3 Gennaio 2025
Appunti di Storia

CESARE CIS, il primo a denunciare i crimini partigiani – Pietro Cappellari

Nell’Italia del primissimo dopoguerra era davvero molto pericoloso farsi delle domande sul movimento di Resistenza. Follia parlare di “guerra civile”, quella era stata una “guerra di liberazione”! Ed anche i parenti delle tante vittime desaparecidos nella Primavera di Sangue del 1945 rischiavano quotidianamente di far la fine dei loro congiunti. I più si traevano in disparte, perseguitati, insultati.

Nel clima di odio antifascista imposto dagli oramai onnipresenti partigiani comunisti, finalmente “al potere”, ben pochi erano coloro che avevano il coraggio – ed anche l’incoscienza – di non chinare il capo. Tra questi eroi noi oggi vogliamo ricordare Cesarino Cis, il primo giornalista italiano a parlare dei crimini della Resistenza.

Cesarino Cis

Nato a Cremona il 24 Settembre 1905, giornalista, attore e cantante; fondatore e Direttore de “La Provincia d’Aosta”, organo della Federazione provinciale fascista d’Aosta (1927-1929); Direttore tecnico per la filodrammatica dell’OND di Aosta; Redattore della “Vedetta d’Italia”, il settimanale della Federazione dei Fasci di Combattimento del Carnaro (1941-1943); Direttore de “Il Popolo Repubblicano” di Pavia durante la RSI; era stato condannato dalla Corte d’Assise Straordinaria di Pavia, nel primo processo ai fascisti, a vent’anni di reclusione. Sentenza annullata, dopo due anni di dura prigionia politica, da Giudici più sereni ed obiettivi.

Padre di sette figli, tutto gli consigliava di appartarsi, “rifarsi una vita”. Ma Cesarino Cis non era così. Aveva un dovere da compiere. E, appena uscito di galera, si gettò con tutto il suo cuore nella battaglia giornalistica in difesa della verità storica e della memoria dei Caduti della RSI. Dalle pagine di “Asso di Bastoni” fu il primo a schierarsi in trincea contro quello che al tempo era un pericoloso monolite.

Minacce, denunce, condanne, non fermarono Cis nella sua battaglia.

Si era ritirato a Monterosi (Viterbo) con la numerosa famiglia e viveva in povertà. Poco prima di morire aveva iniziato una collaborazione su un progetto – non meglio specificato e mai concretizzato – con “Il Nazionale” di Ezio Maria Gray, che lo avrebbe portato via da Roma, ma risolto in parte le sue difficoltà economiche (cfr. Cesarino Cis, “Il Nazionale”, a. IV, n. 37, 14 Settembre 1952).

Cadde, stroncato da un infarto, alle 14:10 del 15 Settembre 1951, dopo un fervente intervento politico tenuto presso la sede del Movimento Sociale Italiano di Viterbo.

Vogliamo ricordarlo con le parole della Redazione di “Asso di Bastoni” che così lo salutò:

Un grande vuoto si è aperto improvvisamente nelle nostre anime e la famiglia dell’Asso – fortemente unita nel culto dell’ideale e nel ricordo di aspre battaglie e di dure sofferenze come nella speranza di giorni migliori per la Patria nostra – piange una perdita irreparabile.

L’audace, buono, sincero, aperto, intelligente nostro camerata Cesarino Cis non è più: la morte lo ha ghermito a tradimento non appena uscito da una adunanza del MSI a Viterbo ove egli aveva come sempre recato il tributo della sua ardente parola e della sua fede intrepida. La morte, che pur lo aveva miracolosamente risparmiato in tante prove e in tanti pericoli, che lo aveva quasi lambito nelle feroci giornate della Primavera fratricida, che non era riuscita ad insidiare la sua salda tempra in quasi due anni di crudele e democratica galera.

Cesarino Cis fu combattente ardito e generoso: sempre disposto a prodigarsi e a sacrificarsi: tutto dedito alla missione cui si era votato, di rivendicare cioè i Caduti oltraggiati e ignorati e bollare a fuoco i loro carnefici tuttora impuniti. Gioviale e mite nell’intimità, di fronte alle battaglie per l’idea si trasfigurava come si accendesse una fiamma nel suo cuore: e nessun’alea, nessun rischio, nessuna responsabilità sembravano pesanti al suo spirito di rivoluzionario e di asceta.

