Imbelle come sempre tra i due fuochi (Washington e Mosca) l’Europa traccheggia visibilmente a corto di idee, categoria nella quale non ricadono le lezioncine un tanto al chilo impartite dai semicolti negli studi televisivi e sui social. Mentre gli Europei assistono al disfacimento di tutta la narrazione storico-scientifica che va dalla concezione dell’ideologia del progresso alla politica liberal, ormai incapace di formulare proposte di qualsiasi genere.
Prossimamente cambieranno molte cose a causa del succedersi degli accadimenti, non certo dietro la spinta di grandi visionari e pensatori. Retrograda e conservatrice la classe pseudo-intellettuale europea oggi sa di muffa, un po’ come la Vecchia Signora che riesce solo a guardare indietro rimembrando i bei tempi andati, quando tutti pendevano dalle sue labbra. Non aspettiamoci dunque da personaggini succubi di grigie ideologie e di piccoli centri di potere una discesa in campo per combattere la «battaglia per la cultura», che sarà la madre di tutte le battaglie.
Per anni costoro ci hanno dato ad intendere che la tecnologia avrebbe migliorato enormemente le nostre vite aumentando il benessere collettivo, non riuscendo neppure a capire che si trattava di mera produttività a vantaggio della ricchezza di pochi. E alle prime difficoltà ci hanno lasciati soli di fronte alla Terza Rivoluzione Digitale che minaccia di portarci via anche le ultime cose rimaste: creatività e spirito di collaborazione.
Eppure non ci volevano menti eccelse per intuire che non saremmo stati più felici in versione robot sapiens, dopo la fusione completa fra l’uomo e la macchina, la rigenerazione cellulare, gli impianti cibernetici sottopelle, le mutazioni genetiche controllate, la condivisione degli spazi con le super-intelligenze artificiali, l’uso dell’informatica quantistica.
Nessuno nega che a livello individuale si possa anche fare «un uso euristico e intelligente» della tecnologia (Giulio Giorello, pace all’anima sua), ma era chiaro fin dall’inizio che le tecnoscienze diffuse in ogni anfratto della vita umana sarebbero esplose nella massa in modo devastante. La conoscenza è solo per colui che conosce, dicevano gli Antichi.
A.A.A. intelligenze non artificiali cercasi
Con la cultura europea adagiata sugli allori del passato, il pensiero critico è finito in chiacchiere di cui nessuno più si cura, dimostrando così tutta la sua incapacità di esprimere un’alternativa degna di questo nome. Purtroppo la complessità dei problemi è nettamente superiore alle forze concettuali in campo.
Tutto ormai è gigantesco, smisurato, esageratamente vasto. La società stessa è diventata un insormontabile ostacolo al normale e fisiologico sviluppo della vita umana sulla Terra e le nuove generazioni vivono alla giornata, come emerge da uno studio pubblicato nel 2017 dalla Fondazione Visentini dal titolo “Il divario generazionale tra conflitti e solidarietà: generazioni a confronto”.
Biologicamente la maturità inizia a 18 anni, una soglia oltre la quale l’individuo è ufficialmente autonomo. Tuttavia in Italia (ma non va meglio negli altri Paesi europei) il giovane lavoratore che nel 2004 raggiungeva l’autonomia economica in 10 anni circa, nel 2020 ha raddoppiato il tempo dell’attesa e nel 2030 lo triplicherà. Un dato preoccupante, visto che fare i «ragazzi» fino a 48-50 anni produce forme di profonda alienazione, foriere di mille nevrosi.
Non rincuora il dato riguardante il livello d’intelligenza (QI), che pare si stia abbassando sensibilmente. Ad esempio quello medio dei francesi è calato collettivamente di 3,8 punti fra il 1999 e il 2009, assestandosi a 97,3 e perdendo così la media 100. Si nota la stessa tendenza nei paesi nordici, in Olanda e in Gran Bretagna.
