C’è vita oltre il liberalcapitalismo? Ce lo chiedevamo passeggiando – dopo anni di assenza – nel quartiere dove siamo cresciuti. Rivedere le cose a distanza di tempo restituisce la prospettiva. Oltre al deserto commerciale, ci ha colpito vedere in uno spazio limitato ben tre grandi strutture sanitarie private. La privatizzazione di tutto avanza a passo di carica: presto non avremo nulla e saremo felici, secondo i padroni universali. Ci toglieranno l’automobile, la casa, il denaro contante e instaureranno l’impero globale neofeudale della Tecnica. Ai servi dovranno bastare i nuovi diritti nella sfera pulsionale per compensare la riduzione a schiavi.
In Italia, il dibattito economico corrente riguarda il cosiddetto Superbonus, le provvidenze fiscali a favore dell’edilizia introdotte dal secondo governo Conte, che Draghi non poté cassare e che il governo Meloni – la cui continuità con il precedente è impressionante – sta abolendo. Concentrati esclusivamente sul costo per le casse pubbliche – le cifre tanto diverse fornite da sostenitori e detrattori confermano che neppure la matematica è neutra – si dimentica di valutare due elementi fondamentali. Uno è il carattere di moneta del credito d’imposta cedibile: il banchiere centrale di governo ne comprese in un attimo la portata negativa per gli interessi di cui è dirigente apicale. L’altra è l’impatto generale sull’economia, il “moltiplicatore keynesiamo” che è stato positivo, pur se sovrastimato.
Entrambe le questioni sono rilevanti in quanto contraddicono la narrativa economico-finanziaria dominante, il liberismo senza limiti associato al globalismo e alla mistica delle “autorità monetarie” private, le uniche in grado, secondo la vulgata cara alla finanza, di governare i flussi del denaro. Un credito fiscale cedibile è indubbiamente moneta, quindi sovranità, mentre una misura governativa capace di riattivare un comparto decisivo come quello edilizio è intervento pubblico in economia. Cartellino rosso: la dogmatica liberista non può accettare deviazioni tanto pericolose (per lei).
E’ invece felice di constatare che i posti letto negli ospedali pubblici sono diminuiti del quaranta per cento in vent’anni (da 310 mila a 190 mila). Le lobby hanno lavorato bene; chi può si cura nel privato, magari indebitandosi per la gioia del creditore, degli altri nessuno si occupa. Che muoiano, altro obiettivo delle oligarchie. Un docente giapponese ha apertamente teorizzato l’eutanasia per gli ultrasessantacinquenni: una vera tombola per lorsignori. Meno pensioni, meno spesa sanitaria, in più la soluzione perfetta al problema dell’invecchiamento della popolazione. L’uovo di Colombo: bisognava pensarci.
Una riflessione che torna al punto di partenza: manca, nell’Occidente terminale, il pensiero antagonista in ogni ambito, ma il silenzio diventa assordante in campo economico. L’ordoliberismo, ovvero il liberismo che diventa legge entrando nei codici e nelle costituzioni (pensiamo all’imposizione del pareggio di bilancio che parifica gli Stati a società anonime) ha sostituito il vecchio ordoliberalismo convinto che lo Stato dovesse fornire regole giuridiche – quindi limiti – a tutela dell’equità sociale e di un livello minimo di protezione dei ceti deboli.
Eppure il fallimento del sistema uscito dall’implosione sovietica e dalla vittoria del modello neoliberista è sotto gli occhi di tutti. Non si può accettare un’organizzazione economica, finanziaria, sociale e un modello antropologico in cui poche centinaia di persone hanno una ricchezza pari a quella di miliardi di esseri umani. Occorre ripristinare la dimensione pubblica e statuale – indipendentemente dalle forme e dalle dimensioni – sottraendo alla cupola dei monarchi assoluti del mondo il controllo delle nostre vite e, concretamente, la proprietà di tutto.
