7 Ottobre 2024
Livio Cadè Spiritualità

Canto di Natale – Livio Cadè

Secondo alcuni ‘Nazareno’ non verrebbe da Nazareth ma dall’aramaico netzar che significa cinguettare. Questo etimo avvicina le parole del Cristo al canto di un uccello, forse a sottolinearne il carattere melodioso e naturale o la natura alata, il loro spiccare il volo nei cieli dell’anima. V’è un’immagine analoga in san Giovanni della Croce, il quale paragona il mistico a un passero solitario che canta dolcemente. Queste similitudini poetiche trasferiscono il centro della fede dalla mente razionale al cuore. Il cuore infatti preferisce la musica ai rigidi sillogismi. Una saggezza priva di musicalità, piena solo di logico e grigio buon senso, lo lascia indifferente.

Quando ascoltiamo il sermone del prete, con i suoi involuti moralismi e le esortazioni al dovere, o quando la società ci richiama al rispetto degli altri, al senso di responsabilità, la nostra anima si rannicchia in sé stessa come per difendersi dal gelo che la avvolge.

I discorsi edificanti in realtà demoliscono la nostra fede nella bellezza della vita, la coprono di una cenere polverosa. Ricordano vecchie zitelle, piene di ossequiose cautele e di ansiosa prudenza. Non v’è nulla in loro che accenda una passione, che scaldi il cuore o rivesta la realtà di colori affascinanti. Nulla che spinga all’amore perché, come dice Agostino, si può amare solo ciò che dà diletto.

Purtroppo la nostra società è dominata dall’esperto – colui che sa – e disprezza i dilettanti. Questo la rende tediosa e incolore. Perché l’esperto parla, parla, ma non sa cantare, non ha sensibilità musicale. Chiude la realtà nella camicia di forza dei fatti obiettivi, di dati rigorosi quanto cadaveri. La sua frigidità raggela tanto i nostri istinti animali quanto i nostri impulsi spirituali.

Solo un dilettante può capire il Natale, percepirne il Canto. Se siamo esperti ci fermeremo alla lettera, a parole senza melodia, armonia e ritmo. Così ne perdiamo il netzar, ossia il nettare. Le parole di Cristo, private della loro musica, diventano le parole di un moralista, di un teologo, o di un esperto del Regno di Dio. Ma Cristo non è un esperto. Neppure Dio lo è.

Ridotto a parola, il senso del reale si prosciuga. Lascia in noi un uggioso sedimento di etica, di filosofia o di scienza. Perciò ci attira il conturbante, l’emozione oscura che ravviva e provoca un intimo sussulto. Ma questa non è che l’ombra del dilettevole, di ciò che suscita un vero diletto. All’esperto manca l’incanto, la meraviglia. Il vivere è sottomesso alle regole del sapere, a calcoli privi d’ogni musicalità.

Con quale risultato? Per secoli abbiamo ascoltato sublimi prediche morali, divenendo sempre più immorali. Dotti teologi ci hanno inclinato all’ateismo. Medici esperti ci hanno fatto ammalare, esperti economisti ci hanno impoverito etc. Ovunque regna una sorta di attitudine professorale e accademica. Mandrie di esperti vagano tra i pascoli del sapere, condannati a una perpetua transumanza.

Come quegli esegeti affetti da sordità che leggono le parole delle sacre scritture – non importa di quale religione – e non ne capiscono la tonalità. Per tale motivo credo che le religioni moriranno e che anche il Natale morirà. Perché il Natale è soprattutto canto. E tre cornacchie sanitarie che gracchiano una parodia di canto natalizio non è solo un’esibizione escrementizia, ha già in sé qualcosa di funereo.

Il Potere, che vuol salvare gli aspetti commerciali del Natale, ne vuol distruggere la natura musicale. Non perché i suoi tradizionali canti espongano al contagio di un chimerico virus, ma perché rappresentano un’istanza dello spirito che si oppone al dogma scientifico e sfida il sacro timore degli oracoli medico-sanitari cui tutti siamo oggi sottomessi.

La scienza è oggi strumento di un Potere che il Natale contraddice. Non tanto perché una vergine ha concepito un figlio per opera dello Spirito Santo. Di questo si dirà che è un mito, come tanti altri. Basta togliervi il suo netzar e tutto rientrerà nella logica umana. Ma è l’amore stesso a essere antiscientifico. E altrettanto si può dire di una religione fondata sull’amore.

