Qualcosa di tremendo deve squarciare la Storia per dividere il Ciclo umano precedente dal successivo, e, per quanto ci riguarda, l’attuale periodo è iniziato da una delle eruzioni più potenti degli ultimi 25 milioni di anni: quella del super vulcano di Toba (Sumatra), avvenuta 70-74.000 anni fa. Per ovvie ragioni non si hanno notizie sui danni causati al vicino continente scomparso di Kumari Kandam, ma se molto tempo dopo la cultura Tamil lo indicò come culla della propria civiltà significa che resistette all’urto [immagine 1].
Qualora l’evento dovesse ripetersi, possibilità tutt’altro che remota dato che il cratere è attivo e il magma sta gradualmente crescendo, una porzione di territorio grande come la Svizzera verrebbe ricoperta da uno strato di 7 cm di cenere e vi sarebbero pesanti ripercussioni climatiche sull’intero pianeta.
Gli effetti collaterali dell’eruzione decimarono la popolazione umana generando un imbuto genetico da cui sarebbero usciti i rami etnici successivi. Se la passarono un po’ meglio i popoli più lontani dal disastro, quelli dislocati in prossimità delle alte latitudini, i quali ebbero tutto il tempo di crescere e sviluppare una civiltà planetaria di grande rilievo. Per quanto ne sappiamo essi vivevano in simbiosi con la Natura e perciò non conoscevano il dualismo, il pensiero e la materia, lo spirito e la sostanza, il particolare e il tutto, il naturale e il sociale, il divino e il profano in quanto un’unica formula concettuale (e forse linguistica) riassumeva l’essenza di animali, piante, minerali, stelle.
Significa che il Sapiens delle Origini si formò sul tetto del mondo? Di sicuro non è «nato in Africa» come vorrebbe una narrazione inventata di sana pianta dall’Inghilterra vittoriana, capitalista e imperialista, propagandata allo scopo di salvare le apparenze e dare un contentino alle popolazioni che Sua Maestà stava sfruttando e deportando (E. Pennetta, L’ultimo uomo. Malthus, Darwin, Huxley e l’invenzione dell’antropologia capitalista, 2018).
Il nostro viaggio nella preistoria parte da qui, cioè da quel Grande Antenato e dall’Era che precedette la scomparsa dei ghiacciai wurmiani, quando parte dell’Europa settentrionale e del Nordamerica si trovavano sepolte sotto una spessa coltre bianca mentre l’Artico godeva di un clima gradevole per via della distribuzione asimmetrica delle calotte glaciali preistoriche rispetto al Polo Nord attuale, con un baricentro spostato verso lo Yukon.
Molte questioni legate all’antenato del Primo Pleniglaciale restano tuttora in sospeso, tuttavia sono troppi per passare inosservati gli indizi che conducono a remoti civilizzatori in possesso di tecniche avanzate «scesi dal cielo» (dal Nord) circa 50mila anni fa, i quali presentavano un colorito «rosso-bruno» vagamente simile a quello di certi nativi nordamericani e compatibile con il clima temperato da «eterna primavera» della Prima Età dell’uomo.
Assente nei «prenordici» che portarono all’apice la civiltà Aurea e costituirono la metapopolazione basale-boreale, il biondismo destinato ad influenzare in seguito le popolazioni caucasiche non riguardò dunque il Sapiens delle Origini, idem dicasi per gli occhi chiari e tondi che stando alle narrazioni tradizionali erano invece «serpentini», cioè stretti e lunghi in un volto largo con gli zigomi alti.
Rossi come l’alba
Ricerche e studi in costante aumento confermano la matrice «rossa» ai primordi del Ciclo presente, ipotizzando che la pelle bianca si sia manifestata attorno ai 26.000 anni fa nell’Europa settentrionale, dove il raffreddamento dell’ambiente sottoposto a un minore irraggiamento solare favorì la presenza di un fenotipo depigmentato (L. Cavalli Sforza, P. Menozzi, A. Piazza, Storia e geografia dei geni umani). Ciò significa che ai tempi degli Antichi Nord-Eurasiatici (gruppo ANE) la cosiddetta «razza bianca» era sconosciuta al mondo e in posizione dominante si trovava la «razza rossa», come riferiscono del resto molti racconti dal Caucaso alla Scandinavia, dall’Egitto all’India.
Si pensi pertanto al Sapiens delle Origini come a un individuo dai tratti somatici di «tipo eschimese» (Inuit e Yupik) e una corporatura eccezionalmente alta e robusta. Ancora oggi in alcune pitture rupestri del Sahara risalenti al neolitico si vedono enigmatici cacciatori con i capelli rossicci. Lo stesso Adám, il primo uomo plasmato dal Signore, o da Ea-Enki secondo i Sumeri, viene descritto come «rosso in quanto fatto d’argilla».