Non esistono più beni comuni, neppure la vita umana e la salute. Alla proprietà privata di tutti i “mezzi di produzione” – la definizione marxiana – si è aggiunto il possesso delle grandi infrastrutture, autostrade, ferrovie, porti, oleodotti, reti informatiche – sino alla privatizzazione dell’acqua, senza la quale finisce la vita. Padroni anche della tecnica e della tecnologia – mai così potenti e pervasive – monopolisti della ricerca e delle sue applicazioni, possiedono, attraverso le multinazionali del farmaco e delle sementi, le chiavi della salute e dell’alimentazione. Dal punto di vista finanziario, padroni dell’emissione monetaria, l’imbroglio universale del debito pubblico, che è credito privato dei re senza corona, hanno stretto il cappio attorno al collo degli Stati, dei popoli, perfino di chi non è ancora nato, tutti debitori del Signore per il solo fatto di far parte dell’umanità.
Sotto il profilo comportamentale, costringono miliardi di persone alla competizione sfrenata, la “santa” concorrenza della quale loro si disfano distruggendo ogni realtà estranea all’oligopolio globale. La lotta di tutti contro tutti fomenta inimicizia e divisione; conviene sempre agli stessi. Il filosofo Byung Chul Han spiega che siamo arrivati allo stadio ultimo, quello dell’autosfruttamento. E’ la generazione sfortunata degli “imprenditori di se stessi”, precari della vita, del lavoro, sradicati dalla comunità, individualisti all’eccesso. Per questo, conclude sconsolato, è impossibile una rivoluzione. La coazione a produrre, a competere assume esplicitamente le forme dell’autosfruttamento e dell’autodistruzione, in cui sacrifichiamo volontariamente tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Le conseguenze devastanti del capitalismo giunto al suo culmine ricordano la freudiana pulsione di morte.
La malattia di massa postmoderna si chiama burnout, la patologia di chi si sente esaurito, inadeguato, diventando apatico, bruciato dentro. E’ una sindrome che preoccupa l’oligarchia in quanto spesso si manifesta nel lavoro, ma è insieme sintomo e conseguenza della disumanizzazione, della mercificazione di tutto, anche di se stessi; un mondo che consuma e insieme si consuma e ci consuma come candele al lumicino. Ci si sente perdenti dell’esistenza in quanto non si è conseguito il successo, la ricchezza, non si è vinto nell’assurda competizione per tutto. L’orribile vittoria del sistema, che impedisce la lotta oppositiva, è far credere che la colpa è nostra, per incapacità o inadeguatezza: un darwinismo sociale in cui vince il peggiore, il più spietato, il più disumano.
Il colpevole è l’attuale sistema socio economico, diventato antropologia negativa. Va attaccato, disvelato, destrutturato, combattuto a partire dai suoi principi economici, sociali, finanziari. Il liberalcapitalismo non è un sistema come gli altri, è una visione totalizzante della vita, un’ideologia della seduzione: il capitalismo dei “like”. Va demistificato ribaltando innanzitutto i suoi postulati economici. Qui sta purtroppo, la nostra debolezza. Che fare? Nessuno sembra più discutere i fondamenti. Tutti, o quasi, allineati all’imperativo categorico liberista. In Occidente – e in Italia in particolare – nessuna forza politica e nessuna cultura contesta più il dominio dell’oligarchia privata. Silenzio sulla sovranità monetaria regalata alle banche, applausi per ogni perdita di potere degli Stati – cioè dei popoli – indifferenza o rassegnazione per il trasferimento verso l’alto della piramide della ricchezza, del potere, delle decisioni.
Dove sono finite le elaborazioni socialiste e marxiste, la dottrina sociale della Chiesa, le idee di cogestione, partecipazione, autogestione, cooperazione, quella “senza fini di speculazione privata”, di cui all’articolo 45 della costituzione, il corporativismo cristiano e “nazionale”? Chi rivendica – il Titolo III della Carta, di impianto solidarista, partecipativo e non liberista?
Occorre che intellettuali di diverse discipline – economia, filosofia, sociologia, scienze umane – tornino a ragionare di massimi sistemi, ossia revochino in dubbio i dogmi ordoliberisti proponendo concrete alternative. Non che manchino le voci critiche – specie sul versante della moneta – ma sono più impegnati in conventicole litigiose e contrapposizioni incapacitanti che nella proposta. Inoltre, non trovano sponde accademiche né politiche. Non conosciamo programmi di governo – per quel che valgono, tenuto conto del “pilota automatico” della governance economico-finanziaria transnazionale privatizzata – che si propongano modelli distinti da quello unico, il liberismo globalista del Washington Consensus. Pure, quella stagione sta finendo, travolta dalla realtà e dal declino dell’unipolarismo americano. Nessuno osa progettare qualcosa che vada oltre il breve termine, l’interesse degli stakeholders, gli azionisti e i portatori di grandi interessi decisi a realizzare profitto immediato senza riguardo per il futuro, le ricadute umane, il bene comune.
