Lo “scontro dei treni” si è consumato. Così chiamano in Spagna la disputa tra lo Stato centrale e la Catalogna. Il governo nazionale ha sequestrato le schede per il referendum incostituzionale sulla secessione del 1 ottobre 2017, ha arrestato un gruppo di funzionari del governo locale catalano impegnati nella redazione dei provvedimenti a supporto della chiamata “disconnessione” della regione dall’autorità costituzionale spagnola, il ministero delle finanze ha assunto il controllo dei conti, la Guardia Civil e la Polizia nazionale hanno perquisito uffici della Generalitat, ovvero del governo autonomo catalano e represso le occupazioni dei separatisti insediati notte tempo all’interno dei seggi. La tensione è al massimo nelle strade di Barcellona e di altre città. A Manresa c’è stato un tentativo di assalto alla caserma della Guardia Civil, dove vivono le famiglie degli agenti, mentre i familiari del presidente di Ciudadanos, partito favorevole all’unità nazionale, sono stati oggetto di un attacco al loro negozio. Esponenti politici, commercianti, privati cittadini noti per le loro posizioni “unioniste” sono accerchiati, insultati, oggetto di intimidazioni. Insulti anche alla squadra di calcio dell’Espanyol, il cui stesso nome molesta i separatisti.
In Italia – ma non solo – la stampa manifesta una simpatia per la causa dei nazionalisti non spiegabile razionalmente. I campioni della “legalità” sembrano parteggiare per un gruppo dirigente, quello del variegato blocco favorevole all’indipendenza, che si è posto apertamente contro lo Stato, il Governo e la Costituzione spagnola, votata, tra l’altro, dai suoi stessi rappresentanti politici. Il nazionalismo catalano piace, fuori dalla Spagna, soprattutto alla “gente che piace”, ovvero ai progressisti, ai liberal ed alle élite riflessive, affluenti, quelli che sanno già tutto e hanno capito tutto. Diciamo che risentono di una mitologia antica, quella della regione ribelle ed anarcoide degli anni 30. Purtroppo, anche la stampa non schierata a sinistra è dalla parte di Barcellona. I casi sono due: disinformazione sui fatti, antichi e recenti, ma soprattutto, dietro la mistica del dialogo, dell’autodeterminazione dei popoli e di una presunta oppressione spagnola sulla Catalogna, viene nascosto l’attacco sempre più forte agli stati nazionali in nome del cosmopolitismo globalizzatore. Paradossalmente ma non troppo, esso si serve dell’esagitato nazionalismo di alcune minoranze interne per dividere i popoli e menomare sino alla distruzione la sovranità degli Stati.
Proviamo a fornire una lettura seria dei fatti di questi giorni, le cui origini sono antiche, secolari, mai i cui effetti sono la conseguenza degli errori immensi della transizione spagnola degli anni 70 del XX secolo, dopo la morte di Francisco Franco (novembre 1975), l’approvazione della costituzione (1978) e di quell’ircocervo o guazzabuglio spagnolo che è il cosiddetto Stato delle autonomie, cioè il sistema istituzionale e territoriale non più centralista, non federalista, ma nel quale alcuni – Catalogna e Paese Basco – contano più degli altri, con cedimenti successivi e sostanziali di attribuzioni, poteri e prerogative da parte della Spagna (che non viene neppure più chiamata con il suo nome, ma è declassata a Stato spagnolo).
C’è di più, ed è l’assurdo logico di un nazionalismo come quello catalano (il caso basco è storicamente e culturalmente diverso) che, nato nella destra cattolica e rurale (Prat de la Riba) e presso la borghesia liberale di Barcellona (Francisco Cambò, Francesc per l’ossessiva catalanizzazione di tutto), si è trasferito a sinistra già negli anni terribili prima e durante la guerra civile iniziata nel 1936 e terminata tre anni dopo con un milione di morti su meno di 30 milioni di abitanti dell’epoca. Oggi, i nazionalisti e secessionisti più accesi sono comunisti vecchi e nuovi che hanno gettato la maschera dopo storiche sconfitte e la ringalluzzita sinistra radicale repubblicana erede della guerra civile. La destra catalana, al governo locale quasi ininterrottamente dal 1980, e che ha espresso con Jordi Pujol il politico più abile e scaltro di Spagna dell’ultimo mezzo secolo, fortemente autonomista ma non secessionista è oggi in netta minoranza, scavalcata dall’attivismo di una società civile e politica che ha creato e plasmato essa stessa, per odio verso la Spagna e sete di potere.
