“Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita.” L’incipit della Commedia è stato interpretato da più parti come la rivelazione di un oscuro momento di sbandamento morale dell’autore, da qui la perdita della «giusta via». Può capitare: le crisi di mezza età colpiscono a caso, toccando anche i migliori. Ma quando mai un depresso si è lanciato in un’impresa straordinaria anziché crogiolarsi nel suo male?
Il diario di viaggio potrebbe essere stato ideato successivamente, nella fase della guarigione. Oppure, non è andata così. “Io non so ben ridir com’i’ v’intrai”, continua il testo, “tant’era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai.” L’affermazione è alquanto sibillina. Cosa significa quel “intrai (…) pien di sonno”? Dorme? E’ preda di un sogno lucido, o sta per intraprendere un «viaggio» molto particolare?
Può darsi che giunto a metà strada Dante abbia «osato» affrontare un’esperienza mai tentata in precedenza. Dopotutto non stiamo parlando di un uomo qualunque che non si curava di penetrare il senso delle cose, bensì di un grande iniziato dotato di una profonda cultura tradizionale e in possesso di conoscenze occulte tuttora oggetto di studio e di accesi dibattiti.
Andiamo avanti. Superate le prime emozioni e dopo avere incontrato il suo Spirito Guida un lampo sanguigno gli fa perdere i sensi, o, forse, lo fa entrare in uno stato di trance: “La terra lagrimosa diede vento, / che balenò una luce vermiglia / la qual mi vinse ciascun sentimento; / e caddi come l’uom cui sonno piglia” (Inferno, canto III, 133-136). Nel secondo cerchio dell’Inferno gli accadrà la stessa cosa, e poi ancora. E’ plausibile che un uomo disposto ad attraversare l’Inferno cada in deliquio come una donzella romantica ascoltando, per esempio, la storia languida di Paolo e Francesca?
Come ci si aspetterebbe da un «istruttore spirituale» di lungo corso il Maestro là sotto c’è già stato, prima della comparsa sulla Terra della luce di Cristo. Proprio navigando spesso nel mondo delle allucinazioni sotterranee e degli Spiriti, trattando con loro e apprendendo importanti nozioni, il primo homo religiosus poté raggiungere e mantenere nel tempo un alto grado di abilità, di conoscenza e di confidenza con il mondo ultraterreno.
Con la raccolta degli indizi siamo già a quota tre: prima l’entrata nell’infernale oscurità che terrorizza, poi le continue perdite di coscienza, infine il Maestro che «appare quando il discepolo è pronto», come dice un proverbio cinese. Considerata la levatura intellettuale e morale dell’autore, si può immaginare che non sia casuale neppure il punto di partenza del percorso iniziatico descritto nella Commedia: il sottosuolo, ovvero il primo luogo di adorazione dell’uomo reduce dalla lunga Era Glaciale, il precorritore di tutti i santuari, i templi, le sinagoghe, le chiese e le moschee del mondo.
Lo «spazio magico» lungamente frequentato da quanti all’interno della comunità erano deputati a «fare il sacro» ed ora teatro del poema è inoltre trapuntato di numeri 3 e di triangoli come il cielo di stelle, e il 3 era considerato «forma del divino» molto tempo prima che i matematici e i filosofi lo eleggessero a emblema della «perfezione». Non reputando funzionale al testo una digressione sui misteri del triangolo, limitiamoci a considerare la sua importanza nell’ambito dell’esperienza sciamanica poiché, come ormai avrete capito, di questo stiamo parlando.
La posizione iconografica assunta dal viaggiatore tra i mondi che agiva in stretto contatto con i ritmi potenti del Cosmo e con le energie della Natura è stata immortalata circa 35.000 anni fa nelle grotte di Lescaux, nel sudovest della Francia, in una delle più enigmatiche pitture rupestri del Paleolitico Superiore.
Insieme a varie immagini di animali e di teriantropi quelle pareti ci hanno riconsegnato la figura di uno sciamano con il fallo eretto che si sottopone a una trasformazione allucinatoria. Sappiamo che si tratta di uno sciamano per via dell’uccello appollaiato sul bastone, un segno distintivo largamente noto e rintracciabile in varie latitudini: da Lescaux al geroglifico della «pertica» riportato nei Testi di Edfu quale manifestazione simbolica «della resurrezione del primo mondo sacro», dalle tombe degli yakuti siberiani alla cima dei totem dei Pellerossa.
Nel graffito francese spicca la posizione innaturale del viaggiatore tra i mondi, che appare piegato all’indietro fino a formare un angolo di circa 36°. Era dunque questo il «marchio» dello sciamano paleolitico in estasi? Non è una contraddizione la sua forma itifallica? Come può essere eccitato un «semi-morto», uno svenuto in trance, o comunque un individuo momentaneamente privo di sensi? A quanto pare, funziona così. Da sempre, infatti, gli sciamani associano l’erezione all’eccitazione «bollente» che si prova quando la potenza del soprannaturale s’impadronisce dello spirito, costringendo il corpo ad adeguarsi.