Ovunque emerge uno scadimento dell’istruzione, una perdita di interesse per la lettura e la cultura in generale (corollario della perdita di identità), un diffuso disagio sociale. Non rimedieranno ai danni gli immigrati africani che si riversano incessantemente nel Vecchio Continente, dato che il loro QI medio si attesta fra 85 e 90. Anche se non è politicamente corretto affermarlo, perché bisogna dire che le razze umane non esistono (cioè il cane e il gatto sono animali identici), e per lo stesso motivo sarebbe meglio non approfondire certi recenti studi che danno per certa una componente non-sapiens pari a circa il 20% nel DNA delle popolazioni subsahariane.
Allo sconfortante bilancio culturale vanno aggiunti fattori irreversibili come il progressivo invecchiamento e l’infertilità. Eppure l’Europa è stata raramente seconda a qualcuno. Quando nella lontana preistoria i Cinesi, passando dall’arte naturalistica all’arte magica, iniziarono a divinare mediante gusci di tartaruga e poi crearono gli ideogrammi, la Cultura del Danubio produceva «le tavolette di Tartaria». E volendo si potrebbero riempire pagine e pagine di esempi, ma è inutile piangere sul latte versato.
Così come eravamo «grandi», adesso siamo diventati troppo piccoli. La politica è un gioco di percentuali e proporzioni, e nella vastità dello scenario globale non valgono niente tanti governicchi che gareggiano fra loro per aggiudicarsi il titolo di primo della classe.
Se vogliamo ritornare in cattedra, dobbiamo dunque recuperare qualcosa della grandezza perduta, cioè della cultura che appartiene tanto a noi quanto al resto del continente eurasiatico. Non servono a rifare l’Europa le visioni d’importazione con cui i popoli europei hanno poco o nulla da spartire.
Elogio del giovin signore
Difficilmente il cambiamento avverrà per mano dei nostri figli, ma ciò non impedisce a ciascuno di noi di impedire ai nipoti di cadere a loro volta in balìa dei desideri e delle tentazioni come tanti Pinocchi nel Paese dei Balocchi. Solo noi abbiamo conosciuto un’altra realtà prima di questa, quindi tocca a noi raccontare una storia diversa da ciò che appare.
Chiaramente il discorso sui figli vale in linea di massima. Sappiamo tutti che ci sono al mondo dei «ragazzi meravigliosi», per usare l’espressione di un mio concittadino noto ai rotocalchi. Neppure il «parco umano» di chi vive in forme provvisorie, precarie e mai mature, è omogeneo. Accanto ai figli della classe medio-bassa che consumano voracemente e supinamente tutto ciò che la rete propone a «buon prezzo» ci sono gli iperattivi figli della classe medio-alta che, accantonati gli antichi ozi, non si fermano mai. Master a Berkeley, MBA ad Harvard e durante l’estate via a fare gli umanitari a bordo della Sea Watch, o in Africa con Human Rights, o da qualche altra parte a «ridurre le diseguaglianze e combattere il cambiamento climatico».
Gli obiettivi di questi ragazzi sono tuttavia strettamente personali, la società non trae alcun beneficio dalle loro avventure. A differenza del «giovin signore» di scolastica memoria che oziava aumentando il fatturato dei caffè e delle botteghe cittadine, ossia sfamando intere famiglie, il «giovin borghese» del XXI secolo rimane nel «giro» dei fortunati che possono vivere di rendita, presenta caratteristiche standard riconoscibili a distanza anziché una sua personalità e fa esattamente ciò che il centro unico di potere desidera che lui/lei faccia.
Un pensiero nostalgico va quindi al brillante sfaccendato di un tempo, il quale se non altro leggeva e aveva una sua opinione su tutto. Forse non è vero che «l’ozio è il padre dei vizi», e comunque la scomparsa di questi personaggi pittoreschi ha contribuito a cambiare i connotati dei nostri centri urbani, spersonalizzandoli.