Solo il paraocchi può negare l’assurdo logico, o l’ossimoro di una sinistra ultranazionalista, che canta a squarciagola l’inno detto nazionale catalano Els Segadors (I seminatori) pieno di riferimenti sanguinari e sventola la bandiera a strisce orizzontali giallorosse della Catalogna a cui ha aggiunto una stella bianca in campo azzurro, imitazione della bandiera della rivoluzione castrista cubana. Con buona pace di qualche leghista brembano ammirato dal secessionismo in salsa catalana, l’Estelada, la “stellata” ostentata dai manifestanti di Barcellona, distinta dalla antica senyera simbolo del Principato, è simbolo di un bizzarro nazionalsinistrismo che torna a galla dalle viscere della storia spagnola, che ha visto, nel drammatico decennio precedente la guerra civile, il tentativo di frantumare la Spagna in maniera violenta e farla finita con l’esistenza di una delle più antiche nazioni europee.
Nelle presenti circostanze, va riconosciuto che in Spagna tra i primi ad aver compreso la portata dello scontro e della posta in gioco sono stati gli esponenti della sinistra intellettuale non comunista il cui organo di riferimento è il quotidiano El Paìs. Il giornale dei progressisti iberici ha assunto una posizione chiarissima che potremmo definire patriottica in senso lato, prendendo duramente le distanze dal mondo nazionalista ed antispagnolo che in altre stagioni aveva largamente appoggiato, riconoscendo gli indizi e gli schieramenti di una nuova contesa civile intraspagnola dagli esiti imprevedibili. Ciò che non viene raccontato dagli osservatori italiani è che il governo autonomo locale, presieduto da un uomo di centrodestra, Carles Puigdemont, esponente del declinante partito che ha preso il posto di Convergenza Democratica di Catalogna, chiusa per debiti e per corruzione, è in mano ad estremisti paragonabili a Lotta Continua, la CUP (Candidatura di Unità Popolare) mentre il motore ed il cervello dell’operazione secessionista unilaterale è Sinistra Repubblicana (ERC), un partito che agisce da ben prima della guerra civile e si è disfatto dell’eredità di uomini come Josep Tarradellas e, più recentemente Heribert Barrera, che seppero mantenere attitudini meno distruttive.
Non che la Spagna ufficiale non abbia gravi colpe, giacché la peculiarità catalana, vera ed indiscutibile, è stata in genere negata o repressa. Tuttavia, la monarchia spagnola, prima della tempesta giacobina della Rivoluzione Francese, seppe trovare un secolare punto d’incontro con le popolazioni basche e catalane, insofferenti dell’egemonia castigliana, attraverso le autonomie dette forali, che garantivano fedeltà alla Corona in cambio di autogoverno e rispetto delle particolarità e degli usi, anche giuridici, locali. Nel XX secolo, ed a partire dall’umiliazione nazionale del 1898 susseguente alla perdita dell’ultima grande colonia, le Isole Filippine, l’incomprensione e la contrapposizione territoriale si acuì, alimentata dalla resistenza centralista di Madrid, ma anche dalla superbia, dal senso di superiorità e dall’interessata avarizia della borghesia catalana.
Il punto di scontro più vivo, il punto di forza catalanista fu sempre costituito dalla difesa della lingua ed effettivamente la repressione dell’uso pubblico del catalano è sicuramente colpa storica della Spagna dal 1800 al 1975. Dietro l’eccezione culturale, tuttavia, agiva l’interesse del ceto imprenditoriale, più attivo che quello del resto della nazione, un’industrializzazione che non riusciva tuttavia a competere con le nazioni europee, talché la Spagna sempre fu protezionista con l’industria, il commercio e la finanza barcellonese. Poi ci fu il franchismo, con il suo nazionalcattolicesimo e lo spirito di rivalsa nei confronti dei territori, come la Catalogna e le province basche, che contrastarono la Spagna nazionale nella tragedia del conflitto civile. Peraltro, i ceti dirigenti catalani e baschi ben si accomodarono al franchismo, in cambio di vantaggi, investimenti pubblici e repressione nei confronti delle masse operaie delle due regioni, costituite in gran parte da spagnoli delle aree più povere del Sud, come l’Andalusia e l’Estremadura e della Galizia atlantica.
