8 Ottobre 2024
Società

C’è vita oltre il liberalcapitalismo? – Roberto Pecchioli

C’è vita oltre il liberalcapitalismo? Ce lo chiedevamo passeggiando – dopo anni di assenza – nel quartiere dove siamo cresciuti. Rivedere le cose a distanza di tempo restituisce la prospettiva. Oltre al deserto commerciale, ci ha colpito vedere in uno spazio limitato ben tre grandi strutture sanitarie private. La privatizzazione di tutto avanza a passo di carica: presto non avremo nulla e saremo felici, secondo i padroni universali. Ci toglieranno l’automobile, la casa, il denaro contante e instaureranno l’impero globale neofeudale della Tecnica. Ai servi dovranno bastare i nuovi diritti nella sfera pulsionale per compensare la riduzione a schiavi.

In Italia, il dibattito economico corrente riguarda il cosiddetto Superbonus, le provvidenze fiscali a favore dell’edilizia introdotte dal secondo governo Conte, che Draghi non poté cassare e che il governo Meloni – la cui continuità con il precedente è impressionante – sta abolendo.  Concentrati esclusivamente sul costo per le casse pubbliche – le cifre tanto diverse fornite da sostenitori e detrattori confermano che neppure la matematica è neutra – si dimentica di valutare due elementi fondamentali. Uno è il carattere di moneta del credito d’imposta cedibile: il banchiere centrale di governo ne comprese in un attimo la portata negativa per gli interessi di cui è dirigente apicale. L’altra è l’impatto generale sull’economia, il “moltiplicatore keynesiamo” che è stato positivo, pur se sovrastimato.

Entrambe le questioni sono rilevanti in quanto contraddicono la narrativa economico-finanziaria dominante, il liberismo senza limiti associato al globalismo e alla mistica delle “autorità monetarie” private, le uniche in grado, secondo la vulgata cara alla finanza, di governare i flussi del denaro. Un credito fiscale cedibile è indubbiamente moneta, quindi sovranità, mentre una misura governativa capace di riattivare un comparto decisivo come quello edilizio è intervento pubblico in economia. Cartellino rosso: la dogmatica liberista non può accettare deviazioni tanto pericolose (per lei).

E’ invece felice di constatare che i posti letto negli ospedali pubblici sono diminuiti del quaranta per cento in vent’anni (da 310 mila a 190 mila). Le lobby hanno lavorato bene; chi può si cura nel privato, magari indebitandosi per la gioia del creditore, degli altri nessuno si occupa. Che muoiano, altro obiettivo delle oligarchie. Un docente giapponese ha apertamente teorizzato l’eutanasia per gli ultrasessantacinquenni: una vera tombola per lorsignori. Meno pensioni, meno spesa sanitaria, in più la soluzione perfetta al problema dell’invecchiamento della popolazione. L’uovo di Colombo: bisognava pensarci.

Una riflessione che torna al punto di partenza: manca, nell’Occidente terminale, il pensiero antagonista in ogni ambito, ma il silenzio diventa assordante in campo economico. L’ordoliberismo, ovvero il liberismo che diventa legge entrando nei codici e nelle costituzioni (pensiamo all’imposizione del pareggio di bilancio che parifica gli Stati a società anonime) ha sostituito il vecchio ordoliberalismo convinto che lo Stato dovesse fornire regole giuridiche – quindi limiti – a tutela dell’equità sociale e di un livello minimo di protezione dei ceti deboli.

Eppure il fallimento del sistema uscito dall’implosione sovietica e dalla vittoria del modello neoliberista è sotto gli occhi di tutti. Non si può accettare un’organizzazione economica, finanziaria, sociale e un modello antropologico in cui poche centinaia di persone hanno una ricchezza pari a quella di miliardi di esseri umani. Occorre ripristinare la dimensione pubblica e statuale – indipendentemente dalle forme e dalle dimensioni – sottraendo alla cupola dei monarchi assoluti del mondo il controllo delle nostre vite e, concretamente, la proprietà di tutto.

