Di fronte alla prevedibile, prossima alluvione di libri, articoli di giornali, convegni, etc, questa vuole essere una “guida”, che, con la citazione dei personaggi e l’elenco dei passaggi principali, offra una sintesi degli avvenimenti, articolata in tre puntate, con un piglio bersaglieresco (15 mesi in 15 capitoletti) che non la trasformi in un ”polpettone”. Questa è la prima puntata.
- PREMESSA
Qualche informazione preliminare, necessaria per inquadrare il “fatto”, evitando approssimativi e fuorvianti riferimenti storico-politici. Dunque, vediamo:
– la partecipazione dell’Italia al conflitto mondiale viene regolata dal cosiddetto “Patto di Londra”, firmato il 26 aprile del 1915, che, se prevede in dettaglio quel che succederebbe – a guerra vittoriosa – sulla corona alpina del Veneto settentrionale, nulla dice di città e porti dalmati, dove pure forte è la presenza italiana e la nostra “tradizione” (a cominciare dalla lingua) viva e sentita;
– il Governo italiano, una volta terminata la guerra, resosi probabilmente conto dell’errore commesso in fase preliminare, pensa bene di inviare, già il 19 novembre del 1918, l’Ammiraglio Enrico Millo a Zara, con il roboante incarico di “Governatore della Dalmazia”, e accompagnato, ad ogni buon fine, da alcune navi e contingenti di Marina;
– altre navi (il 4 novembre) e la Brigata Granatieri (il giorno 17) vengono quasi contemporaneamente inviati a Fiume, dove arrivano anche un Reggimento coloniale indocinese (al servizio della Francia), alcuni vascelli inglesi e una minuscola rappresentanza di soldati americani;
– la convivenza tra le diverse truppe si fa ben presto difficile. Gli Italiani, che si sentono appoggiati (e quasi “istigati”) dalla popolazione locale, in più di un’occasione si azzuffano con gli uomini – Francesi in particolare – degli altri contingenti (riuscendo – sia detto per inciso – sempre vincitori, se non altro per il fatto che i Granatieri, prestanti, alti almeno 1,80 e reduci di guerra, rappresentano la “crema” del nostro Esercito);
– a Parigi, intanto, la risoluzione diplomatica della vicenda, si mette male per l’Italia. Orlando e Sonnino (che sono succeduti a Salandra e allo stesso Sonnino, incauti firmatari del suddetto “Patto di Londra”) non riescono a far prevalere le loro ragioni, e, anzi, si comportano secondo i peggiori stereotipi accreditati dagli Alleati di ieri diventati avversari di oggi. Orlando, per esempio, crede di poter forzare la mano con il ricorso alla melodrammatica risorsa del pianto, beccandosi il salace commento di Clemenceau che, malato di prostata, se ne esce con un: “Ah, si je pouvais pisser comme celui la pleure”;
– la situazione si aggrava quando il Presidente americano Wilson che, non ha – evidentemente, perché l’entrata in guerra dell’America è stata successiva – firmato il patto di Londra, ne mette in dubbio l’efficacia, appellandosi, piuttosto al “diritto all’autodeterminazione” dei popoli che però, chissà perché, non vuole applicato agli Italiani di Dalmazia, nella sua smania di appoggiare il nuovo Stato jugoslavo (serbo, croato e sloveno).
- “SUONAVA IL CAMPANON…”
Vista la situazione di stallo, Orlando e Sonnino il 24 aprile del 1919 abbandonano la Conferenza della pace, e tornano a Roma, dove vengono accolti da grandi manifestazioni di simpatia, patrocinate dai primi fascisti, dai nazionalisti dagli ex interventisti e dagli Arditi. Ciò nonostante, non riuscendo a spuntarla per via diplomatica, alla fine di giugno, Orlando si dimette, e viene sostituito da Nitti, che si attesta da subito su una linea “rinunciataria”.
