17 Luglio 2024
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Chaos


di Claudio Mutti

Una volta constatato che nell’arco storico della tradizione greca, da Omero fino al cosiddetto “monoteismo solare”, la dottrina dell’unità divina si trova variamente ma chiaramente attestata (1), è possibile porre una nuova questione, che a quella della dottrina dell’unità è strettamente collegata: è presente, nel pensiero greco, la nozione di un principio supremo al di là dell’unità stessa? In altre parole: è esistita presso i Greci la concezione secondo cui l’unità dell’essere, che trascende ogni apparente molteplicità, è a sua volta trascesa da un principio non determinato, così come secondo la dottrina taoista lo yu (l’essere) proviene dal wu, termine che non equivale ad un negativo “non essere”, bensì ad un vuoto che è pienezza perfetta ed assoluta? E’ questo principio non determinato che Anassimandro, “il primo metafisico” (2), ha voluto indicare sostantivando il neutro dell’aggettivo apeíron, -on? 

A quanto risulta da una testimonianza di Teofrasto, Anassimandro “ha detto che principio ed elemento (archén te kaì stoicheîon) degli enti è l’infinito (tò ápeiron), introducendo per primo questo nome di ‘principio’; e dice che questo non è né l’acqua né alcun altro dei cosiddetti elementi, ma una certa natura infinita (tinà phýsin ápeiron), altra da essi, dalla quale nascono tutti i cieli e i mondi che in essi sono” (3). Sotto il profilo etimologico, ápeiron può essere messo in relazione con péras, “limite”, per cui si applica a ciò che è “privo di limiti”; anche facendolo derivare dalla radice verbale *per (peíro, peráo ecc.), si ha il significato di “non attraversabile, inesauribile”, sicché, in ogni caso, l’ápeiron è l'”infinito”.  Non risulta strano perciò che l’ápeiron anassimandreo sia stato accostato al cháos della Teogonia di Esiodo (4). Secondo la teologia esiodea “invero primamente fu il Caos” (“étoi mèn prótista Cháos ghénet'”) (5), da cui nacquero successivamente Gea, il Tartaro, Eros, l’Erebo, la Notte e da loro, a mano a mano, tutte le generazioni degli dèi. Con Esiodo, informa Platone, “concorda anche Acusilao, dicendo che questi due, Gea ed Eros, nacquero dopo il Caos” (6). Lo stesso concetto ricorre in Aristofane: “In principio era il Caos e la Notte e il nero Erebo e il vasto Tartaro” (“Cháos ên kaì Nýx Erebós te mélan prôton kaì Tártaros eurýs”) (7). Nel libro XIV della Metafisica aristotelica leggiamo che secondo gli antichi teologi “regnano e governano (basileúein kaì árchein) non gli dèi primordiali (toùs prótous), come la Notte e il Cielo o il Caos o l’Oceano, bensì Zeus” (8).  Usato da questi autori per designare il principio non formale degli dèi e di tutto ciò che esiste, il sostantivo neutro cháos acquista il significato estensivo di “spazio vuoto, distesa dell’aria” (9), come ad esempio in Bacchilide: “en atrýtoi cháei” (10) e in Aristofane: “tò cháos toutí” (11), “diapétei – dià tês póleos tês allotrías kaì toû cháous?” (12). Da questa accezione si passa a quella di “abisso sotterraneo, tenebra” (13), come nell’Assioco platonico, dove cháos indica il tenebroso ventre della terra: “ep’érebos kaì cháos dià Tartárou” (14); il vocabolo ha lo stesso significato nell’Antologia Palatina, dove Cerbero è “il cane del Caos” (15). Si ha così, per estensione, l'”ouranóthen mélan cháos” di Apollonio Rodio (16), reso da F. Vian con “noire béance émanée du ciel” (17). Erebo e Caos sono evocati congiuntamente anche da Virgilio e da Ovidio: “Erebumque Chaosque” (18), “Ereboque Chaoque” (19). Tuttavia Ovidio, il quale chiama Chaos l’immenso regno d’abisso attraversato da Orfeo (20), restituisce al termine il significato che ad esso compete nel contesto della teogonia:

Ante mare et terras et, quod tegit omnia, caelum,
unus erat toto naturae vultus in orbe,
quem dixere Chaos, rudis indigestaque moles
nec quicquam nisi pondus iners congestaque eodem
non bene junctarum discordia semina rerum. (21)

Massa informe e confusa, peso inerte, mucchio di semi scombinati: è il “chaos antiquum” in cui ritornerebbe l’universo qualora si confondessero mare, terra e cielo (22). È la materia informe, oscura e confusa (“aphanès kaì kechyméne amorfía”), che un Eros generato dal Principio (“he protospóros arché”), dopo averne estratto il tutto (“tò pân”) come da un sepolcro, costringe a rifugiarsi nei recessi del Tartaro (23). Mentre questo valore “principiale” di cháos è recuperato dai Pitagorici, i quali ne fanno un simbolo dell’unità (24), lo stoicismo antico fa derivare cháos da chéo, “versare, fare scorrere”, e gli attribuisce il significato di “acqua”: “Nam Zenon Citieus sic interpretatur, aquam cháos appellatum apò toû chéesthai” (25). Stesso significato nel breve scritto plutarcheo Aquane an ignis sit utilior (26).  