Non esistono più beni comuni, neppure la vita umana e la salute. Alla proprietà privata di tutti i “mezzi di produzione” – la definizione marxiana – si è aggiunto il possesso delle grandi infrastrutture, autostrade, ferrovie, porti, oleodotti, reti informatiche – sino alla privatizzazione dell’acqua, senza la quale finisce la vita. Padroni anche della tecnica e della tecnologia – mai così potenti e pervasive – monopolisti della ricerca e delle sue applicazioni, possiedono, attraverso le multinazionali del farmaco e delle sementi, le chiavi della salute e dell’alimentazione. Dal punto di vista finanziario, padroni dell’emissione monetaria, l’imbroglio universale del debito pubblico, che è credito privato dei re senza corona, hanno stretto il cappio attorno al collo degli Stati, dei popoli, perfino di chi non è ancora nato, tutti debitori del Signore per il solo fatto di far parte dell’umanità.

Sotto il profilo comportamentale, costringono miliardi di persone alla competizione sfrenata, la “santa” concorrenza della quale loro si disfano distruggendo ogni realtà estranea all’oligopolio globale. La lotta di tutti contro tutti fomenta inimicizia e divisione; conviene sempre agli stessi. Il filosofo Byung Chul Han spiega che siamo arrivati allo stadio ultimo, quello dell’autosfruttamento. E’ la generazione sfortunata degli “imprenditori di se stessi”, precari della vita, del lavoro, sradicati dalla comunità, individualisti all’eccesso. Per questo, conclude sconsolato, è impossibile una rivoluzione. La coazione a produrre, a competere assume esplicitamente le forme dell’autosfruttamento e dell’autodistruzione, in cui sacrifichiamo volontariamente tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Le conseguenze devastanti del capitalismo giunto al suo culmine ricordano la freudiana pulsione di morte.

La malattia di massa postmoderna si chiama burnout, la patologia di chi si sente esaurito, inadeguato, diventando apatico, bruciato dentro. E’ una sindrome che preoccupa l’oligarchia in quanto spesso si manifesta nel lavoro, ma è insieme sintomo e conseguenza della disumanizzazione, della mercificazione di tutto, anche di se stessi; un mondo che consuma e insieme si consuma e ci consuma come candele al lumicino. Ci si sente perdenti dell’esistenza in quanto non si è conseguito il successo, la ricchezza, non si è vinto nell’assurda competizione per tutto. L’orribile vittoria del sistema, che impedisce la lotta oppositiva, è far credere che la colpa è nostra, per incapacità o inadeguatezza: un darwinismo sociale in cui vince il peggiore, il più spietato, il più disumano.

Il colpevole è l’attuale sistema socio economico, diventato antropologia negativa. Va attaccato, disvelato, destrutturato, combattuto a partire dai suoi principi economici, sociali, finanziari. Il liberalcapitalismo non è un sistema come gli altri, è una visione totalizzante della vita, un’ideologia della seduzione: il capitalismo dei “like”. Va demistificato ribaltando innanzitutto i suoi postulati economici. Qui sta purtroppo, la nostra debolezza. Che fare?  Nessuno sembra più discutere i fondamenti. Tutti, o quasi, allineati all’imperativo categorico liberista. In Occidente – e in Italia in particolare – nessuna forza politica e nessuna cultura contesta più il dominio dell’oligarchia privata. Silenzio sulla sovranità monetaria regalata alle banche, applausi per ogni perdita di potere degli Stati – cioè dei popoli – indifferenza o rassegnazione per il trasferimento verso l’alto della piramide della ricchezza, del potere, delle decisioni.

Dove sono finite le elaborazioni socialiste e marxiste, la dottrina sociale della Chiesa, le idee di cogestione, partecipazione, autogestione, cooperazione, quella “senza fini di speculazione privata”, di cui all’articolo 45 della costituzione, il corporativismo cristiano e “nazionale”?  Chi rivendica – il Titolo III della Carta, di impianto solidarista, partecipativo e non liberista?