E’ così che, alla seduta dell’11 luglio, Filippo Tommaso Marinetti e Ferruccio Vecchi si presentano alla Camera, prendono posto nelle tribune, e, manifestano subito le loro bellicose intenzioni, con il fondatore del Futurismo che grida:
“A nome dei Fasci di Combattimento, dei futuristi, e degli intellettuali, protesto per la vostra politica, e vi urlo: “Abbasso Nitti ! Morte al giolittismo”. Dichiaro che non può sussistere il Ministero dei sabotatori della vittoria, degli schiaffeggiatori degli Ufficiali, un Ministero che si difende con i Carabinieri e con i poliziotti! La vostra viltà è lo scherno più grossolano ai sacrifici dei combattenti, che vi disprezzano e vi negano ogni diritto di rappresentarli più oltre. Vergognatevi! La gioventù italiana, per bocca mia, vi urla: “Fate schifo, fate schifo!” (1)
A Fiume, intanto, proseguono gli incidenti tra i militari italiani e quelli delle altre Nazioni.
La situazione si aggrava quando alcuni soldati francesi, il 2 luglio, strappano, per sfregio, le coccarde tricolori che parecchie Fiumane indossano. Ne segue uno stato di acuta tensione con i Granatieri, che sfocia in gravi incidenti, nei quali gli Italiani hanno, ancora una volta, la meglio.
Poi, il 5 luglio c’è uno scambio di fucilate, con esplosione anche di qualche bomba, e il 6 i fatti più gravi. Una compagnia da sbarco della San Marco, inviata a terra per riportare l’ordine, vistasi aggredita, apre il fuoco, e fa nove morti (in massima parte Indocinesi) e undici feriti.
La reazione dell’ex Alleato è furibonda. Viene avviata un’inchiesta in loco, e, al termine, l’ordine da Parigi è di sostituire i Granatieri con la Brigata Regina, con il conseguente allontanamento dei “soldati lunghi”, che si sono dimostrati particolarmente irrequieti.
E’ così che il 25 agosto, i militari italiani lasciano la città, accompagnati dalle imponenti manifestazioni di cordoglio della popolazione, tra: “parossistiche dimostrazioni di folla, vestita di bianco rosso e verde, con le donne che si gettavano in ginocchio dinanzi ai partenti supplicandoli di non lasciarle nelle mani dei croati e i bambini che si aggrappavano alle loro gambe e li afferravano per le mani.”
La partenza del nostro contingente appare ai Fiumani come tradimento delle speranze di ricongiungimento all’Italia, che avevano preso corpo proprio nel plebiscito del 30 ottobre del 1918, allorchè, con l’approssimarsi della fine del conflitto, essi si erano all’unanimità e a gran voce, espressi per l’annessione:
Il Podestà parlò ancora. Non erano parole, erano accenti spezzati, singulti, e in tutti noi vibrava la stessa commozione. Volti pallidi, trasfigurati, sguardi velati di lacrime, un tumulto di anime, una tempesta di cuori. La folla immobile ruggì: “Viva lì’Italia, viva il nostro Sindaco!”
E il Sindaco fu riconfermato, mentre il Consiglio Comunale fu dichiarato decaduto e i suoi poteri demandati al Consiglio Nazionale.
Il Consiglio Nazionale, divenuto assemblea della rivoluzione, decretò l’affissione del proclama e la lettura al popolo, che fu fatta in piazza Dante. (2)
Tutto cancellato dall’infame decisione alleata. Quel 25 agosto, in prima fila, a piangere e protestare, le donne, come ricorderà una canzone:
“Il venticinque agosto / È successa un porcheria
I baldi Granatieri / Da Fiume andaron via
Al suon del campanon.
Alla mattina all’alba / Suonavan le campane
Partivan i Granatieri / Piangevan le fiumane
Don don don / Al suon del campanon”
Un Battaglione (il “Primo”) del Secondo Reggimento, comandato dal Maggiore Carlo Reina, va comunque a sistemarsi non molto lontano, anche se al di qua del confine, in una località destinata a diventare famosa: Ronchi.
