Un singolare spettacolo è andato in onda nell’ultima puntata del programma di LA7 “Servizio Pubblico”.
Diversi i temi affrontati. Dal lavoro ai famigerati 80 €, dai rapporti con l’U.E. alle lotte sindacali che intercorrono su tutto il territorio nazionale, con un occhio di riguardo per le acciaierie di Terni. Ma il tema cardine, più “caldo”, foriero di divisioni per antonomasia, ottimo ingrediente per diatribe da salotto televisivo che sono “acqua” per il mulino dello share, ciliegina sulla torta di ogni “serio” talk show, dulcis in fundo per lo scoppio dei fegati, è stata l’immigrazione.
Tre i principali ospiti di “spessore” a contendersi l’attenzione del pubblico. Il folkloristico Mario Borghezio, terrore verde del parlamento europeo, il segretario della FIOM – CGIL Maurizio Landini, l’ultimo dei mohicani di quello che fu il sindacalismo barricadiero, e una delle candide voci del governo “Happy Days” di Matteo Renzi, l’On. Simona Bonafé.
Per quanto l’abbinamento di queste tre “voci” potesse sembrare esplosivo, in verità il dibattito è stato alquanto sommesso per quasi tutta la durata della trasmissione. L’apice dell’inverosimile si è raggiunto nella parte finale. Qui, come da copione, si è potuto assistere alle litanie con cui Travaglio chiude ogni puntata. Questa volta andava in scena l’attacco semanticamente forbito di tutte le politiche anti-immigratorie che in questi anni si sono susseguite. Dalla legge Bossi-Fini, il reato di clandestinità, le richieste di lavoro da parte degli stranieri, ecc… In sostanza se si volesse leggere in modo diverso quello che il condirettore del “Il fatto quotidiano” ha proferito, è che tramite la burocrazia e le innumerevoli leggi emesse si è stati fin troppo buoni nei confronti di un fenomeno che per i livelli che ha assunto andava sedato con mezzi più coercitivi.
Poi, agli sgoccioli, è arrivato Pape Diaw, il portavoce della comunità senegalese di Firenze ed in passato consigliere comunale del centrosinistra nella stessa. Insomma “un campione dell’integrazione”, qualcuno potrebbe osservare. Da lui è pervenuto una dura reprimenda per il perdurare del termine “clandestino”, “sono richiedenti asilo” ha detto, e con fare di sapiente maestro ha “bacchettato” questa Italia “dove i problemi si discutono ma non si risolvono”. Non ne sono mancate nemmeno per l’aspetto storico e per l’attuale contesto sociale: “L’Europa è stata trecento anni in Africa privandola di tutte le sue risorse, la Cina sta privatizzando parti importanti del Continente Africano. Se gli togli tutto questa gente deve andare per forza da un’altra parte”. E poi “In Italia ci sono meno immigrati che nel resto d’Europa… Gli immigrati che arrivano non voglio stare in Italia ma andare altrove”. E in ultimo, quasi per dire “il bue che dice cornuto all’asino”, ha tirato fuori delle storielle che ancora non si erano udite: “A New York ci sono 700.000 Italiani clandestini” e 8.OOO.OOO, si avete capito bene, nel Sud America. Si è spopolata l’Italia! Ma in particolar modo in un paese come gli Stati Uniti d’America dove si viene messi alla porta se non si è in possesso dei giusti documenti, questa storia di un numero così elevato di italiani clandestini è molto curiosa.
Ma che c’entra il Thomas Sankara del titolo con l’Europa, i clandestini, la Bossi – Fini, Travaglio e Santoro, e soprattutto chi lo uccide?
C’entra eccome!
Thomas Sankara, combattente del nostro tempo tanto da essere soprannominato “il Che Guevara africano”. Non solo spese tutto se stesso per ridare giustizia al suo Burkina Faso, ma ambì ha ridare libertà ed indipendenza a tutta la martoriata terra d’Africa tramite il verbo del panafricanismo. Memorabile il suo discorso datato 29 luglio 1987 alle Nazioni Unite, dove scaglio parole di fuoco contro i perenni schiavizzatori del suo continente, gli imperialisti che perpetuavano il loro dominio con la nuova arma del debito, invitando tutti i paesi sotto questa spada di Damocle a non ripagare un centesimo di questo criminale debito. Un uomo che con il suo martirio è divenuto un emblema dei sinceri patrioti.
Ma il suo più grande merito è stato quello di aver cercato di spronare il suo popolo. Di ridargli capacità di forza, non solo fisica ma mentale. La sua fu una rivoluzione antropologica vera, volta a cambiare il modo di pensare ed essere dell’africano, non più il plurisecolare schiavo che pensa e che vive come uno schiavo, ma l’uomo che conscio della sua condizione, spezza le catene dell’oppressione e si muove per riprendersi ciò che è suo.
Lui si è battuto contro la sua stessa gente vedendola come un prodotto dell’imperialismo, pretendendo ed imponendo l’efficienza produttiva e morale, esigendo che la sua rinata nazione si meritasse il nome di Burkina Faso, “Terra degli uomini integri”.
A fronte di così fulgidi esempi dispiace constatare che ci sia gente, proveniente da quella parte del mondo, che usa la sua rabbia per rivendicare propri diritti in paesi stranieri. Dimenticandosi totalmente di quella sua terra, come un ingrato figlio si dimentica della madre bisognosa. Eccolo l’imperialismo! Lo si rivede in questi uomini di coloro che parlano di “identico trattamento” tra autoctoni e allogeni. In loro l’imperialismo culturale è riuscito dove le frustate non avevano potuto. Neri fuori, ma bianchi dentro. Come puoi stroncare un popolo? Fagli credere che il mondo è la sua terra, fagli sentire il profumo del denaro nelle nazioni più floride, fallo parlare con la tua stessa lingua, mettigli in testa la ricerca di diritti e garanzie in paesi esteri e lì avrai un apolide.
Se queste persone fossero realmente dei paladini della giustizia capirebbero che l’immigrazione massiccia non è altro che la moderna forma di schiavismo. Che il nero, l’asiatico, sono il battistrada con cui l’alta finanza spopola le loro terre e minaccia la serenità, la forza lavoro, della parte più ricca del mondo.
Se queste persone fossero sincere sarebbero le prime a prendersela con chi sbarca in Europa da quelle navi fatiscenti.
Se l’immigrazione non avesse per oggetto null’altro che il riparare in terre straniere, ricostituirsi per poi correre alla riconquista delle proprie nazioni, ognuno la sosterrebbe senza problemi. Un bel sogno che non è.
Quindi chi, ancora oggi, uccide Thomas Sankara? Gli stessi africani.
Federico Pulcinelli
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