Simone Weil l’aveva previsto nel 1943 in “L’enraciment”, un testo lungimirante in cui l’allieva di Heidegger immaginava le città europee del futuro come poi sono effettivamente diventate partendo dal Piano Marshall (1945) e passando per il Sessantotto: caotiche, cosmopolite, post-industrializzate e quindi dismesse, orfane dei piacevoli bistrot e delle botteghe storiche, invase dai grossi centri commerciali e popolate da moltitudini che non possono invecchiare, precarie a vita, anglofone, immature.
La lepre astuta
Riconosco che non è facile avere 20-30anni di questi tempi. Nessun giovane Davide può avere ragione sul Golia chiamato «OTT» (Over the Top) e comprendente Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft, IBM, GAFA. Sostenuto dalla sigla NATU, che comprende Netflix, Airbnb, Tesla, Uber. Alleato di Big Data, che designa i colossi di Silicon Valley gestori di reti e connessioni. Ingigantito dalla forza di Big Pharma, che conta sulla formazione di un’umanità ipocondriaca.
Uno scontro frontale contro un simile avversario sarebbe un sacrificio inutile. Meglio la fuga, che in casi estremi come questo non è disonorevole. Anziché stare al gioco ci si concede un periodo sabbatico per studiare i problemi e analizzare le situazioni allo scopo di elaborare delle strategie alternative.
Quando il soggetto dominante intuirà l’insubordinazione, sarà troppo tardi. Mentre noi avremo avuto tutto il tempo di esaminare ogni minimo dettaglio, ivi incluse le possibili vie di fuga. “La lepre astuta ha sempre tre uscite dalla sua tana”, recita un antico detto cinese.
Faccio un semplice esempio: aprire una pagina social per sbugiardare chi possiede non solo quella pagina ma anche tutto il resto, significa farsi chiudere lo spazio nell’arco di pochi giorni passando automaticamente dalla parte dei logorroici farneticanti che nessuno ha più voglia di ascoltare. Rosicchiando invece la credibilità dell’avversario poco per volta, attribuendo un peso sempre minore ai suoi dettami con gentilezza e ironia, si eviteranno i controlli diretti e si avrà tutto il tempo di allargare la cerchia degli interessati.
Per un certo periodo si darà l’impressione di essere inoffensivi, e poi si giocherà sull’effetto sorpresa. La magia dell’illusionista non consiste forse nell’attirare lo sguardo dello spettatore in una direzione, mentre abilmente si compie il trucco in un’altra? Il termine cinese wu è l’equivalente del nostro bluff e significa confondere l’avversario facendogli credere vero il falso e falso il vero, cioè dandogli ad intendere di essere sottomessi quando in realtà ci sta informando, attrezzando, fortificando, armando.
È tempo di morire
Il «totalitarismo liberale» è il primo a bleffare. Ostentando una capacità autosalvifica in realtà inesistente (l’illusione di un mondo democratico basato sui diritti), negli ultimi anni si è mangiato persino le opposizioni, per cui adesso non si capisce bene chi dovrebbe traghettare la società umana sulla sponda opposta.
Nessuno, probabilmente. Ecco perché dobbiamo imparare a contare solo su noi stessi introducendo quotidianamente dei micro-cambiamenti nella nostra vita privata, nel lavoro, negli interessi, nelle case, nelle città. Il miglioramento passa dalle cose semplici di tutti i giorni, non dai numeri e dalle statistiche, dagli indici Mibtel e dalle stime di crescita.
Nessun reale progresso culturale potrà avvenire in assenza di una narrazione condivisa che preveda una profonda trasformazione di mentalità e una sostituzione dei simboli. Quelli «occidentali», cioè americani, non sono «europei» e servono poco alla causa.
Vogliono formare un’Europa di straccioni dipendenti dal «reddito universale»? Studiamo allora una strategia per ostacolare il progetto. A differenza dei banchieri cosmopoliti che comandano il mondo, noi una Storia ce l’abbiamo e ricordiamo benissimo le guardarobiere, le dame di compagnia, i maggiordomi, i valletti in livrea che precedevano con sussiego le carrozze dei nobili.