La ferita della guerra giunse dopo almeno trent’anni di instabilità e disordine, e fu alimentata da un brodo di coltura fatto di povertà, privilegi di casta, odi antichi, difficile transizione verso la modernità di cui fu portavoce la generazione del 27, i poeti ed artisti, quasi tutti andalusi, che si schierarono poi con la Repubblica e condividevano un forte pregiudizio insieme antinazionale ed anticattolico che si convertì in risentimento contro la storia spagnola, in particolare contro la sua regione-madre, la Castiglia cuore ed anima della nazione. Sono celebri due ingenerosi versi di una pur splendida lirica di Campos de Castilla di Antonio Machado: Castilla miserable, ayer dominadora, envuelta en sus andrajos, desprecia cuanto ignora (Castiglia miserabile, ieri dominatrice, avvolta nei suoi stracci, disprezza quanto ignora). Il poeta sivigliano, di idee repubblicane, si rifugiò proprio a Barcellona durante la guerra civile e morì nel tentativo di attraversare la frontiera francese dopo la presa della città.
Il quadro disegnato dimostra quanto sia complessa la storia del paese e come non possa essere valutato il difficile presente senza un minimo di conoscenza di eventi, umori, rancori secolari, avversioni reciproche che lo scuotono almeno dal secolo XIX, diremmo dalla costituzione liberale di Cadice imposta dall’occupante francese nel 1812. Da allora, per motivi diversi, nessun equilibrio è stato realizzato senza schiacciare una delle parti in causa.
Nel 1975, morto il Caudillo, che era comunque riuscito a tenere insieme la nazione, avviarla ad una prudente modernizzazione ed anche a evitarne, almeno in parte, l’isolamento internazionale, tutto cambiò, ma gli errori della Spagna di quegli anni cadono adesso sul presente come un palazzo privo di fondamenta implode su se stesso dopo un terremoto. Lo Stato delle autonomie, infatti, è una stranissima e fragilissima costruzione che non ha ammesso apertamente la sua vera ispirazione, non unitaria, surrettiziamente federale, differenzialistica, non autonomista, ha lasciato in sospeso mille questioni, spezzato l’unità della Castiglia, suddivisa in cinque parti con aggiunta della Mancia di Don Chisciotte e del Leòn, e riconosciuto privilegi alla Catalogna ed alle province basche (ribattezzate Euskal Herria nel lessico dell’aperto razzista Sabino Arana) giustificati dalla condizione di “nazionalità storiche” e dalla paura di nuove violenze. La transizione con le autonomie “di via rapida” ha comportato la concessione dello Statuto alla Catalogna, con la rinascita della sua istituzione guida, la Generalidad, ma anche le fondate proteste della regione più popolosa del paese, l’Andalusia, egemonizzata dal Partito Socialista di Felipe Gonzàlez e una divisione della torta che ha danneggiato il centro territoriale del Paese.
Nella confusione seguente, lo Stato centrale si è progressivamente spogliato di moltissime competenze a favore di tutte e diciassette le regioni, ma la parte del leone è toccata alla Catalogna. I partiti di destra, in difficoltà per l’identificazione con il franchismo, hanno praticamente rinunciato ad essere presenti e propositivi nelle due regioni separatiste, appaltandone l’amministrazione a forze ideologicamente affini, ma politicamente opposte per il loro nazional localismo, come il PNV, partito nazionalista basco e soprattutto Convergenza in Catalogna, regione che rappresenta il 17 per cento della popolazione e almeno il 20 per cento dell’economia.