Occorre che intellettuali di diverse discipline – economia, filosofia, sociologia, scienze umane – tornino a ragionare di massimi sistemi, ossia revochino in dubbio i dogmi ordoliberisti proponendo concrete alternative. Non che manchino le voci critiche – specie sul versante della moneta – ma sono più impegnati in conventicole litigiose e contrapposizioni incapacitanti che nella proposta. Inoltre, non trovano sponde accademiche né politiche. Non conosciamo programmi di governo – per quel che valgono, tenuto conto del “pilota automatico” della governance economico-finanziaria transnazionale privatizzata – che si propongano modelli distinti da quello unico, il liberismo globalista del Washington Consensus. Pure, quella stagione sta finendo, travolta dalla realtà e dal declino dell’unipolarismo americano. Nessuno osa progettare qualcosa che vada oltre il breve termine, l’interesse degli stakeholders, gli azionisti e i portatori di grandi interessi decisi a realizzare profitto immediato senza riguardo per il futuro, le ricadute umane, il bene comune.

E’ diventato difficile – tanto è radicato il discorso ufficiale – affermare che non siamo più depositanti nelle banche, ma investitori con tutto il rischio a nostro carico, sino alla condizione di chi è tenuto per legge a ripianare i fallimenti bancari. La stessa religione del PIL (Prodotto Interno Lordo) andrebbe in parte rivista, giacché il calcolo è una somma aritmetica comprendente perfino i proventi stimati della malavita. Ad esempio, le spese sanitarie private a cui siamo costretti contribuiscono a gonfiare il calcolo, ma non a dare conto della negatività del fenomeno che si limitano a contabilizzare. Paradossalmente, se usciamo di casa per una passeggiata, ai fini del PIL è preferibile che un’auto pirata ci investa: spese ospedaliere, riparazioni, cure mediche, pratiche assicurative. Strano sistema che misura il ben-avere ma non il ben-essere.  Richard Easterlin dimostrò che l’aumento del reddito non ha effetto sulla felicità, che diminuisce descrivendo una curva verso il basso.

Adam Smith diceva che non è la benevolenza dal macellaio a procurare la carne sulla nostra tavola, ma il suo interesse. Vero, ma non si può ridurre la complessità dell’esperienza umana al tornaconto economico. Nella Commedia, Dante fa dire a Ulisse che l’uomo non è un bruto, ma un essere fatto per seguire “virtude e canoscenza”. Quanto alla concorrenza, fior di liberisti ammettono che non può esistere senza un mercato davvero aperto. I giganti impediscono invece l’entrata di nuovi soggetti mentre espellono progressivamente prima i piccoli, poi i medi, infine anche i grandi agenti economici, determinando ferrei oligopoli e monopoli.

L’ appello è alle forze politiche e culturali, esteso a tutti gli uomini di buona volontà, perché tornino a interrogarsi sulla necessità morale, nonché sulla convenienza pratica, di sistemi economici, sociali e finanziari diversi dall’ ”unico” liberista/globalista. Serve recuperare la dimensione umana: l’economia è per l’uomo, non il contrario, è la lotta eterna dell’homo sapiens contro la scarsità. Il primo passo è individuare i settori da sottrarre al monopolio incontrollato del profitto. Difficile stilare un elenco di beni comuni, ma almeno l’acqua, la salute, le grandi infrastrutture, le reti di comunicazione elettronica e informatica, l’emissione monetaria, devono essere al riparo dalla speculazione. Meglio se sono gestite da strutture che rispondono ai cittadini. In altri ambiti, come la previdenza, deve restare prevalente la mano pubblica: non si può lasciare il denaro dei lavoratori nelle mani dei fondi speculativi, per quante normative possano circoscriverne il campo d’azione.

