Il settore economico di massa in cui più è evidente la pervasività del mercato e più avanzata la mondializzazione è forse lo sport professionistico. Non è azzardato affermare che è un’avanguardia della globalizzazione, un vero e proprio outlet grande quanto il mondo, nel quale l’aspetto meno rilevante è il risultato sportivo. Esso importa soltanto ai clienti finali, gli appassionati e i tifosi, il cui unico compito è aprire il portafogli per acquistare a carissimo prezzo il materiale d’affezione, sciarpe, magliette e simili, il diritto di assistere – prevalentemente attraverso la televisione – alle manifestazioni sportive e naturalmente ogni altra merce di consumo griffata con il marchio della squadra del cuore o del campione del momento.
La trasformazione del calcio è la prova di quanto asserito, la cui evidenza si manifesta nelle competizioni internazionali e, in ambito italiano, con il trasferimento di Cristiano Ronaldo alla Juventus, che la stampa specializzata ha battezzato, con scarsa fantasia, il colpo del secolo. Chi scrive è un tifoso pentito, frequentatore dall’infanzia dello stadio genovese di Marassi, sponda Sampdoria. Confessiamo un colpevole disinteresse per i mondiali di Russia, dovuto in piccola misura all’assenza della nazionale italiana, ma in larga parte al fastidio invincibile per un sistema che ha reso lo sport un’industria tra le tante, sfruttando l’ingenuità degli appassionati. Le squadre professionistiche sono società per azioni, alcune sono quotate in Borsa, unica legge è il profitto.
Anche in Italia, come è già capitato in Inghilterra e altrove, la titolarità dei club non solo non è nelle mani di azionisti connazionali, ma appartiene a fondi internazionali, entità finanziare, strane cordate di investitori dei cinque continenti. Gli stessi calciatori, a cui i tifosi si affezionavano fino a identificarli nella squadra (Rivera e il Milan, Totti e la Roma) sembrano attori di compagnie di giro. Oggi recitano a Buenos Aires, la settimana prossima, fuso orario permettendo, si esibiranno a Milano, poi a Tokyo o Shanghai. Sfidiamo i tifosi di una qualunque delle squadre di serie A, ma anche di B e persino C, a ricordare la formazione dell’anno precedente: il mercato è sempre aperto, calciatori di cento nazionalità si trasferiscono da un lato all’altro del mondo a velocità sorprendente. Ragazzini, specie africani, vengono imbarcati a frotte per essere inseriti nelle formazioni giovanili con il miraggio di una carriera da professionisti.
Un esercito di procuratori sportivi, agenti, mediatori, faccendieri, consulenti di ogni risma, sedicenti scopritori di talenti, si muovono nell’ambiente, decisi a prendere per sé una fetta della torta. Il trasferimento di Ronaldo alla Juventus è costato oltre cento milioni che andranno al Real Madrid, titolare del cartellino del campione portoghese, ma quanto altro denaro sarà andato a pubblicitari, fiscalisti, legali? E quanta parte delle somme di ogni operazione legata al calcio sfugge al fisco, tra pagamenti estero su estero, società schermo, fantasiose fatturazioni di servizi? In più, è relativamente semplice “aggiustare” i bilanci lavorando su plusvalenze e minusvalenze, attribuendo ai calciatori un valore esagerato o inferiore al reale. Attualmente, sono sotto processo sportivo il Chievo Verona e il Cesena, accusati di aver organizzato un sistema di compravendite reciproche a somme gonfiate per sistemare i bilanci, superare i controlli della federazione ed essere ammesse ai campionati. Il sistema pare collaudato.
Nel frattempo un’altra società, il Foggia, è stata condannata a una pesante penalizzazione per aver effettuato pagamenti in nero, con l’aggravante, secondo l’accusa, che si tratterebbe di denaro proveniente da attività illecite. Nel giro calcistico si muovono torme di personaggi di assai dubbia correttezza. I fallimenti, negli ultimi venti anni, hanno coinvolto moltissime società grandi e piccole, senza risparmiare corazzate come la Fiorentina, il Napoli e più recentemente il Parma, già coinvolto nella bufera Parmalat.