- I “GIURATI DI RONCHI”
Il grande fermento provocato dall’improvvisa partenza, sentita come “ingiusta” dai Granatieri, non è però destinato a cessare. Sette Ufficiali (Tenenti e Sottotenenti) si riuniscono in una stanzetta arrangiata alla bell’e meglio e firmano un giuramento:
La stanza fu pavesata alla fiumana: un tavolino contro il muro maestro, con sopra una decrepita coperta da campo, sulla solitudine della quale non avrei scommesso un centesimo. Disposte su quattro file, una quindicina di sedie che occupavano quasi tuta la camera, ad eccezione di un angolo, dove “il sordo” aveva imbastito una sorta di altarino senza immagini, sormontato da un trofeo di bandiere fiumane, al centro del quale scintillavano (lustrati per l’occasione) due pugnali da Ardito, incrociati e tenuti insieme da un nastro tricolore.
Sull’altarino, solo e modesto, riposava, sguainato, un terzo pugnale.
In quella stanza, che mai si sarebbe sognata di diventare il tempio della religione fiumana, il giorno 31 agosto 1919, riuniti in solenne assemblea, prestammo giuramento. Eccone la formula:
“In nome di tutti i morti per l’unità d’Italia, giuro di essere fedele alla causa santa di Fiume, e di non permettere mai, con tutti i mezzi, che si neghi a Fiume l’annessione completa e incondizionata all’Italia. Giuro di essere fedele al motto: “Fiume o morte !” (3)
Se senza esito si rivelano una serie di contatti con personalità che hanno manifestato vicinanza alla causa fiumana (Luigi Federzoni, Ricciotti Garibaldi, Benito Mussolini), alla fine la risposta attesa arriva da Gabriele d’Annunzio, in quel periodo a Venezia, alla “Casa Rossa”. Uno dei sette Ufficiali, il Tenente Riccardo Frassetto, si reca nella città lagunare, parla con il Poeta, e concorda l’organizzazione di una spedizione per occupare Fiume. L’inizio delle operazioni è fissato al giorno 11 settembre (anniversario della “beffa di Buccari”), ma sarà poi spostato al 12 per un malore di d’Annunzio.
La notte dell’11, a Ronchi, il problema più grosso è rappresentato dalla mancanza degli automezzi per trasportare gli uomini. Infatti, il Capitano responsabile del 40° Autodrappello di Palmanova, che ha in un primo tempo dato la sua disponibilità, a patto di ricevere un “falso” ordine scritto, si tira indietro. Lo raggiungono allora, di gran carriera, alcuni Ufficiali “ribelli”, e, sotto la minaccia delle armi, il Capitano degli Arditi Ercole Miani (che guida il gruppo, formato da Guido Keller, Tomaso Beltrani e Giovanni Pagano) lo costringe a ritornare sulla sua decisione.
I mezzi partono, raggiungono Ronchi, caricano i Granatieri, e si avviano verso il confine, preceduti dalla Fiat rossa scoperta, sulla quale ha preso posto il Poeta. Lungo la strada si uniscono al gruppo altri uomini e Reparti acquartierati in zona, tra i quali, particolarmente apprezzati, Arditi e Bersaglieri con alcune autoblindo.
E’ così che i duecentocinquanta iniziali crescono di numero, finchè si fa loro incontro lo stesso Generale Vittorio Emanuele Pittaluga, comandante del presidio interalleato di Fiume.
È qui che il Poeta fa ricorso ad un “colpo di teatro” (che sarà poi ripreso in più di un occasione da squadristi “in difficoltà” con le Forze dell’ordine) destinato a restare memorabile nel ricordo di chi c’era:
Pittaluga dice chiaramente che le truppe italiane non entreranno a Fiume: se entreranno, egli sarà costretto a far fuoco sui fratelli.