L’elenco è complesso, e potrebbe comprendere settori economici, servizi e infrastrutture la cui importanza va oltre gli interessi dei governi in carica e delle generazioni presenti, riguardando interessi di lungo periodo che hanno bisogno della decisione politica e richiedono investimenti a debito sostenuti da istituzioni pubbliche sovrane.

Si può e si deve dibattere su tutto, senza preconcetti e senza pregiudizi. Progetto significa speranza, futuro, concretezza. Basta con l’acronimo della menzogna: TINA, there is no alternative. A tutto c’è alternativa, fuorché alla morte; dimostriamo che c’è vita oltre il liberalcapitalismo, presto, subito, o l’operazione di riduzione dell’umanità a gregge neofeudale si compirà con conseguenze che andranno oltre le generazioni oggi viventi. Non possiamo ipotecare la vita dei posteri. Difficile programma in tempi di individualismo, di dittatura del presente. Che cosa hanno fatto per me i posteri? Si chiedeva Marx. Groucho, l’attore, non Karl, il comunista…

 

 

 

2 Comments

  • Gianni 28 Febbraio 2023

    Se uno Stato ha 60 milioni di abitanti,che senso ha che si continui ad importare milioni di stranieri con costi enormi di tutti i tipi,per fare guadagnare chi?Se in una zona non c’è più manodopera italiana perché si continua ad aumentare l’attività economica,per chi?Abbiamo espanso l’equivalente di otto città da un milione di abitanti,per alloggiare stranieri con attività,case,supermercati,scuole,strutture pubbliche,devastando terreni agricoli enormi e ricchi.Dicono per noi.Noi chi se in teoria siamo tutti occcupati(dicono)?Perché mantenere a tutti i costi decine di migliaia di studenti anche se inefficienti e costosi fino alla fine,quando potrebbero andare a lavorare e pagare tasse.Siamo solo un fattore della produzione mondiale,funzionale al capitalismo,non una Nazione libera.

  • Il Grillo Parlante 3 Ottobre 2024

    “Ci toglieranno l’automobile, la casa, il denaro contante e instaureranno l’impero globale neofeudale della Tecnica. Ai servi dovranno bastare i nuovi diritti nella sfera pulsionale per compensare la riduzione a schiavi”

    Io non possiedo automobile. Non vivo nella “frontiera americana” quindi il cavallo non mi è necessario per sopravvivere. La casa è una menzogna perché nella vulgata si assume che la casa, a differenza dell’automobile, sia un bene eterno. Invece come tutti i manufatti, la casa ha un suo “ciclo di vita utile” e poi diventa un rifiuto da smaltire. Noi abbiamo costruito gran parte dell’Italia negli anni del “boom” e adesso ci troviamo con case che andrebbero demolite e che hanno un “valore di mercato” del tutto fittizio. La faccenda di introdurre obbligatoriamente le “classi energetiche” altro non è che il tentativo dissimulato di obbligare alla demolizione, però fallisce perché nessuno ha idea di come rendere la demolizione almeno non economicamente catastrofica. Infatti a parte i problemi pratici, ci troviamo in una situazione in cui tutto il “sistema” ha a bilancio dei beni con un valore X e se d’improvviso quel valore si azzerasse, salterebbero tutti i bilanci, a monte e a valle. Per non dire del fatto che in realtà non andrebbe a zero ma andrebbe in negativo perché la demolizione costa. Il denaro contante ha il solo vantaggio che per il momento le banconote hanno delle caratteristiche che ne scoraggiano la contraffazione ma non hanno un “chip” che le identifichi una per una, che le localizzi, che raccolga, memorizzi e trasferisca informazioni sul contesto in cui si trovano. Stante il fatto che tutto il resto invece ce l’ha, il “chip”, il contante non fa nessuna differenza. Se non si vuole essere “tracciati” bisogna creare una cerchia di “amici” all’interno della quale operare una economia di scambio. Vado dal dottore e non lo pago in contanti cosi non mi fa la fattura, perché il dottore poi dovrà pagare in contanti, invece se faccio l’idraulico in cambio della sua prestazione gli andrò a riparare il cesso e non farò la fattura. Chiaro che non funziona se un’ora del medico vale come mille ore dell’idraulico, dato che non ha mille cessi da aggiustare. Si riproporrebbe la necessità di accumulare e scambiare “crediti”.