Destra e sinistra spagnole, impossibilitate a trovare accordi diretti, per decenni si sono alternate al governo a Madrid patteggiando con la spregiudicata minoranza parlamentare catalana, il cui appoggio ha significato sempre nuove competenze, trasferimenti di denaro e di potere che, nel tempo, hanno pressoché sostituito in loco lo Stato spagnolo con un agguerrito mini stato catalano. Per quanto sembri incredibile, la Generalidad ha rango di parlamento e la sua amministrazione si chiama governo; non ci sono assessori ma ministri e si fa largo la pretesa, molto costosa per il contribuente, di avere rappresentanza all’estero. Anche in Italia esiste una delegazione del “Govern de Catalunya”, presieduta dal dottor Luca Bellizzi. Da almeno vent’anni, poi, il separatismo lotta per avere proprie rappresentative “nazionali” sportive ed un distinto comitato olimpico, mentre una lunga battaglia è stata condotta nel mondo di Internet per ottenere indirizzi informatici con dominio separato: esibire un sito “punto cat” è un orgoglio catalano. Tutto questo sarebbe aneddotico e persino pittoresco, se tra le competenze di cui si è spogliato lo Stato non ci fossero quelle sull’educazione, la sanità, la fondamentale politica linguistica ed in parte l’ordine pubblico.
Agli ammiratori del nazionalismo catalano, che si definisce aperto, inclusivo e dinamico come la “nazione” che incarna, va fatto conoscere il vergognoso attacco contro tutto ciò che è spagnolo, a partire dalla lingua. Sebbene la Costituzione spagnola, e lo stesso Statuto garantiscano il bilinguismo, la Catalogna si comporta nei confronti della lingua spagnola (sempre definita castigliana) come la Spagna con la regione ribelle nei suoi peggiori momenti di plumbea uniformità. Non solo tutte le scritte pubbliche sono redatte esclusivamente in catalano, ma è monolingue il bollettino ufficiale della Generalitat, come ogni avviso, documento e comunicazione delle istituzioni. Le insegne delle attività commerciali devono essere in catalano pena multe notevoli, mentre chi riconverte nella lingua locale le proprie didascalie è sovvenzionato. La modulistica delle istituzioni territoriali e sanitarie non sfugge all’imposizione monolinguistica che, rammentiamo, taglia fuori e comunque discrimina quasi la metà della popolazione, che non è di madrelingua catalana ma spagnola. Dei 7,5 milioni di abitanti, almeno 900.000 sono nativi della sola Andalusia e l’immigrazione interna dal resto della Spagna da un secolo è il principale sostegno dell’industria catalana.
Il vero asso nella manica dei nazionalisti, il colpo da maestri su cui hanno costruito il loro potere, costruito e diffuso la narrazione storica di nazione oppressa e messo in piedi un potentissimo apparato propagandistico, burocratico e clientelare è stata la cosiddetta “immersione linguistica”, ovvero la sostituzione pura e semplice della lingua spagnola con quella catalana, imponendola negli apparati pubblici territoriali e nella rete televisiva pubblica TV3 nel silenzio complice dei governi nazionali. Una Spagna matrigna che ha abbandonato per miope tornaconto oltre 3 milioni di concittadini, definiti xarnegos, termine che, per l’Istituto di Studi Catalani (organo della Generalidad), corrisponde a “immigrato di lingua castigliana residente in Catalogna, detto spregiativamente”. Il dramma- poiché spesso tale diventa – è avere imposto il catalano come lingua in cui viene impartito l’insegnamento durante tutto il corso di studi.
In Alto Adige la popolazione di lingua tedesca ha ottenuto scuole di ogni ordine e grado nell’idioma materno dei sudtirolesi, ed è una conquista di civiltà, ma la minoranza di lingua italiana – netta maggioranza nella città di Bolzano e dintorni – dispone di altrettante scuole nella nostra lingua. In entrambe, si prevede, per ovvi motivi di comunicazione e di reciproca integrazione, l’insegnamento dell’altra lingua ufficiale della provincia. Tale modello viene respinto energicamente dalle parti di Barcellona in quanto il catalano sarebbe “l’unica lingua propria della nazione catalana”. Sofferenze e difficoltà enormi per bimbi e ragazzi di lingua spagnola o provenienti da altre zone del Paese, dodicimila insegnanti costretti ad emigrare, non pochi lavoratori di ogni settore che rifiutano il trasferimento in Catalogna per la difficoltà scolastica che dovrebbero affrontare i loro figli, nonché per la pretesa legale di dimostrare la conoscenza dell’idioma locale anche in impieghi in cui non appare necessaria.