E allora, Gabriele d’Annunzio (io lo rivedo ancora adesso, come in quel tragico momento della nostra passione) si alza in piedi nella macchina e, salutando militarmente con la mano guantata di bianco, grida:
“Generale, fate fuoco: nessun miglior bersaglio del nastrino della mia medaglia d’oro al valore militare e della mia placca di mutilato”.
Il Generale Pittaluga non risponde: ha compiuto il suo dovere di Italiano e di Generale, e se ne torna indietro, perfettamente convinto che Gabriele d’Annunzio entrerà in Fiume e che egli non avrà il coraggio di ordinare alle sue truppe il fuoco sui fratelli italiani. (3)
La trovata ottiene l’effetto voluto. Gli apprestamenti di blocco vengono tolti, e gli uomini che dovevano fermare la colonna, in massima parte si uniscono ad essa.
Alle ore 11,00 del 12 settembre d’Annunzio entra a Fiume, accolto dall’esultanza di tutta la popolazione. Sui muri, passando, si legge ancora la scritta di qualche giorno prima: “Granatieri di Sardegna, non ci abbandonate !”
- DAL NAZIONALISMO ALLA CARTA DEL CARNARO
Il primo periodo della presenza dannunziana a Fiume ha un’impronta sicuramente “nazionalista” e basta. Il Capo di Gabinetto del Comandante, Giovanni Giuriati, vigila, e con lui i responsabili “militari”, il Maggiore Carlo Reina per i Granatieri e il Maggiore Rocco Vadalà per i Carabinieri.
Questi uomini sanno di essere responsabili di una “rottura” con il passato (e, nel caso dei militari, anche di una grave violazione disciplinare), ma vedono il loro operato come il naturale proseguimento della guerra vittoriosa e mutilata, e sono certi che prima o poi tutto si aggiusterà. Niente di più lontano dai loro pensieri dell’idea di una “marcia verso l’interno” o, addirittura, di un colpo di Stato repubblicano.
Per loro, come ha scritto Michael Ledeen, si tratta esclusivamente della “messa in scena dell’ultimo, trionfale atto del dramma della prima guerra mondiale”.
La situazione comincia a cambiare con il crescere del ruolo di Giuseppe Giulietti, il potente “padre padrone” della Federazione dei Lavoratori del mare. Ruolo meritato, se non altro, per il fatto che è lui, con i suoi uomini, a rendere possibili i sequestri delle navi, a cominciare da quello del piroscafo “Persia”, con un carico di armi da guerra destinato all’Estremo Oriente, già il 10 ottobre. Con successivi dirottamenti arriveranno a Fiume altre armi, viveri e merci varie, che si trasformeranno in denaro contante, quando, svuotate, o con ancora a bordo roba che alla città non serve, vengono “riscattate” dagli armatori.
E’, comunque, con l’arrivo di Alceste De Ambris a Fiume che le cose cambiano definitivamente. L’uomo, sindacalista “corridoniano”, interventista, aderente ai Fasci di combattimento, è un collaudato organizzatore e politico, al quale d’Annunzio affida l’incarico di Capo di Gabinetto, dopo la partenza di Giuriati, alla fine del 1919.
Il malessere del primo Capo di Gabinetto, già sottotraccia per le presenze “inquietanti” – ancorchè brevi – di uomini come Marinetti, Vecchi e Mario Carli, esplode allorchè il Comandante decide di annullare il plebiscito che lui stesso ha indetto.
Tale plebiscito avrebbe dovuto pronunciarsi per l’accettazione o meno del “modus vivendi” che Badoglio, nominato da Nitti “commissario straordinario per la Venezia Giulia” ha proposto, il 23 novembre, nel tentativo di trovare una soluzione alla crisi, mettendo fuori gioco lo stesso d’Annunzio.