    Il “Superbonus cheinesiano”. C’è sempre lo stesso problema. Buttare soldi dalla finestra ottiene un effetto. Bisognerebbe vedere che effetto farebbe usare i soldi in un altro modo. Nel caso nostro, sarebbe stato ugualmente “stimolante” in generale investire nella demolizione, manutenzione, costruzione di edifici pubblici e di infrastrutture piuttosto che nelle “ristrutturazioni” delle case dei privati. Solo che l’effetto di migliorare l’edilizia scolastica non è solo nel fatto che lavorano le imprese edili e i professionisti dell’edilizia ma che poi, idealmente, si migliorino le future generazioni di diplomati. Migliorare l’edilizia ospedaliera migliorerebbe la vita dei medici e dei pazienti, migliorare le ferrovie farebbe viaggiare più treni e più velocemente e cosi via.

    “E’ invece felice di constatare che i posti letto negli ospedali pubblici sono diminuiti del quaranta per cento in vent’anni”.

    Anche qui, premesso che è evidente il collasso della Sanità Pubblica, un conto è avere solo il letto in uno stanzone e una suora che passa ogni tanto, un conto è avere un letto circondato da macchinari con medici ed infermieri li ogni momento. Il costo del letto ovviamente non è il letto. Se una volta ogni pensionato aveva tot giovani che gli pagavano la pensione era perché i vecchi morivano e morivano perché le malattie li portavano velocemente a morte, in assenza di esami e terapie. Mia mamma novantenne è caduta, si è rotta il femore, la portano nell’ospedaletto locale, il giorno dopo le mettono la protesi all’anca per fare prima poi dopo pochi giorni la portano in una RSA per un paio di mesi di riabilitazione. Mia mamma non ha tirato fuori una lira. L’unica spesa “strana” è stata la ambulanza che ha dovuto pagare per il trasferimento tra ospedale e RSA. Sarebbe interessane esaminare la demografia sia per l’aspetto anagrafico che per le ricadute in termini di spesa sanitaria.

    “Non esistono più beni comuni, neppure la vita umana e la salute. Alla proprietà privata di tutti i “mezzi di produzione” – la definizione marxiana – si è aggiunto il possesso delle grandi infrastrutture, autostrade, ferrovie, porti, oleodotti, reti informatiche – sino alla privatizzazione dell’acqua, senza la quale finisce la vita. ”

    Scusi ma quando è successo che le grandi infrastrutture e l’acqua fossero “beni comuni”? Fino alla metà del Novecento tutto era di proprietà del monarca che poi graziosamente lo concedeva ai sudditi. La Repubblica fu fondata sul modello americano in cui, parafrasando Stallone in “Tulsa King”, le cose appartengono a chi ha la forza per prendersele. Certo, col PCI che invece predicava che le cose appartenessero tutte al Partito che poi graziosamente le concedeva ai sudditi. Mi sa che è morta più gente per via dell’ascia che per via della sete.

    “Dove sono finite le elaborazioni socialiste e marxiste, la dottrina sociale della Chiesa, le idee di cogestione, partecipazione, autogestione, cooperazione, quella “senza fini di speculazione privata”, di cui all’articolo 45 della costituzione, il corporativismo cristiano e “nazionale”? Chi rivendica – il Titolo III della Carta, di impianto solidarista, partecipativo e non liberista?”

