può prendere infatti infinite forme. Poniamo, ad esempio, che un Grande Burattinaio sia succubo della moglie e che, per conservare la quiete domestica o per non affrontare dispendiosi divorzi, ne esegua gli ordini, ne sia cioè il burattino. Il nostro destino dipenderebbe allora da una donna bisbetica. E se costei, sui massimi sistemi, si consigliasse col proprio parrucchiere, a decidere le sorti del mondo sarebbero le opinioni di un oscuro coiffeur.
In tutti i casi, mi pare che a queste laboriose ipotesi sfugga il nocciolo del problema, ossia che, in un mondo di burattinai, nessuno si sente burattino. È questo che ci impedisce d’essere liberi, la presunzione d’esserlo già. Così, uomini sempre meno liberi si preparano, con un salto evolutivo, a divenire automi, marionette più sofisticate e tecnologiche. A controllarci, a farci ballare come pupi, saranno forse i fili di invisibili e onnipresenti radiofrequenze, di influssi subliminali, di messaggi digitalizzati che cancelleranno in noi ogni residua consapevolezza. Sorta di incubo cartesiano, in cui tutto soggiace a un ordine meccanico.
Il nostro istinto di libertà gemerà inascoltato e senza speranza in qualche angolo buio dell’inconscio. Forse cercherà sfogo in programmi di realtà virtuale, dove a modico prezzo gli verranno concessi immaginari poteri. Potrà così godere la fugace ebbrezza di sentirsi onnipotente burattinaio, di creare e dominare mondi irreali, dimenticando d’esser burattino, sprofondando in forme di dipendenza e di delirio sempre più irreversibili.
Oppure, ma questa è una speranza troppo ottimistica, capirà che, in cima alla piramide, le dita che muovono tutti i fili son proprio quelle della sua immaginazione. Che la sua stessa coscienza è quel misterioso Burattinaio che cercherebbe invano tra gerarchie terrene. Giungeremmo così non al vertice di una scala ma a chiudere quel cerchio magico in cui il pensiero si chiude.
Nel suo muoversi tra immagini riflesse, la nostra mente è origine e fine d’ogni burattinaggio. Ogni uomo, prima d’esser burattino di altri, o per quanto elevato sia il suo grado di burattinaio, resta sempre il burattino delle proprie passioni, delle proprie credenze e fantasie. E se cerca di cambiar padrone, diventerà burattino della ragione, della logica, del suo pragmatismo etc. Nessuno può tagliare i fili delle proprie illusioni. Siamo come i paladini intrappolati nel castello di Atlante, presi in un gioco di specchi e di miraggi. Chi può disincantarci, spezzare il sortilegio che ci lega? Ci aggiriamo nei labirinti del potere, alla ricerca di una irraggiungibile verità, fendendo colpi a destra e a manca, decisi a far giustizia. Ma cosa possono fare delle marionette?
La questione, si capisce, prende qui una piega esoterica, il tono d’una parabola esistenziale. Ci porta a chiederci chi siamo veramente. Chi ha scoperto i fili sociali, politici, economici o culturali cui è legato, immagina così di goder di privilegi morali e intellettuali, d’appartenere a un’enclave di uomini liberi e disincantati. Non pensa che, più forti di quelli, i fili della natura e del destino lo muovono, e che solo così egli sente, parla, compie gesta e prova emozioni. Si crede padrone di sé, e gesticola tra le scene anguste e variopinte di un teatrino di cui non vede l’oscuro fondale.
Se, come Orlando, si innamora di Angelica, combatte i Saraceni o perde il senno, è perché mani invisibili lo manovrano, e una voce non sua racconta la sua storia. I suoi arti si piegano docilmente ai comandi. Dalle labbra gli escono giuramenti d’amore, nobili proclami, il suo braccio brandisce con veemenza la spada. E se gli tocca non il ruolo dell’eroe, del cavaliere senza macchia, ma del perfido Gano di Magonza, come potrebbe rifiutarsi? Che ne è allora della sua responsabilità? Non dovrà essere punito per le sue malefatte, o premiato per le sue virtù?
Sì, dovrà risponderne alla giustizia delle marionette. Riceverà compensi e castighi, perché così vuole una Legge che giudica i duelli, gli amori e i soprusi, e a ognuno dà quel che merita. La sua vicenda si srotola, e in una scabra poesia stringe i nodi dell’anima o li dipana. Un filo tirato con forza, un dolore; un filo tirato con dolcezza, una breve felicità. Poi lo spettacolo finisce e scende il silenzio; le luci si spengono e tutti i pupi vengono riposti insieme, nel medesimo cesto. In questo Papini ha ragione.
Ma il vivere una vita inautentica non sembra destare in noi soverchie preoccupazioni. Forse perché l’esser burattini corrisponde a un nostro bisogno profondo, a una seconda natura che, poggiata su di noi come un panno, copre la prima. In fondo, l’ubbidire senza pensare, offre innegabili vantaggi. Ci semplifica la vita, permette alla mente di riposare, alla coscienza di non aver rimorsi, di contare sull’abilità e il sapere di chi ci muove. Ha ragione Belli: “Ar teatrino chi la sostiè la pparte più sudata? Dite, er burattinaio o er burattino?”. Anche i Grandi Burattinai trovano piacere nell’abbandonarsi alla forza demoniaca che li domina.
Potremmo concluderne amaramente che non v’è alternativa a una vita da marionetta, che l’unica aspirazione realistica sia di salire nello status di burattino. Tagliando i fili perderemmo un atavico equilibrio, potremmo cadere e farci male. Ma noi non nasciamo burattini. È qui che Papini ha torto. La libertà è la nostra prima natura. Il buratto è solo un cencio buttato su di noi dal Maligno, per nasconderci la nostra divina nudità.
Sedotti dal grande tentatore, noi facciamo la stessa strada di Pinocchio, ma in senso inverso. Creati umani, ci trasformiamo in burattini. Questo, apparentemente, ci risparmia molti dolori. Nello stesso tempo, ci pone in uno stato di perenne conflitto con la natura, inibisce ogni vera conciliazione con la vita e, in definitiva, rende impossibile l’esperienza della gioia. Ma l’esser o no burattini non è un problema di scelte razionali. Ci vuole coraggio per ritornare umani, ed esser liberi non è né facile né comodo. Perché, come dice Cioran, «non è grazie al genio ma grazie alla sofferenza, e solo grazie ad essa, che smettiamo d’essere una marionetta».
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