Esso, in sostanza, è interlocutorio, serve a prendere tempo, ma viene presentato alla popolazione in maniera positiva dall’ “autonomista” Riccardo Zanella e dai suoi uomini, che hanno ancora un buon seguito in città, tale che l’esito si preannuncia favorevole all’accettazione, osteggiata invece dal Poeta.
E’ per questo che, al profilarsi di un risultato per lui non gradito, egli, il 19 dicembre, prendendo spunto da alcune violenze verificatesi durante le votazioni, sospende lo scrutinio e invalida il voto.
Giuriati, sempre favorevole ad una ricomposizione della frattura con lo Stato italiano, non approva la decisione, dà le dimissioni e si allontana dalla città.
- “FIUME E MOSCA SONO DUE RIVE LUMINOSE”
In effetti, la svolta in senso radicale alla neonata esperienza di “autogestione”, era nell’ordine delle cose. Lo stesso Mussolini, in una lettera a d’Annunzio datata 25 settembre (dopo un precedente scambio non sempre “cordialissimo”), aveva proposto:
– marcia su Trieste e contemporaneo sbarco di uomini e armi in Romagna e Marche, per una sollevazione repubblicana;
– dichiarazione di decadenza della monarchia e formazione di un Governo presieduto dal Poeta e con una forte componente “militare”
– elezioni per la Costituente.
Si trattava, però, di progetti velleitari, destinati a svanire di fronte alla realtà, che significa soprattutto ostilità del Partito Socialista, al punto di rendere difficile addirittura lo svolgimento della campagna elettorale dei Fasci a Milano, loro roccaforte. Qui diventa necessaria la presenza “in rinforzo” di circa 150 uomini, in gran parte inviati da d’Annunzio, senza i quali, come scrive sempre il futuro Duce “noi delle grandi città saremmo facilmente sommersi dall’ondata pussista”.
Mentre questa è la situazione nella penisola, la vita di Fiume è scandita dai discorsi del Comandante (del 30 settembre quello famoso, nel quale affibbia a Nitti il soprannome di “Cagoia”), dalle prime iniziative degli “Uscocchi” il piccolo nucleo di “arditissimi” ai quali è stato assegnato il compito di dirottare con la forza piroscafi con ricco carico, utile a sfamare –e armare- la città, e dall’attività del Poeta, che il 14 novembre si reca a Zara dal Comandante Millo per testimoniargli la sua vicinanza e lasciare “di guardia” un paio di compagnie di suoi uomini.
Anche l’attività di “laboratorio politico” prosegue. Mario Carli, per esempio, sulla “Testa di ferro” del 15 febbraio del ’20 definendo il bolscevismo russo: “esperienza tragica, ma feconda di succhi vitali per l’avvenire degli altri popoli”, così conclude il suo articolo:
Ancora una volta, guardiamo all’Oriente! Tra Fiume e Mosca c’è forse un oceano di tenebre. Ma indiscutibilmente, Fiume e Mosca sono due rive luminose. Bisogna, al più presto, gettare un ponte tra queste due rive. (4)
E’ veramente troppo per monarchici e nazionalisti. Dopo Giuriati lasceranno Fiume il Maggiore Reina, e, a maggio, partirà anche il Maggiore Vadalà, vero eroe di guerra, con i suoi Carabinieri e uno strascico di risse e zuffe con Arditi che sfoceranno nel duello tra Carli e il Tenente aviatore Ernesto Cabruna, proveniente proprio dai Carabinieri.
NOTE
- Filippo Tommaso Marinetti, Futurismo e fascismo, Foligno 1924, pag. 185
- Edoardo Susmel, La Marcia di Ronchi, Milano 1941, pag. 26
- Riccardo Frassetto, I disertori di Ronchi, Milano 1927, pag. 43
- Salvatore Sibilia, La marcia di Ronchi, Roma 1933, pag. 138
- In: Mario Carli, Il nostro bolscevismo, Milano 1996, pag. 159
Foto 1: Fiume anni ‘20
Foto 2: d’Annunzio a Fiume