    Nel cesso. Il problema di fondo delle “elaborazioni” è che manca sempre un passaggio. Si assume per definizione che ci sia una entità filantropica che prenda le decisioni nel migliore interesse di tutti. Non solo questa entità non esiste, il migliore interesse è la composizione di tanti interessi divergenti e in conflitto. Abbiamo fatto l’esempio dei giovani che devono pagare per il benessere dei vecchi. Se io sono il direttore dello stabilimento a cui il Partito ha dato la missione di produrre tot biciclette, il mio interesse è evitare il gulag quando non raggiungessi il numero di biciclette previsto, quindi sopprimo l’interesse dell’operaio di lavorare poco e in condizioni piacevoli, tenderò a farlo lavorare il più possibile, incurante di qualsiasi cosa non sia funzione del risultato. Potrei anche non solo volere evitare il gulag ma anche mettermi in mostra come “esempio di efficienza socialista”. Anche se non sono “padrone” o “capitalista”. La “cogestione” si può sperimentare andando in campeggio. Non è un caso che negli eserciti ci sia una struttura gerarchica che serve appunto ad evitare la “cogestione”. Quando ci troviamo attorno al fuoco, chi decide che io devo lavare le pentole o pulire il cesso? Facciamo a turno e guarda caso a Luigi fa male un dito.

    Lo scrivo in un altro modo. La “solidarietà” devi potertela permettere. Un conto è se tu sei Francesco d’Assisi il ricco mercante che siccome è pio fa l’elemosina ai poveri, un altro è se tu sei Francesco d’Assisi il frate mendicante che campa di elemosine. L’atto di amore disinteressato è palesemente innaturale quando diventa masochismo e infatti richiede la santità. Mi domando quale sia il senso di predicare alla gente una dottrina che richieda la santità, sapendo che inevitabilmente sarà un fallimento perché impraticabile.

    “non siamo più depositanti nelle banche, ma investitori con tutto il rischio a nostro carico”

    Non siamo mai stati “depositari”. Mi spiego, il fatto che la Banca fornisca delle “garanzie” significa che mente oppure che la “garanzia” arriva dall’esterno, tipo lo Stato che nazionalizza Monte dei Paschi. Se lo Stato nazionalizza una Banca fallita il tuo “deposito” esce dalla finestra e rientra dalla porta. Perché dove li prende lo Stato i soldi per nazionalizzare la Banca e “garantire” i “depositari”? Li prende dalla “solidarietà”. Il risultato di questo ragionamento che vorrebbe azzerare il rischio ma in realtà lo nasconde soltanto, è la Nord Corea, dove sono tutti “depositari-solidali” in quanto non hanno da mangiare.

    “Strano sistema che misura il ben-avere ma non il ben-essere.”

    Non è strano. Citando Vasco Rossi, quando hai il mal di stomaco non lo puoi condividere. Viceversa, non puoi misurare il mal di stomaco o il “benessere”. Quello che puoi contare sono le pecore assumendo che più pecore, più “benessere potenziale”. Vorrei anche sottolineare che il “benessere” non è necessariamente “morale”. Io posso godere del male altrui e questa è una condizione relativamente comune. Quindi misurando il “benessere” si troverebbe che il mio aumenta quando diminuisce quello degli altri. Chi, quando, come, dove e perché decide che c’è un limite al mio “benessere” e quindi al “malessere” altrui? Torniamo al Partito che mette tutti sotto tutela.

    “Difficile stilare un elenco di beni comuni, ma almeno l’acqua, la salute, le grandi infrastrutture, le reti di comunicazione elettronica e informatica, l’emissione monetaria, devono essere al riparo dalla speculazione. Meglio se sono gestite da strutture che rispondono ai cittadini. In altri ambiti, come la previdenza, deve restare prevalente la mano pubblica: non si può lasciare il denaro dei lavoratori nelle mani dei fondi speculativi”
    ..
    Questo passaggio è abbastanza delirante. L’acqua è cento metri sotto terra. Va pompata, va depurata se necessario, va instradata nelle condotte e le condotte devono arrivare ad ogni singolo rubinetto. Oppure va pompata, messa nelle bottiglie prodotte dal bottiglificio e portate all’imbottigliamento, poi va distribuita con una struttura logistica fino alla porta di ogni casa. Non è l’acqua che costa in quanto acqua, è il “servizio” che ti porge l’acqua, te la rende accessibile. Altrimenti puoi sempre recarti di persona al fiume e abbeverarti come il cavallo. Ti verrebbe il cagotto ma il cagotto “comune”.