Il Cesena è nel mirino dell’Agenzia delle Entrate per un debito fiscale di 40 milioni di euro (ottanta miliardi delle vecchie lire), mentre la Roma, anni fa, travolta da debiti che misero in grave difficoltà la famiglia proprietaria, i Sensi, finì alle banche creditrici e poi a investitori americani. La Lazio ha ottenuto da tempo una lunghissima rateazione del proprio debito fiscale. Il caso del Milan è impressionante: dopo la trentennale gestione Berlusconi, la proprietà è in mani cinesi, così poco sicure da essersi indebitate con il fondo speculativo Elliott, divenuto padrone della prestigiosa società rossonera, di cui probabilmente non sa che farsene, nella quale dovrà investire denaro per non perdere somme enormi e poter rivendere la squadra che fu dei Rizzoli e del Cavaliere. L’Inter, l’altra grande milanese, ha visto gettare la spugna la famiglia Moratti, la quale, almeno, ha ceduto la Beneamata a cinesi di maggiore solidità economica. Tra le squadre della serie A, anche il Bologna è di proprietà americana, come il Venezia in B, mentre, a livelli più bassi, variopinti personaggi provenienti da ogni dove possiedono società di antica tradizione, tipo la Reggiana in crisi grave, mentre la provincia calcistica pullula di strani personaggi il cui ruolo si risolve in genere nel farsi gli affari propri.
Significativo è il caso Ronaldo. L’asso portoghese ha lasciato il Real Madrid e la Spagna probabilmente per il pesante contenzioso con il fisco spagnolo, a cui ha dovuto corrispondere oltre venti milioni di imposte non pagate. Lo strapotere della Juventus (Fiat) consentirà ai bianconeri altre vittorie nel campionato in assenza di concorrenti, ma, paradossalmente, i primi a fregarsi le mani sembrano proprio gli avversari. Il patron del Napoli De Laurentiis chiede di rinegoziare il valore commerciale dei diritti televisivi del nostro campionato, fissato per la prossima stagione attorno al miliardo di euro, giacché la presenza di Ronaldo rende più appetibile la Serie A sul mercato globale. Nella divisione della torta la parte del leone la fanno le società dotate del maggiore bacino di utenza, dunque, oltre allo stesso Napoli, la Roma e ai colossi del nord, Juve, Inter e Milan.
I ricchi del calcio, dunque, come nella società del mercato globale, diventano sempre più ricchi, gli altri possono fallire, oppure si arrangino divenendo satelliti delle grandi. Già esistono casi di doppia proprietà da parte degli stessi azionisti (la Salernitana è del laziale Lotito), alcuni presidenti cambiano società con disinvoltura (Zamparini, Spinelli). Novità assoluta è il trasbordo del Bassano (serie C) nel capoluogo, per raccogliere il nome del Vicenza acquisito dal gruppo Diesel. Tra gli sponsor del calcio figurano le maggiori imprese di scommesse sportive, fino al recentissimo divieto imposto da Di Maio con grande scandalo degli adoratori del mercato. L’ombra delle scommesse è pesante, ha già infangato calciatori, faccendieri e qualche società. Poco vale invocare la distinzione tra mercato legale e criminale, poiché prosperano entrambi, con il sospetto di manipolazione malavitosa di alcuni risultati del campo.
I tifosi, ovvero i clienti, contano poco o nulla. I più fedeli sono costretti alla schedatura attraverso la tessera del tifoso, che peraltro è anche una carta di credito per comprare prodotti di ogni tipo nei circuiti commerciali; vengono sottoposti a perquisizione all’entrata degli stadi, accedere ai quali è un percorso a ostacoli: camminamenti, cancelli, sbarre, tornelli. Il risultato è tribune sempre meno affollate, anche per gli orari delle partite determinati dalla televisione, oltreché per assurdi divieti di assistere agli incontri a carico dell’intera cittadinanza. Per limitarci alla realtà genovese, in certe occasioni vige il divieto di vendita dei biglietti fuori provincia, con il risultato di impedire la presenza di tanti tifosi di Genoa e Sampdoria residenti nelle zone vicine. Ciò senza aver debellato il fenomeno della violenza, i cui protagonisti sono ben conosciuti in ogni tifoseria.
Ciò che si persegue è ridurre il calcio a spettacolo televisivo di vertice, poiché Catanzaro- Matera ovviamente non verrà trasmesso. I tifosi scelgono sempre più di assistere da casa alle partite delle grandi, mettendo in crisi irreversibile le piccole e medie società professionistiche, legate agli incassi del botteghino. Ma è il mercato, bellezza, e pazienza se i fallimenti fioccano (gli ultimi hanno riguardato club di città ricche e importanti come Modena e Vicenza) e nessuno è interessato a finanziare il movimento giovanile per formare calciatori italiani. Nulla di strano, al di là delle responsabilità di federazione e selezionatore, se l’Italia non ha partecipato al campionato mondiale e se, guarda caso, diversi calciatori della rivelazione Croazia giocano da noi.