Più interessante appare l’etimologia di tipo varroniano che pone Chaos in relazione con Hianus (Ianus), nome del dio primordiale nella religione romano-italica: “Me Chaos antiqui – nam sum res prisca – vocabant” (27). Questa sorta di nirukta latino, oltre a restituire il nome Chaos alla divina realtà principiale (res prisca), liberandolo dalle seriori accezioni di significato infero, rivela l’essenziale rapporto del Principio col “vuoto”, essendo Giano il dio delle aperture: se Ianus rinvia a ianua, la forma Hianus contiene la radice di hio e hi(a)sco, “aprirsi”, che è la stessa di cháos. Infatti, secondo l’etimologia accettata dai linguisti, cháos proviene da una radice indoeur
opea che in greco ha prodotto anche i verbi chásko e cháino, “aprirsi, spalancarsi”; in latino ha prodotto hio e hi(a)sco, “aprirsi”; in sanscrito (vi)haya- “campo aperto”; in norreno gina; in alto tedesco gien, ginen; in lituano zhiòju, “apro”; in serbocroato zjam, “apro la bocca”; rimane nel verbo romeno a căsca, “aprire la bocca”. Alla medesima radice è riconducibile in sanscrito il sostantivo neutro kha, che riveste i seguenti significati: “cavità, buco, caverna, organo di senso, cielo, Brahma” (28); e ancora: “spazio, spazialità interna; il ‘cielo’ della pura coscienzialità, non condizionata dalle contingenze” (29). Nel Rg Veda, ad esempio, il termine kha designa “il buco del mozzo attraverso cui passa l’asse di una ruota” (30); secondo Ananda Coomaraswamy “il kha vedico (…) in origine era il chasma (‘apertura’, n.d.r.) rappresentato dalla Porta del Sole e dalla Porta del Mondo” (31).
  Nelle Upanishad viene chiamato kha lo spazio etereo primordiale che si identifica col brahman: “kham brahma, kham purânam, vâyuram kham” (32). Ma il brahman non è soltanto il vuoto, esso è anche il pieno (pûrna): “pûrnam adah, pûrnam idam, pûrnât pûrnam udacyate…” (33). Infatti l’opposizione tra il vuoto e il pieno “è meramente apparente, in quanto nel ‘vuoto’ di determinazioni e qualificazioni v’è infinita ‘pienezza’ di possibilità. Shûnya (altra parola per indicare il vuoto, n.d.r.) non è dunque un ‘nulla’ né esprime un carattere negativo o di annichilimento” (34). È detto shûnya anche il segno matematico indiano dello zero, che, identificato con l’akâsha (“spazio”, “etere”), “venne in origine concepito come simbolo del brahman e del nirvânam” (35). Lo zero viene dunque designato sia con le parole corrispondenti a “vuoto” (kha, shûnya) sia con quella corrispondente a “pieno” (pûrna); e questo perché “tutti i numeri sono virtualmente o potenzialmente presenti in ciò che è senza numero” (36), secondo quanto osserva Coomaraswamy. Il quale prosegue argomentando così: “Se si esprime questa idea con l’uguaglianza 0 = x – x, risulta evidente che lo zero è per il numero quello che la possibilità è per l’attualizzazione. L’impiego del termine ananta (“senza fine”, n.d.r.) col medesimo riferimento implica l’identificazione dello zero con l’infinito, sicché l’inizio di ogni serie si identifica con la sua fine” (37). 
Lo zero matematico, dunque, è segno di possibilità infinita, cosicché esso ci rinvia immediatamente a quello Zero metafisico di cui René Guénon scrive: “lo Zero metafisico, che è il Non-Essere, non è lo zero di quantità più di quanto l’Unità metafisica, che è l’Essere, non è l’unità aritmetica; quel che così è designato da questi termini non può esserlo che per trasposizione analogica, poiché, per il fatto che ci si pone nell’Universale, si è evidentemente al di là di ogni dominio speciale come quello della quantità” (38). Guénon sviluppa ulteriormente il concetto dell’analogia tra zero matematico e Zero metafisico, affermando che quest’ultimo è principio dell’Unità e che il Non-Essere è principio dell’Essere. “Come il Non-Essere, o il non-manifestato, – egli scrive – comprende ed ingloba l’Essere, principio della manifestazione, così il silenzio comporta in sé il principio della parola; in altri termini, come l’Unità (l’Essere) non è altro che lo Zero metafisico (il Non-Essere) affermato, la parola non è altro che il silenzio espresso; ma inversamente, lo Zero metafisico, pur essendo l’Unità non affermata, è anche qualcosa di più (e diremo meglio, qualcosa di infinitamente più)” (39). Come è noto, l’ideogramma numerico corrispondente allo zero si presenta storicamente in due varianti, quella circolare e quella puntiforme; se nel primo caso esso rappresenta l’immagine dello spazio vuoto, nel secondo abbiamo invece un vero e proprio simbolo principiale ed assiale. Infatti il punto, l’unica figura priva di dimensioni, è il nihil che costituisce l’arché del tutto e su cui il tutto impernia la propria esistenza, come risulta particolarmente evidente se consideriamo la funzione di “motore immobile” (akíneton kinoûn) svolta dal punto al centro dello svastika.