E’ diventato difficile – tanto è radicato il discorso ufficiale – affermare che non siamo più depositanti nelle banche, ma investitori con tutto il rischio a nostro carico, sino alla condizione di chi è tenuto per legge a ripianare i fallimenti bancari. La stessa religione del PIL (Prodotto Interno Lordo) andrebbe in parte rivista, giacché il calcolo è una somma aritmetica comprendente perfino i proventi stimati della malavita. Ad esempio, le spese sanitarie private a cui siamo costretti contribuiscono a gonfiare il calcolo, ma non a dare conto della negatività del fenomeno che si limitano a contabilizzare. Paradossalmente, se usciamo di casa per una passeggiata, ai fini del PIL è preferibile che un’auto pirata ci investa: spese ospedaliere, riparazioni, cure mediche, pratiche assicurative. Strano sistema che misura il ben-avere ma non il ben-essere. Richard Easterlin dimostrò che l’aumento del reddito non ha effetto sulla felicità, che diminuisce descrivendo una curva verso il basso.
Adam Smith diceva che non è la benevolenza dal macellaio a procurare la carne sulla nostra tavola, ma il suo interesse. Vero, ma non si può ridurre la complessità dell’esperienza umana al tornaconto economico. Nella Commedia, Dante fa dire a Ulisse che l’uomo non è un bruto, ma un essere fatto per seguire “virtude e canoscenza”. Quanto alla concorrenza, fior di liberisti ammettono che non può esistere senza un mercato davvero aperto. I giganti impediscono invece l’entrata di nuovi soggetti mentre espellono progressivamente prima i piccoli, poi i medi, infine anche i grandi agenti economici, determinando ferrei oligopoli e monopoli.
L’ appello è alle forze politiche e culturali, esteso a tutti gli uomini di buona volontà, perché tornino a interrogarsi sulla necessità morale, nonché sulla convenienza pratica, di sistemi economici, sociali e finanziari diversi dall’ ”unico” liberista/globalista. Serve recuperare la dimensione umana: l’economia è per l’uomo, non il contrario, è la lotta eterna dell’homo sapiens contro la scarsità. Il primo passo è individuare i settori da sottrarre al monopolio incontrollato del profitto. Difficile stilare un elenco di beni comuni, ma almeno l’acqua, la salute, le grandi infrastrutture, le reti di comunicazione elettronica e informatica, l’emissione monetaria, devono essere al riparo dalla speculazione. Meglio se sono gestite da strutture che rispondono ai cittadini. In altri ambiti, come la previdenza, deve restare prevalente la mano pubblica: non si può lasciare il denaro dei lavoratori nelle mani dei fondi speculativi, per quante normative possano circoscriverne il campo d’azione.
L’elenco è complesso, e potrebbe comprendere settori economici, servizi e infrastrutture la cui importanza va oltre gli interessi dei governi in carica e delle generazioni presenti, riguardando interessi di lungo periodo che hanno bisogno della decisione politica e richiedono investimenti a debito sostenuti da istituzioni pubbliche sovrane.
Si può e si deve dibattere su tutto, senza preconcetti e senza pregiudizi. Progetto significa speranza, futuro, concretezza. Basta con l’acronimo della menzogna: TINA, there is no alternative. A tutto c’è alternativa, fuorché alla morte; dimostriamo che c’è vita oltre il liberalcapitalismo, presto, subito, o l’operazione di riduzione dell’umanità a gregge neofeudale si compirà con conseguenze che andranno oltre le generazioni oggi viventi. Non possiamo ipotecare la vita dei posteri. Difficile programma in tempi di individualismo, di dittatura del presente. Che cosa hanno fatto per me i posteri? Si chiedeva Marx. Groucho, l’attore, non Karl, il comunista…
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