I laquais, cioè i «lacché», furono i più convinti sostenitori del sistema nobiliare (oggi globale), i custodi dell’etichetta (oggi politicamente corretto), i nemici giurati del popolo che viveva nei quartieri bassi (oggi periferie). Fedeli fino all’ultimo, essi seguirono il destino dell’aristocrazia fin sotto la forca quando la rivoluzione del 1789 cominciò a mietere teste.
Sono atteggiamenti ricorrenti in società come la nostra dove vigono estreme diseguaglianze. Scarsi privilegi, blocco dell’ascesa sociale, eccesso di manodopera non qualificata e precaria, assolutismo. Oggi i lacché scrivono sui giornali mainstream e appaiono spesso in televisione, sono cambiati i mezzi di comunicazione ma l’assetto sociale europeo è sempre lo stesso.
Forse è arrivato il momento di offrire all’Europa qualcosa di diverso. O meglio, di molto antico. Per usare le parole espresse nel 2004 dall’allora cardinale Ratzinger, futuro Benedetto XVI, “(…) L’Europa ha bisogno di una nuova accettazione di sé stessa, se vuole davvero sopravvivere. La multiculturalità, che viene continuamente e con passione incoraggiata e favorita, è talvolta soprattutto abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle cose proprie.”
Ai tempi le parole di Ratzinger caddero nel vuoto. Ma poi ci fu la grave crisi economico-finanziaria del 2007-8, seguita dall’ancora più grave crisi pandemica del 2020, e adesso che la terra umida sta franando sotto i nostri piedi non possiamo più stare a guardare.
Se davvero l’autentica Europa uscirà fuori sull’orlo di una tomba, come previsto da Nietzsche, siamo arrivati al dunque. Chiudiamo gli occhi e lasciamoci morire. Non c’è motivo di rimpiangere le anticaglie spacciate per novità che fino ad oggi hanno impedito alle nuove generazioni di risorgere con energie intellettuali sane e capaci di lavorare a una vera rivoluzione culturale.
La lotta delle tigri
Staremo a vedere se la valanga-Covid farà la differenza, seppellendo l’incultura del piacere e del desiderio effimero. In ogni caso, comunque, il «mondo di prima» non tornerà più indietro. E probabilmente lo sanno anche ai vertici, visto che l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile è il solito elenco di ovvietà: lotta alla povertà e alla fame (ne parlano da quando sono nata), salute, istruzione, uguaglianza, giustizia, acqua, igiene, energia, clima, biodiversità, innovazione infrastrutturale, città inclusive, economia responsabile, partenariato. Pace, amore e musica inclusi nel pacchetto.
Quando le idee finiscono, la fine della storia è vicina. Presto le varie parti che compongono il Moloch del potere globale entreranno in conflitto e si annienteranno a vicenda. A costoro non è mai interessato, come ai grandi conquistatori del passato, ottenere il potere materiale sull’uomo. Il loro intento era fin dall’inizio quello di entrare nella sua dimensione interiore, di scardinare la sua intelligenza, di distanziarlo dai suoi simili per possederlo totalmente.
Ma sfortunatamente per loro, tutti desiderano la stessa cosa e la principale caratteristica del possesso è l’esclusività. Se finora si è assistito dunque a un’azione sinergica nell’ottica di una comune prospettiva, è quasi certo che in vista del traguardo ogni concorrente tenterà con qualsiasi mezzo di squalificare gli altri.
A quel punto i cento diventeranno dieci, o cinque, e allora ci sarà spazio anche per le nostre idee e le nostre proposte. Vincere senza lottare, questa è la vera arte del combattimento. Vigilare sull’evoluzione degli eventi con attenzione e pazienza (“seduti in cima a un’altura, si assiste alla lotta delle tigri”) mentre dall’altra parte sale il vento della discordia e divampano i dissidi intestini, che in quanto umani sono inevitabili.