    Della “salute” abbiamo detto, l’acqua è una sostanza chimica misurabile in litri o in chilogrammi, la “salute” è un concetto astratto come “benessere”. Non di “salute” si tratta ma della TAC con la rete elettrica che la alimenta, manovrata da un tecnico che fornisce al medico le immagini necessarie a formulare una diagnosi. A parte che il tuo mal di stomaco è solo tuo e non sarà mai “comune”, il fatto è che la tua “salute” si traduce ancora in un servizio che ha dei costi. Ogni servizio si misura in litri e in chilogrammi o in watt.

    Le “reti” non esistono. Meglio, si compongono di due elementi, un mezzo qualsiasi con cui si possono trasmettere informazioni, per esempio due tamburi ad una certa distanza e le convenzioni che stabiliscono il metodo con cui le informazioni sono trasferite. In questa definizione generica “rete” è qualsiasi cosa. Le trasmissioni radio che poi includono la radio vera e propria, la TV, il cosidddetto WiFi. I cavi in rame o qualsiasi materiale conduttore di elettricità. I cavi in fibra ottica. Paradossalmente anche una serie di stazioni di posta coi cavalli costituiscono la “rete”. Ora, lo Stato si arroga la “proprietà” delle frequenze radio e si arroga la “proprietà” del suolo dove fare passare i cavi. Lo Stato non possiede la “rete” ma l’esistenza della “rete” dipende dalle famose “concessioni”. La faccenda della “moneta” è troppo tecnica e complessa anche perché palesemente non è localizzata e localizzabile. Se domani l’Italia si inventasse di usare il Paperino invece dell’Euro, la decisione coinvolgerebbe il resto del mondo.

    Esaminiamo ora il “rispondono ai cittadini”. In che senso? (cit. Verdone).
    La nazionalizzazione di Monte dei Paschi risponde ai cittadini?

    Infine, la “previdenza”. Inutile, anche qui si finge di non sapere che è tutta una messa in scena, una finzione. Non esiste nessun “cumulo”, i “lavoratori” non pagano “contributi” che costituiscono un capitale fruttifero in base al quale si paga il vitalizio. Le pensioni sono pagate semplicemente attingendo alla fiscalità generale, dal bilancio dello Stato. I “lavoratori” potrebbero benissimo NON PAGARE NESSUN CONTRIBUTO PREVIDENZIALE e ricevere lo stesso un “reddito di cittadinanza” arbitrario per modalità ed ammontare, erogato ugualmente e per le stesse ragioni dallo Stato. Se il vitalizio è un “diritto”, ovviamente prescinde dallo stato di ognuno e tutti lo devono ricevere. Che poi sia oggi o domani, tanto o poco, è una questione secondaria e non c’è una vera ragione.
    I “fondi speculativi” esistono quando lo Stato afferma il contrario, cioè che non esiste nessun “diritto al vitalizio”.

    “A tutto c’è alternativa, fuorché alla morte”.

    Direi che anche questa affermazione è un tantino falsa. Nel macro, non si può superare la velocità della luce ma anche andarci vicino è molto improbabile. Nel micro, se io guardo il rubinetto non esce l’acqua. Non c’è alternativa al fatto di costruire tutti i tubi, metterli in opera, scavare il pozzo, mettere la pompa e collegare il tutto. Non c’è alternativa al fatto che per avere l’acqua che esce dal rubinetto deve esistere tutta una filiera che parte dalla miniera in cui scavare il metallo e arriva alla bolletta. La bottiglia non è una alternativa, è un’altra cosa, come la pioggia o abbeverarsi a fiume. Concludo con un’altra citazione, stavolta Funari: le chiacchiere stanno a zero.

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