Intanto, l’effetto Ronaldo si sta sentendo sui media “social”. Nel mondo in poche ore sono aumentati di un milione i seguaci (follower) della Juventus. Maglie, gadget e gli altri oggetti – dai profumi alla ciabatte – legati all’immagine di Ronaldo andranno a ruba appena disponibili. Il mercato vince sempre e, diciamolo, imbroglia sempre poiché milioni di persone sono disponibili all’inganno. Tenuto conto delle somme da capogiro che vanno agli sportivi di vertice e del giro delle sponsorizzazioni, quali sono i profitti reali delle multinazionali che dominano il mercato? E qual è il costo industriale dei prodotti, visto l’elevatissimo valore di scambio? Un breve giro nei negozi specializzati desta scandalo in chi non è tifoso, o non ha gli occhi foderati di prosciutto.
In tutto questo, poca importanza ha il risultato sportivo. Vincerà il più ricco; la competizione, impossibile in Italia, Francia, Germania, Spagna, resta a livello continentale, limitata a una decina di grandi società. Il fenomeno dell’Ajax Amsterdam di Cruijff è oggi irripetibile. Gli stessi Milan e Inter non reggono il massimo livello. Potremmo senz’altro indicare il nome delle finaliste della prossima coppa dei campioni (che in Italia chiamiamo Champions League) in una rosa di non più di cinque- sei grandi club.
Il gigantismo del mercato industriale globalizzato si è trasferito nello sport, espellendo i meno grandi. I ricavi di pochi colossi costituiscono il grosso del volume d’affari totale. Stupisce davvero che tanti appassionati si ostinino a sperare nel successo delle loro squadre, estranee al giro che conta, ma ancora più colpisce il tifo di massa per le corazzate. A noi resta ben difficile appassionarci a un marchio industriale i cui fatturati dipendono dalla nostra stessa dabbenaggine, gioire per una rete del top player rivista da mille posizioni in TV, correre a comprare la maglietta fabbricata da poveracci per quattro soldi e rivenduta con ricarichi mostruosi e royalties messe al sicuro in qualche angolo di mondo presso società create alla bisogna. Tutt’al più possiamo scegliere se essere clienti di un affare simile all’amo e alla lenza di una pesca miracolosa (per loro).
Saremo nostalgici, ma rimpiangiamo vecchi signori come l’avvocato Prisco, Paolo Mantovani che portò lo scudetto e la finale di Coppa Campioni alla Sampdoria, Costantino Rozzi che trascinò l’Ascoli in serie A, nomi del tutto sconosciuti ai tifosi di oggi. Rivorremmo allenatori come il povero Emiliano Mondonico e la sedia scagliata al cielo contro il destino avverso al suo Torino, o Nereo Rocco, il paron triestino che, sulla panchina del coriaceo Padova, all’augurio di un giornalista “vinca il migliore” rispose “speremo de no “. Era l’essenza, il fascino magico del calcio che potesse vincere, o almeno pareggiare il più scarso. Non è più possibile: i grandi hanno eliminato il rischio d’impresa. Hanno trenta calciatori a disposizione, sostituzioni a volontà, sono dieci, cento volte più ricchi degli altri, incassano per la loro partita cifre enormemente superiori all’avversario di turno. La concorrenza è pressoché finita, come negli altri monopoli o cartelli.
Le finali di competizioni nazionali e internazionali si tengono nei luoghi più impensati, poiché chi paga i suonatori decide la musica e il teatro. Se lo facciano per conto proprio il loro campionato, nazionale, continentale, mondiale. Giochino contro se stessi, Real Madrid o Juventus A contro Real Madrid o Juventus B. Lascino a noi il vecchio sport del pallone, viva il parroco, l’arbitro cornuto senza la Var (la macchinetta che giudica sul campo i casi dubbi), i tifosi senza tessera, la domenica sera da incavolati neri dopo una sconfitta. Abbasso l’Outlet Globale del Calcio, il mercato misura di tutte le cose anche nel pallone, abbasso le trasferte vietate e le partite a tutte le ore. Il calcio moderno è la mecca degli straricchi: noi che c’entriamo?
ROBERTO PECCHIOLI