Migliaia di anni dopo gli artisti sacri di Lescaux, i sacerdoti Egizi utilizzarono il triangolo rettangolo per mappare la loro triade sciamanica: Iside rappresentava la base, Horus s’innalzava sottoforma di perpendicolare e Osiride, il più potente di tutti, era l’ipotenusa. Ciò significa che anche nell’Antico Egitto la «posizione aurea» con l’angolo di 36° era considerata dagli iniziati la più adatta per prepararsi alla visita di entità soprannaturali che avrebbero concesso al Visitatore in trance utili conoscenze e poteri di guarigione.
Fu mummificarlo con il pene in erezione anche il faraone-fanciullo Tutankhamon, mentre un suggestivo dipinto ritrovato nella tomba di Ramses IX mostra un triangolo rettangolo la cui ipotenusa è formata dal corpo del faraone con il fallo eretto. Se si tratta di semplici coincidenze, o di artifici pittorici, alzi la mano chi può spiegare altrimenti la posizione semisdraiata su un triangolo rettangolo di un sovrano che governò l’Egitto all’incirca nel 1100 a.C., cioè 500 anni prima di Pitagora.
Chiaramente non vi sono immagini di Dante in questa posa, nel Trecento era il linguaggio enigmatico ad andare per la maggiore, si usavano altri mezzi per alludere alla perfezione del triangolo aureo. L’angolo al vertice acuto misurava esattamente 36° e, dato che gli angoli alla base erano congruenti, essi misuravano 72°, ovvero il doppio dell’angolo al vertice. Si ritorna così alla mappatura dei «numeri cosmici» (12-24-36-48-60-72) utilizzati dalla «civiltà degli déi» (i primi civilizzatori scesi dall’Artico) per trasmettere in modo simbolico concetti difficili a menti semplici.
Ne consegue che certe conoscenze erano tanto alla portata degli iniziati preistorici quanto di quelli medioevali, probabilmente esistono ancora oggi e in futuro faranno mangiare la polvere al metaverso. L’uomo dell’Età Oscura si è allontanato vertiginosamente dai mondi dello Spirito, questo è vero, tuttavia dopo il buio torna la luce. E’ la regola.
Tre sono anche le fiere dell’Antinferno che ostacolano l’avanzata (spirituale) del poeta, alle quali la nostra cultura autoreferenziale ha assegnato il compito di mappare la natura umana, con tanto di lati oscuri quali il pensare, il sentire e il volere/desiderare. Il leone sarebbe la brama di potere e di grandezza, la pantera/lonza incarnerebbe frode ed eresia mentre la lupa rappresenterebbe l’avidità intellettuale che in definitiva riassume tutto il resto. Ciò spiegherebbe anche il motivo per cui il poeta indica il sottosuolo come «sede naturale» della lupa, mentre i lupi presenti nell’emisfero settentrionale vivono nei boschi, nei deserti, nelle tundre e nelle pianure. Mai sottoterra; e di lupi nell’inferno dantesco ce ne sono parecchi. Ma perché questi animali dovrebbero rappresentarci? Siamo sicuri che il mondo di noialtri sia il perno attorno al quale gira tutto il resto?
Finora l’opera più letta e più studiata del mondo è stata analizzata sotto il profilo letterario, storico e filosofico, sempre comunque in modo «profano». Ma nemmeno Virgilio è un semplice artificio poetico, come ha sottolineato Guénon in L’esoterismo di Dante, bensì un Maestro che dà continuamente prova di un sapere iniziatico incontestabile. C’è molto altro dietro le apparenze. Di conseguenza le fiere potrebbero essere tranquillamente dei teriantropi, come se ne incontrano spesso nel buio del sottosuolo durante l’esperienza sciamanica.
Non è finita. All’uscita dell’Inferno per purificarsi Dante si sottopone ad una triplice abluzione, e guarda caso prima di accedere al Cielo le anime mussulmane vengono immerse nelle acque dei tre fiumi che bagnano il giardino di Abramo. Entrambe le visioni discendono da retaggi concettuali e rituali risalenti ai tempi remoti in cui l’integrità della persona, fatta di Spirito e di Corpo, rappresentava il punto di partenza per raggiungere qualsiasi vetta spirituale.
All’opposto delle forze del Male che si annidavano nei «disturbi» più disparati, il Bene amava stare nel pulito, ovvero nelle zone chiare e limpide dei fiumi e dei laghi dove gli uomini andavano a lavarsi prima e dopo ogni percorso rituale. Tale convinzione accomunava numerosi popoli di discendenza indo-aria ed è antropologicamente rintracciabile in buona parte dell’emisfero settentrionale, lungo un percorso ellittico che coincide con il «cammino della civilizzazione» dei primi Sapiens scesi dall’area boreale.
