“Volevo strofinare la razza umana nel suo stesso vomito e costringerla a guardarsi allo specchio”.
Con queste parole, James Graham Ballard presentava al pubblico quello che lo stesso autore britannico amava intendere come “il primo romanzo pornografico basato sulla tecnologia”. Con Crash (edito per la prima volta in Italia solo nel 1990), nel 1973 il narratore riprendeva, seppur con un approccio meno sperimentale, quel discorso di scrittura anticonvenzionale iniziato qualche tempo prima con il capolavoro La Mostra delle Atrocità, rispettando, pur tuttavia, il tema della calamità universale caro ai suoi precedenti lavori fantascientifici.
Stilisticamente, Ballard incorpora nel suo testo una nuova estetica letteraria basata sulla confusione narrativa. La sintassi e la trama lineare soccombono a tecniche più accurate che vertono invece sulla distorsione e sulla sovrainterpretazione. Impiegando un’omelia di impressioni soggettive, Ballard crea un equivalente verbale della fusione surrealista tra il forense e il sentimentale precedentemente raggiunto dalle visioni di personaggi quali Dali, Magritte e De Chirico. La trama vede la voce narrante portare il nome dell’autore stesso, James Ballard. Il soggetto riepiloga in prima persona situazioni e avvenimenti mutuati dal rapporto cosiddetto matrimoniale tra l’eccitazione sessuale e gli incidenti stradali. L’automobile, in quanto mezzo tecnologico fa quindi da raccordo tra eros e thanatos. Con Crash, Ballard volle approntare un testo che esplorasse alcune tendenze vicine al confine con il tema della psicopatologia. In ciò fu determinante il background sociologico-culturale: la situazione post assassinio dei Kennedy, la sensazionalizzazione della violenza (che cominciava a fare breccia nell’immaginario popolare) e l’inizio dell’era tecnologica da cui la spersonalizzazione dell’individuo.
Nel testo, l’automobile produce un effetto erotizzante, essendo questa osservata non soltanto come immagine o feticcio sessuale, ma anche come prolungamento del corpo umano; una metafora globale per la vita dell’uomo nella società contemporanea. In questo senso, l’incidente stradale assume la caratteristica di un film pornografico. I personaggi di Crash sono intrappolati nella costante, spasmodica ricerca dell’appagamento sessuale, attraverso un coito che è però freddo, meccanico, poiché per il suo soddisfacimento è sempre necessario l’intervento del mezzo artificiale. Per il personaggio di Ballard, così come per quello della moglie Catherine, l’accostamento tra corpo umano e automobile offre una prospettiva tecnologica alla sessualità. Simili ai due sono l’avvenente Helen Remington, vicina all’ambito che studia il crash test automobilistico, e il bizzarro Vaughan, feticista ossessionato dalla mitologia dell’incidente stradale e dalle lesioni causate dallo stesso.
Per Ballard, la pornografia è la forma più politica di finzione, poichè tratta del modo in cui ci si utilizza e ci si sfrutta reciprocamente nel modo più urgente e spietato. Per lui, sesso e paranoia sono concetti inestricabili. La sessualità nasce da un’immaginazione che rimane impigliata nella sua stessa complessità. La pulsione erotica è quindi il risultato della sublimazione, non dell’impeto, mentre i personaggi che compongono il suo universo sono semplici sottoprodotti dei sistemi concettuali: le ossessioni da cui sono animati risultano talmente complesse da sfuggire alla razionalità del lettore. Il personaggio di Vaughan, ad esempio, sperimenta l’orgasmo attraverso l’elaborazione di fantasie aventi come riferimento idoli dello schermo giustapposti a immagini di vittime di incidenti automobilistici.
Ballard descrive un mondo odierno che è disumanizzato dalla mancanza di comunicazione, dalla frustrazione sessuale e quindi, riepilogando, dall’incapacità dei corpi di godere al di fuori dell’assenza di un feticcio. Un mondo che è perennemente caratterizzato dalla simulazione:
“In passato abbiamo sempre pensato che il mondo esterno intorno a noi rappresentasse la realtà, per quanto confusa o incerta, e che il mondo interiore delle nostre menti, i suoi sogni, le sue speranze e le sue ambizioni disegnassero il regno della fantasia e dell’immaginazione. Anche questi ruoli, a me pare, sono stati invertiti. Il metodo più prudente ed efficace per trattare con il mondo che ci circonda è di supporre che si tratta di una finzione completa al contrario, in quanto l’unico piccolo nodo della realtà che ci rimane si trova dentro alle nostre stesse teste. La classica distinzione di Freud tra il contenuto latente e manifesto del sogno, tra l’apparente e il reale, dev’essere ora applicata al mondo esterno facente capo alla cosiddetta realtà”.