Ed era povero, tanto povero nella sua indomita fierezza, il nostro Cesarino. Aveva saputo rinunciare a tutti i doni della vita – salvo quelli umani e divini che sgorgano dall’amore per la famiglia e per la Patria – e si era imposto, nelle drammatiche contingenze materiali comuni a tanti di noi, un costume di esemplare austerità. Era tutto il giorno al lavoro, incurante della sottile persecuzione che gli aveva conferito un primato di cui a buon diritto si vantava, tra denunce, processi e condanne per la fede: tutto preso dal dovere e dall’impeto del suo giovanile entusiasmo. Ché Cesarino credeva, come noi crediamo, nel trionfo della giustizia, nella resurrezione dell’Italia e nella rivincita della storia. Ma alla sera, spesso saltando a piè pari la colazione, se ne tornava alla modesta casetta di Monterosi ove si era alloggiato – accampato, come egli scherzosamente diceva – per non affrontare le spese che una grande città comporta, con la sua Sposa e i suoi sette figli che lo attendevano presso l’umile desco per un’ora di dolce pace illuminata dalla più soave tenerezza.

Questa la esistenza tormentata e al tempo stessa serena di Cesare Cis. Egli aveva ricoperto in passato importanti funzioni di responsabilità politica e giornalistica, ma non aveva inseguito onori, orpelli e tanto meno agi o ricchezze. Era rimasto l’uomo della trincea e della barricata e non aveva rimpianti. Si era lanciato nel pieno della mischia nelle ore della tragedia nazionale con la sua coscienza tranquilla e adamantina e poi aveva ricominciato da capo con l’ostinazione dei bravi, convinto che la battaglia politica, per i puri e gli integri, è fatta spesso di cocenti dolori e di dure avversità. Ha recato al nostro giornale un tributo inestimabile di ingegno, di lavoro e di passione; e ci sembra sia ancora là, al suo tavolo, come tutti i giorni, sorridente e gioviale. Già nelle spire di una breve ma tormentosa agonia, ha rivolto a noi il suo saluto di solidarietà e di amore: saluto che è un testamento sacro e una consegna.

Saremo ora e sempre fedeli all’incitamento e all’esempio, Cesarino. Ché se il corpo è fragile l’anima non muore. E la tua, forte, generosa, gentile è qui con noi per il combattimento che continua. Ora sei ben più in alto, ma ci sei rimasto vicino, anche se la tua partenza per l’Eterno abbia inferto in tutti i camerati dell’Asso la più acerba ferita.

Addio, Cesarino: un giorno ti giungerà in cielo la lieta novella. Noi restiamo in linea fino all’estremo, come te” (cfr. Un’anima e una fede. Ricordo di Cesarino Cis, “Asso di Bastoni”, n. 38, 23 Settembre 1951).

Come non ritrovarci, con le dovute proporzioni, in queste righe di commiato?

Ecco, questo era Cesarino Cis, cui anche io devo molto. Durante le mie ricerche sulla Repubblica Sociale Italiana sull’Appennino Umbro-Laziale (cfr. P. Cappellari, Terni repubblicana 1943-1944, Herald Editore, Roma 2020) ricordo ancora quando il caro Enrico Carloni, coraggioso pioniere di quegli studi, mi passava gli articoli di Cesarino Cis, gelosamente conservati, che parlavano dei crimini partigiani nel Ternano. Per me era quasi incredibile che un giornalista, in quegli anni così difficili, avesse avuto l’ardire di sfidare, viso a viso, degli assassini decorati dall’impunità. Storie incredibili che pure lui aveva raccontato, ma poi si erano inabissate nelle “selve” più oscure della memoria collettiva.

Cesarino Cis mi riporta agli anni della ricerca, agli affetti che non ci sono più. A quei pomeriggi di entusiasmo e curiosità passati insieme ad Enrico a Lanuvio, nella certezza di poter poi tornare a casa, dagli affetti più cari, dove avrei “messo sul pezzo” tutto quell’immenso bagaglio di informazioni che con tanta generosità e speranza mi era stato affidato.

Nostalgia forse, ma Cesarino rappresentava per me anche il simbolo del coraggio. Di un uomo che quando tutti dicevano di “nascondersi”, non aveva avuto paura di schierarsi in prima linea. Anche nella certezza di essere travolto dall’urto nemico. Per lui era un dovere. Come per noi.

 

Pietro Cappellari

(“L’Ultima Crociata”, a. LXXIV, n. 2, Febbraio 2024)

 

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