Cautela e tempismo
Quando verrà il momento, calma e sangue freddo prima di abbandonare il posto di osservazione. Il colpo di coda del mostro ferito potrebbe essere letale. Come consiglia Sunzi nell’Arte della Guerra, quando l’avversario è troppo forte è bene essere cauti e attendere l’occasione giusta, che comunque arriverà.
Il relativismo cinese ha spiegato in modo esemplare che nulla è definitivo. Per qualche inspiegabile ragione, ogni situazione ha la tendenza congenita a mutarsi nel suo opposto. Tutto si muove incessantemente come una ruota che gira. I tempi bui diventano inaspettatamente luminosi, ad ogni fine segue un nuovo inizio. Non è mai il caso di disperare.
Meglio occuparsi di sé per non perdere la pazienza, rimanendo fedeli alla propria linea con il minimo spreco di energia e al costo minore. Ducunt fata volentem, nolentem trahunt, dicevano i latini. Il destino conduce dolcemente chi lo segue, trascina chi gli resiste.
Non è la fine del mondo se nel breve periodo non si possono ottenere risultati eclatanti, vorrà dire che si impiegherà il tempo a lavorare in una prospettiva di lungo periodo. Nel nostro caso, già adesso c’è parecchio da fare per trasformare l’ethnos in kultur affinché popoli e società differenti che si trovano nel medesimo tempo cronologico possano inventarsi qualcosa di radicalmente nuovo.
Sarà un lavoro lungo e capillare, dato che nell’Era del distanziamento sociale e del cosiddetto smart working incontrarsi è diventato difficilissimo. Aspettiamoci nei prossimi anni la scomparsa degli scioperi e delle manifestazioni di protesta, perché non interesserà a nessuno la voce di cittadini che hanno perso la capacità di controllo del processo produttivo.
Uno vale l’altro. L’innovazione tecnologica è andata avanti così speditamente (in modo disumano) da impedire la sedimentazione di quelle conoscenze e competenze che un tempo costituivano «l’esperienza» di ciascuno e differenziavano Tizio da Sempronio. Chiunque oggi può far funzionare una macchina dopo un adeguato addestramento, c’è poco da fare la voce grossa.
A tutto c’è un limite
Per certi versi la poderosa «sostituzione antropologica» attualmente in corso è simile alla transizione tra Neanderthal e Homo Sapiens, con la differenza che il processo moderno è mentale anziché genetico. Migliaia di anni fa al centro della trasformazione c’era il corpo, mentre oggi la partita si gioca sul tavolo della mente.
Bisogna dunque far funzionare la testa in modo efficiente, cioè differente, per andare verso un modello di società non più economico né politico, fuori anche dai mantra e dalle modalità della scienza e della tecnologia, lontano dal nichilismo individualistico e dall’idea della crescita competitiva, del progresso forzato. In che modo? Vivendo.
Da anni abbiamo smesso di vivere, accontentandoci di sopravvivere. Ma se il blocco è costituito dal senso di inadeguatezza, consoliamoci dando un’occhiata all’élite mondialista che sta visibilmente navigando a vista con buone probabilità di finire vittima della tempesta che ha scatenato, ma che adesso non è più in grado di gestire.
Il danaro sarà anche potente, ma le regole eterne che governano il mondo lo sono infinitamente di più e l’«umano», che non è morto, tornerà presto a bussare alla nostra (e loro) porta. Scriveva il filosofo Costanzo Preve che il probabile fattore della rottura del presente Sistema basato sul danaro sarebbe arrivato in forma di reazione della stessa natura umana (adattabile, ma non infinitamente comprimibile) alle sempre più dure condizioni di vita, incompatibili con i bisogni oggettivi dell’uomo, soprattutto in fatto di identità, di libertà personale, di sicurezza, di non-competitività, di sopraffazione dell’economia sulla politica. In fondo dobbiamo solo riabituarci a vivere, poteva andare peggio.
Rita Remagnino
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