Sarebbe questa è l’attitudine “integratrice, aperta e dinamica”, nonché progressista che tanti ammiratori suscita tra i fieri democratici nostrani e, disgraziatamente, anche in diversi “moderati” di casa nostra, specie del Nord. Si tratta, al contrario, di assimilazione forzata sotto pena di esclusione sociale, di negazione della realtà plurilingue da oltre mezzo millennio, oltreché, ed è il tratto peggiore del sistema, di un indottrinamento continuo dei giovani, in spregio ai fondamenti della democrazia, a partire dai libri di testo, per continuare all’interpretazione capziosa della storia comune, alla diffusione sottile quanto pervicace del disprezzo di tutto ciò che è spagnolo. Espanolista, spagnolista, è un epiteto lanciato come oltraggio ai concittadini di origini, o lingua, o semplicemente di convinzioni distinte da quelle del nazionalismo locale.
Non potendo contare su una forte base etnica come nel Paese Basco, i catalani considerano tali tutti coloro che vivono in Catalogna, stranieri compresi, purché rinuncino a sentirsi spagnoli. E’ quindi ormai prevalente un sentimento che pone i figli – educati in una scuola con tratti parossistici da regime ultranazionalista– contro i padri. Le generazioni più giovani, allevate nella scuola a competenza esclusiva regionale, sono le più sensibili al messaggio separatista, anche perché è l’unico che abbiano ascoltato. Il silenzio colpevole dell’altra Spagna e dell’altra Catalogna politica e culturale è infatti impressionante ed è rotto solo da pochi anni da alcune benemerite entità civiche e da un’unica forza politica, Ciudadanos, partito centrista in questi giorni nel mirino dei facinorosi avvolti nell’ Estelada ben più che il Partito Popolare di governo.
Le colpe di questo partito sono enormi: da un lato, ha rifiutato spesso il dialogo con i catalani anche su temi su cui l’accordo era possibile e doveroso, ma dall’altro ha lasciato campo libero ai separatisti per almeno trent’anni in cambio di un patto scellerato di corruzione e di potere. Troppo tardi per correre ai ripari, la soluzione è lontanissima e del resto il PP ha rinunciato programmaticamente ad essere partito nazionale anche in Galizia, dove domina da sempre e cavalca il micro nazionalismo locale, altra insidia per quel che resta dell’unità nazionale spagnola. La parlata locale, variante del portoghese, viene imposta come lingua ufficiale, in galiziano si esprime nel Consiglio regionale il presidente del PP, e anche le città hanno cambiato nome. La Coruna è divenuta A Coruna, Orense Ourense, mentre El Ferrol, città natale di Franco è adesso semplicemente Ferrol.
I telegiornali e financo la stampa, che è ovviamente quasi tutta in lingua spagnola, si adeguano. La Babele linguistica e toponomastica, naturalmente, ha per epicentro la Catalogna, in cui è pressoché proibito chiamare Lérida la città con quel nome, adesso Lleida, e dove i due grandi quotidiani in lingua spagnola, che dipendono largamente da sovvenzioni della Generalidad, non si azzardano a scrivere Catalogna nella versione spagnola Cataluna con la tilde, il caratteristico segno a esse rovesciata sopra la lettera enne esclusivo della lingua spagnola che si legge “gn”. Siamo al punto che le istituzioni locali si offendono assai se non si scrive Catalunya (la pronuncia è uguale, per fortuna) e se ci si azzarda a indicare in spagnolo il nome di qualsiasi istituzione, a partire dall’onnipotente Generalitat.
Poiché poi il nazionalismo sovreccitato spesso tende non solo ad escludere, ma anche ad aggredire o rivendicare patrie altrui, viene altresì alimentato il mito dei Paesi Catalani, ovvero una specie di imperialismo dell’Estelada, che dovrebbe comprendere la regione di Valencia, la quale risponde detestando cordialmente i vicini del Nord, le Isole Baleari, una fettina della derelitta Aragona (culla di lingua spagnola del Regno di cui fece parte la Catalogna medioevale sino all’unificazione da parte dei Re Cattolici) e, per non farsi mancare nulla, il dipartimento francese dei Pirenei Orientali il cui capoluogo è Perpignano. Anzi, al consueto gentile, democratico ed inclusivo falò della bandiera nazionale spagnola cui si abbandonano impuniti i separatisti in ogni occasione, da quest’anno si è unito il rogo di bandiere francesi. Con maggiore dignità di quelle madrilene, le autorità francesi hanno vivamente protestato, esigendo indagini e punizione dei responsabili.