Altrettanto evidente è il valore principiale connesso al simbolo del punto – immagine dell’arché in cui “era il Logos” – se consideriamo che secondo un celebre detto dell’Imam Alì il Verbo divino è contenuto nel puntino diacritico della bâ’, la lettera araba con la quale comincia il primo versetto (la basmalah) della prima sura coranica (la Fâtihah): “Sappi – dice l’Imam – che tutti i segreti dei Libri celesti sono nel Corano; e tutto ciò che è nel Corano è nella Fâtihah; e tutto ciò che è nella Fatiha è nella basmalah; e tutto ciò che è nella basmalah è nella bâ’; e tutto ciò che è nella bâ’ è nel punto; e io sono il punto sotto la bâ'” (40).

(Saggio pubblicato anche sulla pagina personale www.claudiomutti.com)

Ereticamente ringrazia l’Autore per il Suo contributo esclusivo e l’ Amico Luca Valentini che ha coordinato l’attività

Note:

1. Cfr. C. Mutti, La dottrina dell’unità divina nella tradizione ellenica (http://www.claudiomutti.com/index.php?url=6&imag=1&id_news=204).
2. G. B. Burch, Anaximander the first Metaphysician, in “Review of Metaphysics”, III, 1949-1950, pp. 137-160.
3. Theophr., Fragm. 12 A 9 D.-K.
4. F. Solmsen, Chaos and Apeiron, in “Studi Italiani di Filologia Classica”, XXIV, 1950, pp. 235-248.
5. Hes., Theog. 116.
6. Plat., Symp. 178b.
7. Aristoph., Aves 693.
8. Aristot., Metaph. XIV, 4, 1091b6.
9. F. Montanari, Vocabolario della lingua greca, Torino 2004, s. v.
10. Bacchil., Epin. 5.27.
11. Aristoph., Nubes 424.
12. Aristoph., Aves 1218.
13. F. Montanari, ibide
m.
14. Plat., Axioch. 371.
15. Anth. Pal. 16, 91.
16. Apoll. Rh., Argon. IV, 1697.
17. Apollonios de Rhodes, Argonauthiques, tome III, Paris 1981, p. 142.
18. Verg., Aen. IV, 510.
19. Ov., Metam. XIV, 404.
20. Ov., Metam. X, 30.
21. Ov., Metam. I, 5-9.
22. Ov., Metam. II, 299.
23. Luc., Erotes, 32.
24. Ps. Iambl., Theolog. arithm., 6.
25. Zen. Cit., Stoic. Vet. Fragm., I, p. 29.
26. Plut., Aquane an ignis sit utilior, 955.
27. Ov., Fasti, I, 103.
28. Dizionario sanscrito-italiano, Milano 1993.
29. Asram Vidya, Glossario sanscrito, Roma 1988.
30. M. Williams, cit. in: A. K.Coomaraswamy, Kha and other words denoting “Zero” in Connection with the Indian metaphysics of space, “Oriens”, vol.VII, 7-9, Summer 2010, p. 1.
31. A. K. Coomaraswamy, Il grande brivido. Saggi di simbolica e arte, Milano 1987, p. 488.
32. Brihad. Up., V, 1.
33. Brihad. Up., ibidem; cfr. Ath. Veda, X, 8, 29.
34. Asram Vidya, Glossario sanscrito, cit.
35. B. Heimann, Facets of Indian Thought, London 1964, p. 24.
36. A. K.Coomaraswamy, Kha and other words denoting “Zero”, cit., p. 1.
37. A. K.Coomaraswamy, Kha and other words denoting “Zero”, ibidem.
38. R. Guénon, La metafisica del numero. Principi del calcolo infinitesimale, Carmagnola 1990, pp. 86-87.
39. R. Guénon, Gli stati molteplici dell’essere, Torino 1965, p. 41.
40. Al-Qandûzî al-Hanafî, Kitâbu yanâbî’i ‘l-mawadda, p. 79

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