La scienza ci lega alla legge, ci rende schiavi di necessità razionali. L’amore invece ci libera dalle catene della razionalità. Riunirci e cantare insieme è pericoloso perché cantando potremmo venir infettati dalla musica e dalla sua libertà. Potremmo forse smuovere tante piccole onde d’amore, liberarci dalla paura che ci blocca. Perciò il Potere, che si basa sulla paura, nega l’amore. Difatti «nell’amore non c’è timore».

La scienza, o quella cosa che oggi si dice ‘pensiero scientifico’, non può dunque che essere anticristiana. Se volesse eccepire a questa regola dovrebbe conservare in sé una specie di escrescenza psicotica, sconnessa dall’organizzazione generale del suo pensiero. La mentalità moderna non può accettare lo spirito del Natale senza contraddirsi. Può comprimerlo in un messaggio morale – la pace! la bontà! – ne può cavare astratte questioni metafisiche, parole, gusci vuoti da cui non esce alcuna melodia, nessun netzar.

Bisogna quindi ridare alla parola il suo canto. ‘Parola’ viene da parabola e quindi da fabula. La forza della parola non sta nello spiegare ma nel raccontare, nell’evocare magicamente la realtà. La sua prima sostanza è il suono, la vibrazione. Dapprima musica, la parola si condensa poi in senso poetico, e via via degrada verso il semplice segno. Come l’acqua di un ruscello che si solidifichi e ghiacci.

Così, irretiti nei segni, alcuni trovano utile valutare quanto di storico e razionale, quindi di reale, vi sia nella vita di Cristo. Vogliono sapere chi fosse realmente. Il Messia, un profeta, un maestro esseno, un povero rabbi esaltato, un socialista ante litteram, un rivoluzionario, un sognatore? Divino, umano, entrambe le cose? Ogni esperto ha la sua teoria.

Ma, per quanto approfondiamo la questione, il risultato ci lascia in fondo indifferenti. Solletica solo la nostra curiosità. La nostra vita non cambia, il cuore non obstupescit. Per l’anima questa ricerca scolastica è totalmente irrilevante. Per lei il mito è più reale della storia, la dimensione immaginale più reale di quella empirica, perché la bellezza è per lei verità. Ma questo non possiamo capirlo finché leggiamo solo la parola e non sentiamo il canto.

Per questo cantare è una necessità dell’anima, assai più che il parlare. Non c’è amore né bellezza senza musica. Noi invece parliamo troppo e cantiamo troppo poco. Se la realtà dovesse coincidere ed esaurirsi nelle nostre parole, così logore e meccaniche, nella nostra vita resterebbe ben poco di vivo e dilettevole.

È in realtà impossibile che una parola non abbia un suo tono musicale, per quanto scialbo e appiattito. È questo tono, con le sue modulazioni, che rivela l’anima di una persona. ‘Dire’ viene dal sanscrito dic, mostrare. Il vero dire non è infatti una dimostrazione logica ma un’evidenza. Quando nella Genesi leggiamo “e Dio disse”, questo non introduce una spiegazione ma una creazione. È l’emanazione di una specifica tonalità della parola che crea la luce, le acque, la terra con i suoi germogli etc.

Noi siamo ossessionati dalle parole e dai concetti. Ma il canto è spiegato in sé stesso. Per questo è un linguaggio che ciascuno capisce. Noi cantiamo quello che qualcosa ha fatto affiorare nella nostra coscienza. Questa presenza creante è un mistero inesplicabile per la mente. Possiamo averne solo una vaga intuizione come di una divinità che ci abita e canta in noi.

Questo Canto è il regno della grazia e della libertà. Ai suoi antipodi sta il regno del Numero, della Necessità, che è dominio della scienza. Perciò la morale può esser scientifica, non la religione. Perché la morale calcola la retribuzione degli atti: premio-castigo, perdita-guadagno, causa-effetto. È numero, contabilità. Ma la religione non è roba da mercanti.

Anche la musica è numero, ma insieme ne produce la sublimazione. Lo redime immergendolo in un flusso di relazioni armoniche. Tesse una rete di proporzioni numeriche solo per trascenderle. È senz’altro possibile tradurre una Sinfonia di Mozart in rapporti matematici.  Otterremmo così dati precisi, numeri e percentuali, ma avremmo perso il cuore.