Poi, ultimo ma forse primo per importanza e pericolosità, specie nel futuro prossimo, c’è il tema della folle concessione, condivisa con il Paese Basco, la Navarra e le Isole Canarie, di un corpo di polizia di obbedienza e competenza regionale. Dopo l’attentato della Rambla, il grande pubblico ha conosciuto l’esistenza dei Mossos d’Esquadra, i ragazzi di squadra, che sono ben 17.000, ovviamente sono armati, sia pure con armi leggere, manovrano blindati antisommossa, sono nominati in concorsi locali e rispondono agli ordini del governo regionale, cui sono stati assegnati i poteri di ordine pubblico. E’ come se ad una associazione di piromani fosse attribuita la direzione dei vigili del fuoco. Risultato, le polemiche durissime relative alle indagini malfatte sul terrorismo islamico, la mancanza di dialogo con Polizia e Guardia Civil, le diverse catene di comando.
Nella situazione dello “scontro di treni “istituzionale, a chi obbediranno i Mossos? A livello nazionale, già si pensa di esautorarli in alcune funzioni in quanto sembrano inattivi rispetto alle consegne ricevute dai tribunali dello Stato in ordine alle questioni del referendum illegale. Intanto, le forze di polizia nazionale sono in netta minoranza in Catalogna e spetta ai Mossos il controllo esclusivo del territorio, tanto che in questi giorni si assiste all’assurdo di poliziotti e guardie civili che svolgono l’attività istituzionale con alle spalle i militi locali che fanno da cordone rispetto alle intemperanze dei più esagitati nazionalisti.
Abbastanza divertente è verificare che anche la parola nazionalista non chiarisce il senso di ciò che accade: meglio separatista o indipendentista. Infatti, la nazione fa riferimento alla nascita, al radicamento delle generazioni, ma i più accaniti “indepes” sono figli degli emigranti spagnoli. Il capo dell’Assemblea Nazionale Catalana si chiama Sànchez, il cognome della deputata di Podemos che ha gettato via una bandiera spagnola deposta nella Generalitat nel corso di un dibattito è Martìnez, il responsabile dei Mossos, Trapero, è originario di Valladolid, Nuova Castiglia. Lo stesso Puigdemont, dal cognome catalanissimo, è in parte di ascendenza andalusa. Ed è normale, in una terra che ha oltre cinquecento anni di storia comune. Dov’è, dunque, questa nazione tanto distinta e diversa dalla Spagna, se non nei libri di testo partigiani, nella lettura unilaterale della storia, nel vittimismo e nel disprezzo ostentato verso gli “espanolitos”, nell’ impartire lezioni di civiltà e democrazia da assai dubbie cattedre? Gli stessi Mossos d’Esquadra portano il nome niente affatto neutrale di reparti catalani del 1700 che si opposero con le armi al Regno durante una delle periodiche ondate di violenza che hanno attraversato la Spagna in ogni tempo.
Il dente, insomma, duole da secoli, ma la metastasi è figlia di un quarantennio di errori e, dal lato catalano, probabilmente è figlio di inconfessabili accordi con settori della finanza, della massoneria internazionale, molto forte in Catalogna, con opachi comitati d’affari che chiamano in causa gli Emirati Arabi e il regno del Marocco, che incoraggia l’emigrazione in Catalogna, molto gradita da quegli strani nazionalisti e dai loro referenti del potere economico. La Spagna, tuttavia, ha battuto, finalmente, un colpo. Nel nome della storia e per difendere gli Stati nazionali, argine debole, ma insostituibile contro il dominio cosmopolita del denaro, stiamo dalla parte del vecchio Regno di Spagna, che è, per quanto sembri strano, la stessa parte di una Catalogna libera, plurale, attiva, pacificata, non rancorosa e provinciale come è diventata contro la sua stessa vocazione di avanguardia, un paese bello e civile in cui si deve poter vivere da spagnoli, da catalani, da stranieri e anche da apolidi.
ROBERTO PECCHIOLI
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