Nel XXIII canto dell’Inferno (infestato anch’esso da teriantropi, Arpie e cagne nere), i suicidi la cui anima molesta ha danneggiato il corpo sano vengono fustigati dalle fronde di una selva ancora più insidiosa della Selva Oscura del canto iniziale. E’ noto come alcune pratiche igienico-spirituali in uso presso le civiltà più antiche, come ad esempio la sauna, prevedessero proprio la fustigazione del corpo dopo la purificazione prodotta dal vapore sviluppato dall’acqua versata su un cerchio di pietre incandescenti.
Come diceva Agatha Christie un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova. E qui, siamo già ai multipli di tre. Dopotutto il tema della Commedia, come osserva Guénon, “ha il più stretto rapporto con i misteri dell’antichità.” Dante compie infatti il suo viaggio durante l’equinozio di primavera (la settimana santa), il periodo delle iniziazioni e delle grandi imprese.
Anche l’architettura dell’Inferno dantesco è una mappatura già vista, come la suddivisione dei tre mondi, ricorrente nelle dottrine tradizionali. Ottant’anni prima del Fiorentino aveva intessuto la sua tela sulla stessa trama Rivelazioni della Mecca del mistico e poeta Mohyiddin ibn Arabi, un testo che si rifaceva a racconti persiani, probabilmente ispirati da narrazioni indiane, eccetera eccetera.
Il filo rosso c’è, per chi lo vuole vedere. Dante stesso avverte il lettore: il senso esteriore dell’opera è semplicemente il velo poetico che cela un ben più importante significato nascosto, accessibile soltanto a chi possiede le conoscenze necessarie e gode di una solida integrità spirituale. In concreto: no perditempo, depressi, conformisti e frustrati. “O voi che ch’avete li ‘ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ‘l velame de li versi strani” (Inferno, IX, 61‑63).
Tutto ciò in un certo senso rincuora. Significa che l’Inferno dantesco, come l’Età Oscura, è un vicolo cieco solo per coloro che non sanno cavarsela con i propri mezzi, ovvero si perdono l’essenziale per paura di osare. Al momento siamo nei guai fino al collo, su questo non ci piove, ma c’è speranza. A patto di tenere costantemente le antenne dritte, puntando gli occhi sul mondo anziché sullo smartphone o sul tablet. Inutili giochi di distrazione di massa creati apposta per disturbare la percezione e fuorviare il pensiero.
Osiamo l’impossibile: guardiamoci attorno con attenzione, stupore e meraviglia. Nessuno l’avrebbe detto, solo cinquant’anni fa, ma oggi questa semplice azione è un atto rivoluzionario. Sarà confortante constatare che la bellezza biologica che ci circonda è stata creata appositamente per noi, nessun altro potrà mai averla. Senza alcun merito gli esseri umani possiedono la capacità innata di comprendere un disegno metafisico inafferrabile per un’intelligenza artificiale, per quanto evoluta possa essere.
Bisogna conservare «li ‘ntelletti sani» per sopravvivere a un’esperienza infernale come l’attraversamento dell’Età Oscura, e l’attenzione è sempre un’ottima medicina. Fortifica lo spirito e giustifica la pretesa di partecipare a quell’«evoluzione senza fondamenti» che ci coinvolge da milioni di anni: una crescita nella quale il libero arbitrio, le scelte e il caso si mescolano continuamente con la biodiversità.
La malattia che affligge gli «ultimi» del XXI secolo non è causata da un virus creato artificialmente in laboratorio ma dal complesso d’inferiorità. Non ci sentiamo all’altezza di niente, né osiamo uscire dal seminato. Inconsciamente temiamo di scoprire le enormi potenzialità di cui siamo dotati, siamo sconvolti all’idea della presenza metafisica del genere umano nel ciclo della vita. Anche per questo motivo un gruppuscolo di psicopatici danarosi sta imponendo impunemente su scala planetaria l’uomo s-naturato, trans-sessuale, trans-umano, trans-sociale, trans-formato.
Il peccato capitale dell’Età Oscura è la paura, si vede che tra noi e l’attimo in cui si manifestò l’orgoglio edenico c’è un intero Ciclo. Non osiamo osare alzandoci “sovra li altri com’aquila vola” (Inferno, Canto IV, 96). Ecco perché indugiamo su Icaro e il suo tragico volo, per esempio, liquidando con due parole l’ingegno di Dedalo che creò il labirinto e mise le ali all’uomo.
La moltitudine si sente parte in causa: Icaro è uno di noi, ovvero l’emblema del piccolo conformista che si avvicina per inerzia al cosiddetto «progresso» sprovvisto del giusto contrappeso spirituale, non sa gestire la Tecnica e si avvia al tragico esito finale. Dedalo invece unisce la testa al cuore, non dimenticando l’importanza basilare dell’esperienza. Come un vero scienziato dell’antichità osserva, considera, percepisce, medita, prevede, si pente ed è comprensibilmente preoccupato per le conseguenze della sua invenzione. Ciascuno scelga se prendere a modello il padre o il figlio. Dante una dritta l’ha data, ora tocca a noi decidere se entrare attivamente nell’inferno dell’Età Oscura o darsela a gambe e tornare indietro.
(il viaggio continua)
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