Ancora una volta, la visione ballardiana della società è (indirettamente) esplicativa dell’attuale “presente”:
“Viviamo in un mondo dominato da finzioni di ogni tipo: merchandising di massa, pubblicità, politica gestita come fosse un ramo della pubblicità, la traduzione istantanea di scienza e tecnologia in immagini popolari, la crescente confusione e mescolanza di identità all’interno del regno dei beni di consumo, il preludio di ogni risposta immaginativa libera e originale all’esperienza dello schermo. Viviamo in un enorme romanzo. Per lo scrittore, in particolare, è sempre meno necessario escogitare il contenuto inventivo del suo romanzo. La finzione è già lì. Il compito dello scrittore è pertanto quello di inventare la realtà”.
La morte del sentimento, così come la mancanza di emozioni, sempre secondo l’autore scomparso il 19 aprile del 2009, ha spianato la strada, per l’uomo, ai suoi piaceri più malati e reconditi e alla libertà morale di perseguire la psicopatologia come fosse un gioco per intrattenersi: dall’eccitazione del dolore e della mutilazione, al sesso inteso come l’arena perfetta delle nostre stesse perversioni.
“In tutto il panorama delle comunicazioni si muovono gli spettri di tecnologie sinistre e dei sogni che il denaro può comprare. I sistemi di armi termo-nucleari e le pubblicità di bevande analcoliche coesistono in un regno illuminato, dominato da pubblicità e pseudo-eventi, dalla scienza e dalla pornografia. Sulle nostre vite presiedono i grandi leitmotiv gemelli del 20° secolo: sesso e paranoia. Voyeurismo, auto-disgusto, base infantile dei nostri sogni e desideri. Queste malattie della psiche sono ora culminate nella più terrificante vittima del secolo: la morte dell’affetto”.
Crash è la lettura di un cataclisma pandemico istituzionalizzato in tutte le società industriali che uccide centinaia di migliaia di persone ogni anno e ne ferisce milioni. Non soltanto, in sintesi, il secolo attuale rivendica tristemente la visione asfissiante di cui sopra, ma addirittura l’amplifica, tale e la volontà, da parte degli individui, di imporsi sull’asfalto con mezzi sempre più ingombranti da sfoggiare come trofei di vita, in un tripudio di SUV e maxi-car di sorta. Nel 1996, il registra canadese David Cronenberg porterà il romanzo sul grande schermo, “forte della convinzione”, dichiarerà a Cannes nel maggio di quell’anno, “che le due cose più filmate nella storia del cinema siano il sesso e le automobili”. “Il film inizia esattamente dove il mio romanzo finisce”, affermerà un entusiasta Ballard nella medesima circostanza.
Il Crash cronenbergiano pone metodicamente in scena il matrimonio malsano tra carne e lamiera dipinto nel testo originale, incuneandosi, con la macchina da presa, fra le immagini degli incidenti e le insalubri conseguenze inferte dagli stessi. Nel testo di Ballard, infatti, si possono tranquillamente rintracciare quegli elementi essenziali caratteristici delle ossessioni cinematografiche principali del regista, come la nascita di nuove forme di sessualità indotte dalla tecnologia e il rapporto perverso e autodistruttivo tra eros e civiltà. Ai tempi, il film scosse l’opinione pubblica per i forti contenuti, ritenuti inaccettabili. La censura americana ne osteggiò la divulgazione e lo stesso avvenne in Inghilterra, mentre dalle nostre parti la pellicola fu banalmente sbeffeggiata dal bigottismo radical-scribacchino di Irene Bignardi, su Repubblica:
“Crash resta una baracconata disonesta che nella povertà intellettuale di fine millennio rischia di diventare un pericoloso oggetto di culto per guardoni e cinefili boccaloni”.
Sorvolando su quest’ultima testimonianza, in anni molto più recenti un altro capolavoro di James Graham Ballard, High Rise (per noi Il Condominio), è stato trasposto su pellicola. Il libro, così come il film, attiene alle vicende degli abitanti di un grattacielo-condominio, per l’appunto, che in breve tempo regrediscono, nei comportamenti e nello stile di vita, alla condizione di uomini primitivi. Altra imperdibile metafora, non c’è che dire, di un’era contemporanea destinata a non morire mai.
Simone Gall