Per un motivo che potrebbe sembrare accidentale, se non sapessimo che nell’antichità ogni parola aveva un preciso peso specifico, gli estensori della Bibbia sentirono il bisogno di riferire che Esaù, gemello di Giacobbe e figlio di Isacco, era «rosso come un mantello di pelo». Una caratteristica che l’Antico Testamento attribuisce a re David e ad altri personaggi di alto rango, vale a dire che ai tempi di Mosè gli eletti vantavano una discendenza diretta dalla «stirpe divina» dei primordi.
In memoria della «compagnia di Osiride», cioè dei primi esploratori con la pelle d’ambra e la capigliatura fulva giunti in Egitto a bordo di grandi navi provenienti dal Mar Rosso (poi divenuto il canale marittimo commerciale dei sabei Himyariti, detti «i rossi»), gli Egizi dinastici definivano «rossi» tutti gli stranieri che giungevano nel paese a prescindere dall’etnia di appartenenza.
A tale proposito si tenga presente che gli spostamenti via mare durante la glaciazione wurmiana erano favoriti dal livello delle acque particolarmente basso e dai numerosi arcipelaghi oggi scomparsi. Per esempio a nord della Siberia centro-orientale il mare era profondo meno di 200 metri, mentre settori molto ampi della piattaforma continentale artica risultavano emersi. L’intero bacino polare era navigabile, motivo per cui la matrice «rossa» poté circolare indisturbata prima di sedimentarsi in gruppi residuali di aborigeni stanziati più a sud.
Alcuni di questi giunsero alle porte di epoche relativamente recenti. Si pensi ai Fenici, detti «i rossi del mare», presumibilmente originari del Mare del Nord. Senza dimenticare le etnie entrate nel mito, come ad esempio quella dei «giganti rossi» Vanir dell’Età del Bronzo, da tempo immemorabile dedita all’agricoltura tra le penisole di Jamal e Kola e organizzata in una rete sociale di stampo matriarcale, inglobata alla fine dei suoi giorni dai «guerrieri bianchi» protoindoeuropei provenienti dalla Siberia sudoccidentale (gli Æsir). Stessa sorte per i «rossi irlandesi» Fir Bólg, dispersi dall’invasione dei «bianchi» Túatha Dé Dánann, appartenuti a un ramo degli Sciti originario dell’area siberiana occidentale e dell’Altaj, dove c’era il Denisova che forse veniva dall’Australia … ma non acceleriamo i tempi.
L’eterna primavera
A causa di un meccanismo indipendente dalla nostra volontà, nella comunità umana non vince quasi mai il migliore bensì il più attrezzato geneticamente alla sopravvivenza della specie. O, almeno, così è stato fino alla presa di potere del lato oscuro del Sapiens, il Demens, nella cui visione del mondo c’è posto soltanto per la materialità. Poteva un soggetto del genere occuparsi del suo passato al fine di decodificare il presente e progettare il futuro?
Nato nell’Era della fiction, dove il vero è indistinguibile dal falso e il concetto di Verità non esiste, il Demens ritiene che l’Artico libero dai ghiacci con al centro un’isola baciata dall’eterna primavera sia un’immagine di repertorio; dimentica, così pensando, che il termine «mito» significava in greco «parola vera», non dunque finzione, né creazione.
Anticamente nessun essere umano sano di mente avrebbe osato manipolare le «parole delle origini» (arché), con il rischio di venire fulminato seduta stante dagli dèi che in principio avevano affidato agli uomini il compito di trasmetterle. Ligio alla tradizione l’uomo antico conservava meticolosamente le conoscenze ricevute per passarle ai posteri, come altri avevano fatto prima di lui, motivo per cui non c’era alcun dubbio che in piena Era glaciale fosse esistita una vasta area di mondi poi inabissati nel quadrante posto tra Groenlandia, Islanda, Fær Øer e Scandinavia [immagine 2].
Meno profondo ed esteso l’Artico era un bacino quasi completamente chiuso, come del resto il Mediterraneo, quindi potenzialmente caldo e gradevole. Tra le basse montagne ondulate che abbracciavano immense praterie pascolavano i buoi muschiati, le mattine erano tiepide e dorate, senza zanzare e prive di vento, mentre dai promontori erbosi i fiumi parevano soltanto distese intrecciate di placidi ruscelli argentei. Quando il sole scompariva alla vista una specie di prolungata penombra ingialliva il paesaggio, l’erba tremava di freddo e dal cielo scuro provenivano i foschi presagi di un pessimo futuro, nessuno sapeva dire perché, ma subito dopo la vita continuava a scorrere.
Letteratura? Nel XIX secolo l’astronomo irlandese Robert Stawell Ball (1840-1913) si disse del tutto convinto che un’estate più lunga e un inverno più corto (rapporto giorni 229/136) in tempi preistorici avessero caratterizzato alle alte latitudini condizioni climatiche da «eterna primavera». I suoi studi si basavano sul grado di inclinazione dell’asse terrestre rispetto al piano dell’eclittica, che, com’è noto, determina l’alternarsi delle stagioni.
