8 Ottobre 2024
Ārya Tradizione

Che cos’è il reale? – Riccardo Tennenini

Con l’articolo precedente abbiamo chiuso il ciclo che descrive il ruolo del uomo secondo il Vêdânta. Ora affronteremo i suoi molteplici aspetti metafisici partendo da una domanda, che cos’è il reale?

La risposta è ciò che è costante, che non subisce cambiamento, aldilà della causa, spazio-tempo, nascita e morte. Di conseguenza tutto ciò che è manifestato e che possiede questi attributi non è reale ma relativo, contingente e illusorio.

Allora sorge spontanea una seconda domanda, ma se tutto è illusorio compreso il nostro corpo cosa rimane? Sankara: risponde con queste parole:

«Rimane quell’unica cosa, sola, indefettibile Realtà, ovunque presente mai nata, sempre identica a se stessa, eternamente vera e senza causa; rimane il Brahman (nirguna), Uno senza secondo».

Posto così il problema può essere risolto solo con un intuizione\intuitiva tramite la vidyā (conoscenza) che ci distolga dall’avidyā (ignoranza) condannandoci nel saṃsāra. Questa ignoranza è data da una errata percezione mentale-sensoriale causata dalla māyā che porta con se i tre guna.

Generalmente viene definita “aghatana ghatana patiyasi” cioè che rende possibile l’impossibile.

Essa non risolve solamente il dilemma filosofico oggetto-soggetto, ricollega il fenomeno al noumeno, il relativo all’assoluto e il visibile all’invisibile. Ma anche il fattore con il quale noi conosciamo questa “realtà” attraverso una percezione sensoriale. Tale conoscenza è solo mentale. Quando vogliamo definire qualche cosa pensiamo a quella cosa, è che tale definizione sia intrinseca  alla cosa pensata invece è solo una percezione con il soggetto individuale. Ogni volta che definiamo qualche cosa rimaniamo nel dualismo che non porterà mai alla realtà ultima. Perché i sistemi dualisti pongono da una parte l’oggetto e dall’altra il soggetto; da una il noumeno cioè per Platone, a quanto è pensato o pensabile dal puro intelletto indipendentemente dall’esperienza sensibile. Mentre per il Vêdânta sono un unità unica e basterebbe strappare il velo di māyā.

Noi immaginiamo ciò che viviamo, è ovvio che tale immagine cambi lo spazio-tempo perché scaturisce da una percezione immagine\sensoriale errata perché noi stessi viviamo in una non-realtà fittizia. Sankara usa spesso l’esempio della corda scambiata per serpente per spiegare che quello che guardiamo non é un «serpente» ma frutto della nostra immaginazione, e finché persiste noi lo percepiamo «reale». Il continuo pensare e immaginare genera il conflitto; da una parte modifichiamo sempre tale immagine e dall’altra quando capiamo che non è un «serpente» bensì una corda, l’illusione svanisce e noi vediamo la vera Realtà. Un esempio «profano» c’è lo fornice il film Matrix quando parla del reale con queste parole:

Neo (toccando una poltrona): “Questo non è reale?”

Morpheus: “Che vuol dire reale? Dammi una definizione di reale. Se ti riferisci a quello che percepiamo, a quello che possiamo odorare, toccare e vedere, quel reale sono semplici segnali elettrici interpretati dal cervello.

Un’altra domanda logica da porci è se la māyā è irreale o reale. A questa domanda seguono tre risposte: l’individuo comune la definisce vistavi (realtà), colui che studia le scritture tuccha (irreale) mentre il metafisico anirva-caniya (né reale né irreale).

Per alcune religioni ciò che ha reso schiavo l’uomo è stato il peccato o la disobbedienza verso  Dio mentre per la metafisica vedantina è avidyā l’ignoranza metafisica. Solo dopo averla dissipata si potrà accedere alla Realtà. Nella śloka 18 del Vivekacūḍāmaṇi leggiamo:

«I saggi hanno detto che per la realizzazione occorre praticare quattro qualificazioni senza le quali l’attuazione del Brahman può fallire». Queste quattro qualificazioni sono: «la prima è la discriminazione tra reale e non reale, la seconda è il distacco da ogni frutto dell’azione sia in questo mondo sia in altri, la terza è costituita dal gruppo delle sei qualità, e la quarta è l’aspirazione ferma e ardente alla liberazione».

Invece le sei qualità sono:  Sama è la condizione di mente pacificata che contempla costantemente la mèta, dopo essersi distaccata dalla molteplicità degli oggetti sensibili perché ha messo in evidenza la loro vacuità.[1]

Dama, o autodominio, si ha quando si staccano i due gruppi di organi sensoriali dai loro oggetti corrispondenti, riportandoli ai loro rispettivi centri, uparati [raccoglimento (la terza qualità)] è ritenuto perfetto quando gli oggetti esterni cessano di mettere in modo le vrtti (modificazioni mentali).[2]  Titiksā, o pazienza, è quella condizione che sa accettare le affizioni senza risentimento o ribellione, trovandosi libera da ogni ansietà e da ogni lamento.[3]  Sraddhā è l’aderenza fiduciosa alla verità esposta nelle Scritture e dal proprio guru; con essa si previene ad apprendere il vastu (reale).[4]

Samādhāna, o stabilità mentale, è quella condizione in cui la buddhi è costantemente concentrata sull’assoluto Brahman, senza cadere nel giuoco mentale.[5]

 

SCHEMA RIASSUNTIVO

 

Le quattro qualificazioni e le sei qualità:

 

Discriminazione tra reale e non-reale.

Distacco dai frutti delle azioni.

Osservanza delle virtù.:

 

Sama

Dama

Uparati

Titiksā

Sraddhā

Samādhāna

 

Volontà per la liberazione.

 

[1]    Sankara –  Vivekacūḍāmaṇi, śloka 22.

[2]    Sankara –  Vivekacūḍāmaṇi, śloka 23.

[3]    Sankara –  Vivekacūḍāmaṇi, śloka 24.

[4]    Sankara –  Vivekacūḍāmaṇi, śloka 25.

[5]    Sankara –  Vivekacūḍāmaṇi, śloka 26.

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