Il cuore, il fondale inconscio dell’anima, ospita l’eterna natività del canto e della parola. È lì che si celebra il Natale. Possiamo osservarne la misteriosa epifania – con la coda dell’occhio, per non inibirla – e vedere che un tema musicale domina la nostra vita, ci precede, si apre una strada verso la coscienza e la guida, come una stella cometa, come un destino.

Siamo tutti posseduti da un leitmotiv, dall’ispirazione del nostro genio, o demone. Vi è in noi un vuoto, una sorta di cassa armonica da cui incomprensibilmente si effondono vibrazioni e risonanze. La vita non è che una serie di variazioni musicali sul nostro ‘tema natale’. Le variazioni non servono a spiegare il tema. Solo, ne prendono l’impianto, la struttura armonica e la elaborano. Per evitare la vertigine immaginiamo che tutto ciò sia opera di un cervello – la rassicurante carne – e di una lunga evoluzione che ha convertito la materia in nervi e neuroni pensanti.

Ma la carne non è che un canale in cui la musica della parola si raccoglie e scorre, come la pioggia nelle grondaie. Perciò, la frase di Stefan George – «nessuna cosa sia dove la parola manca» – andrebbe corretta: nessuna cosa sia dove il canto manca. Solo quando Dio canta il mondo appare.

Non ha un motivo per farlo, è la Sua natura, come lo è il canto per un uccello. Gli esperti non possono comprendere questa spontaneità originaria. La capiscono i mistici, i poeti, quelli che amano il cinguettio della parola. La capisce il bambino nella culla, mentre la madre canta, dolcemente china su di lui.

Non dobbiamo smettere di cantare, se non vogliamo che il cuore inaridisca. Il canto è la nostra libertà. Mette le ali alle nostre parole e le fa volare in uno spazio infinito. Perciò dobbiamo cantare con tutto l’essere. «Se infatti canterai con la voce, a un certo momento dovrai tacere. Canta invece con la vita, affinché tu non debba mai tacere» dice Agostino. Non ascoltate i necrofori del Regime e le loro mortifere raccomandazioni. Che crediate o no nel Natale, riempitelo di canti.

8 Comments

  • Rosanna 25 Dicembre 2021

    I cigni cantano prima di morire. Sarebbe bello se qualcuno morisse prima di cantare…Non ricordo chi l’abbia detto, ma calza a pennello alle “tre cornacchie”. Buon Natale

    • Livio Cadè 25 Dicembre 2021

      Sì, è perfetto per i tre becchini.
      Ma la nostra è una società scatofaga. Può digerire senza scomporsi anche questa m….

  • Claudio 25 Dicembre 2021

    Dritto al punto, cappello. Buon Natale.

  • Michele Franceschini 26 Dicembre 2021

    Per chi ha fede può anche non condividere alcune espressioni ma riguardo al valore del canto e dell’espressione dell”anima penso che ogni uomo di qualsiasi fede religiosa possa trovare un incoraggiamento ad approfondire la propria sensibilità e il proprio rapporto con la vita nella sua essenza. Il canto è un’espressione irrazionale ma ricca di emozioni e buoni proposito e nelle sue varie espressioni riesce ad incoraggiare chiunque grazie a quella sua spontanea emotività.
    Complimenti per questa chiara fiducia nella positività della vita.

  • Lupo nella Notte 30 Dicembre 2021

    >Secondo alcuni ‘Nazareno’ non verrebbe da Nazareth ma dall’aramaico netzar che significa cinguettare.

    Temo che oggi tale ipotesi etimologica rischî al massimo di ingenerare domande quali: “Cioè, quindi anche lui usava Twitter.?!”.

    Che il nuovo ciclo del Sole le sia propizio

    • Livio Cadè 30 Dicembre 2021

      Mi sa che ha ragione. Qualcuno potrebbe non capire e pensare a Twitter. Io non uso i social e non ci avevo pensato.
      La ringrazio per l’augurio. Che il nuovo ciclo sia propizio anche a Lei.

  • Lupo nella Notte 30 Dicembre 2021

    A scanso di equivoci, tengo a precisare che neppure io uso Twitter (né altri “a-social media”). Mi tengo semplicemente aggiornato sul suBrealismo dell’era presente. Sa, ne andava della mia “reputazione” di neoluddista…

    • Livio Cadè 31 Dicembre 2021

      Non avevo dubbi. Anch’io un tempo ero neoluddista. Ora, dopo le recenti vicende, sono un primitivista.

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