Il tema catturò non soltanto l’attenzione degli scienziati ma anche l’interesse di eminenti tradizionalisti come Wirth, Guenon ed Evola. Finché le analisi dei fondali furono affidate ai macchinari moderni che evidenziarono un clima temperato nel bacino artico durante l’ultima Era Glaciale (tra 125.000 e 17.000 anni fa circa), soprattutto in prossimità delle coste siberiane, norvegesi e groenlandesi. In Norvegia, oltre il circolo polare, sono state ritrovate le ossa di una ricca fauna risalenti a 42mila anni fa, e, paradossalmente, i reperti aumentano di numero procedendo verso nord.
Dal microcosmo del Sapiens a quello del Demens
In un giardino paradisiaco situato «a oriente» (un’espressione aperta usata dalla versione biblica dei Settanta per indicare l’epoca antichissima che precedette la Storia) e in un orizzonte geografico identificato con il «Nord» maturò dunque la cosiddetta «Età Aurea», all’incirca 52.000 anni fa, ad opera di coscienze umane non-polarizzate talmente inconcepibili per le generazioni successive che ad un certo punto si pensò bene d’incastonarle nel Mito dell’Androgino … ad perpètuam rèi memòriam.
L’umanità senza cultura a cui apparteniamo guarda a questo enorme patrimonio di cultura con sufficienza e i motivi del suo scetticismo sono presto detti: le tradizioni valgono zero e scarseggiano le famigerate «prove», cioè le testimonianze tangibili, i resti archeologici, le costruzioni monumentali, i nomi e i cognomi dei grandi condottieri, le date memorabili da inserire negli annali, le trame e gli intrighi su cui scervellarsi.
Fa sorridere che simili considerazioni provengano proprio dal mondo del Demens le cui intelligenze artificiali e le cui conoscenze, contenute in volatili cloud, tra pochi anni saranno completamente svanite. Quanto a cocci e monili è chiaro che una civiltà avanzata non necessita di oggetti superflui, strade e superstrade, templi in cui pregare e statue da adorare. Quando si vive in una dimensione «alta», o altissima, la materia non ha valore.
Meno prevenuti di noi i marinai veneziani del Trecento ridisegnarono invece alcuni antichi portolani e ribattezzarono l’Isola Bianca del Sapiens primordiale con il nome di Fixlanda, o Frislanda [immagine 3]. Sulle mappe medioevali non è infrequente vedere questa terra oltre la latitudine di 73° nord, più o meno dove oggi si trovano le Isole Svalbard (L. De Anna, Thule, le fonti e le tradizioni).
Indubbiamente dal punto di vista immaginifico l’isola è un simbolo da manuale in quanto ritratto di un microcosmo che si lascia gestire senza sforzi, essendo la sua geografia chiaramente delimitata, come anche il numero di persone e di storie con cui l’isolano si deve rapportare. Sebbene il discorso non valga per tutti: soltanto i cuori liberi di esprimersi raggiungono il massimo del benessere in un piccolo spazio, un’umanità dolente come la nostra imploderebbe nel giro di breve tempo.
Anche stavolta sembra dunque che la Cupola dominante abbia fatto male i suoi conti, non è infatti scontato che il Demens si lascerà rinchiudere nel «microcosmo del XXI secolo», cioè nella città dei 15 minuti. Quando del resto si passa mezzo secolo ad incoraggiare l’individualismo più sfrenato al fine di ostacolare ogni tentativo di costruzione di un’autentica civiltà, poi non si può pretendere di mettere nello stesso recinto la massa informe degli individualisti in totale assenza di una reale condivisione di valori, principi, cultura, obiettivi.
Delle due l’una. Persino le galline nel pollaio beccano in malo modo le nuove arrivate provocando uno stato di tensione collettiva che rende impossibile la convivenza. Quindi chi disegna a tavolino progetti del genere dimostra di non conoscere l’avversario né se stesso, perciò ha buone probabilità di perdere la scommessa. Scriveva Sun Tzu nel sempreverde L’arte della guerra: “Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso ma non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia.”
Si desume dall’attuale stato dell’arte che il nostro «nemico», o controparte, sia un mattoide il cui punto debole è l’ignoranza del Sacro, di cui la Natura in qualità di principio della vita fa parte. Questa entità dimentica che la «città dei 15 minuti» c’è sempre stata e proprio la sua compagine di potere ha fatto in modo di cancellare dal contesto urbano il commercio di prossimità, l’artigianato di quartiere, i rapporti di vicinato, gli ambulatori rionali, i presidi ospedalieri locali e molti altri servizi utili al gruppo sociale di riferimento. Ricostruire adesso ciò che si è appena distrutto non sarà affatto facile, ci vorranno decenni, o forse secoli.
Ma se anche per ipotesi l’impresa dovesse riuscire ne verrebbe fuori un prodotto ingegnerizzato incapace di produrre risultati apprezzabili sul quadro culturale, sociale ed economico che caratterizza il tempo presente. Essere consapevoli della situazione non significa comunque avere la vittoria in tasca, la controparte è forte e gli ostacoli non mancheranno. Ma persino le cose del mondo che sembrano avvolte nel buio pesto prima o dopo trovano una via d’uscita e si riordinano fra loro, seppure in un modo nascosto (Eraclito).
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