18 Luglio 2024
Cultura

Come l’olio – Fabio Calabrese

Un proverbio dice: “La verità è come l’olio, viene sempre a galla”. Perlomeno, lo sforzo di celare la realtà dei fatti dietro le cortine di fumo ideologiche, è destinato a lungo termine al fallimento. Bene, noi ora parliamo di una verità essenziale per capire tutto ciò che è realmente avvenuto in Italia e in Europa nell’ultimo mezzo secolo.

Ancora oggi molti si stupiscono del fatto che le sinistre europee, a partire dalla caduta del muro di Berlino nel 1989 e dal crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, abbiano cambiato completamente pelle: non si sono limitate a rigettare il totalitarismo di tipo sovietico, hanno abbandonato qualsiasi idea di socialismo a favore di una totale deregulation liberista e stretto un legame sempre più solido con l’alta finanza internazionale, hanno preso a snobbare e maltrattare le classi lavoratrici che erano il loro “bacino di utenza” tradizionale e stiano cercando di crearsi un nuovo “popolo” tra LGBT e immigrati.

Prescindiamo ora dal fatto che la cosa è una contraddizione totale perché gli immigrati provengono perlopiù da Paesi e culture dove agli omosessuali è riservata la forca, e non ci si può illudere che queste persone cambino la loro “cultura” semplicemente spostandosi da una terra a un’altra, l’integrazione si è rivelata la più fallimentare delle utopie.

Ma prescindiamo. Quel che può apparire sorprendente è semmai la rapidità con cui è avvenuto questo mutamento all’indomani della scomparsa del colosso sovietico, come se la vecchia pelle “proletaria” non fosse altro che un travestimento di cui le sinistre non aspettavano altro che l’occasione di liberarsi, e in effetti, appunto, di null’altro che di un travestimento si trattava.

Naturalmente c’è sempre qualcuno, una parte delle classi lavoratrici (sempre più esigua per la verità) che di nulla si è accorta, continua a guardare alle etichette e non alla sostanza, “Si possono ingannare tutti per qualche tempo, e qualcuno per sempre”, diceva Abraham Lincoln, ed è appunto da questi illusi che le sinistre traggono ancora oggi gran parte del loro bacino elettorale.

In realtà è proprio di questo che si è trattato, di un travestimento, perché le classi dirigenti dei partiti di sinistra dagli anni ’70 in poi non avevano nulla a che spartire – socialmente e culturalmente – con quelle delle generazioni che le avevano precedute.

Il grande punto di svolta le cui conseguenze non sono ancora state adeguatamente comprese, è stato rappresentato dal ’68. Esso, l’ho spiegato più volte, ben lungi dall’essere il fenomeno rivoluzionario per il quale voleva presentarsi, fu una spregiudicata operazione di conservazione sociale. Io farò ora riferimento in particolare al caso italiano, ma possiamo immaginare dinamiche simili per gli altri Paesi dell’Europa occidentale.

Negli anni ’60, mentre alle loro spalle premevano le prime leve della scolarità di massa, da cui la scuola di allora, selettiva, “gentiliana” aveva tutte le possibilità di selezionare una potenziale classe dirigente basata su capacità, competenze e merito, gli atenei da cui partì la contestazione erano ancora frequentati in grandissima prevalenza dai rampolli dei ceti alto-borghesi, e queste persone erano (più o meno) consapevoli del fatto che questa situazione metteva a rischio la possibilità, fin allora automatica, di riprodurre la posizione sociale dei loro genitori. Fu questa la molla della contestazione, in realtà un’operazione di conservazione sociale mascherata da rivoluzione, perché la scuola “non selettiva”, ispirata al modello Barbiana di don Milani, la scuola che non seleziona e non boccia poteva alla fine distribuire diplomi che erano solo patacche svalutate. La selezione, cacciata dalla scuola, rimaneva nella società affidata a fattori molto meno equi della capacità e del merito: collocazione sociale dei genitori, amicizie, tessere di partito, magari affiliazioni mafiose.

Dopo qualche resistenza iniziale le sinistre “classiche” subodorarono l’affare. Dando il loro avallo alla manovra, avrebbero guadagnato non solo una robusta iniezione di ideologia “rossa” in tutti i gangli della società, ma, man mano che i contestatori facevano carriera e ricoprivano i posti dei loro genitori, posizioni strategiche nei media, nella scuola, nel sistema giudiziario.

Chi ci ha rimesso da questo pactum sceleris sono state prima di tutto le classi lavoratrici che sono state private di un importante strumento di promozione sociale per i loro figli, poi l’Italia e probabilmente l’Europa nel loro complesso, che si sono trovate ai vertici uomini meno meritevoli, capaci e competenti di quel che altrimenti sarebbe stato possibile.

Non fa dunque meraviglia che all’atto della caduta dell’Unione Sovietica questi dirigenti dei partiti di sinistra che erano ormai in massima parte di estrazione borghese abbiano ripudiato il marxismo e una qualsiasi traccia di convinzioni socialiste nel giro di una notte.

Quel che invece è forse motivo di maggior interesse, è il fatto che proprio alcuni intellettuali di sinistra ci abbiano “distrattamente” raccontato fra le righe una storia degli eventi di quegli anni, che ancora oggi ci condizionano pesantemente, molto diversa dalla versione ufficiale. La verità, come l’olio, viene sempre a galla.

Al riguardo ascolteremo la testimonianza di tre intellettuali la cui appartenenza all’area della sinistra marxista, accompagnata dalla militanza comunista, non può essere messa in dubbio: Pier Paolo Pasolini, Giorgio Bocca, Umberto Eco.

Pier Paolo Pasolini era un uomo che in nessun modo potremmo sentire vicino alle nostre posizioni. In lui troviamo una compiacenza nel descrivere gli aspetti più squallidi e sordidi della natura umana che non si può interpretare come denuncia sociale alla maniera del neorealismo. Questo lo si vede particolarmente bene nella sua cinematografia se pensiamo a quell’inno alle perversioni che è Porcile, oppure a Salò o le 120 giornate di Sodoma dove riuscì a provocare l’unico caso noto di rivolta degli attori su un set, pretendendo che non si ricorresse a trucchi cinematografici, ma che essi mangiassero davvero sterco.

Sul piano umano, era ancora più lontano da noi, non solo perché era un omosessuale e un adescatore di ragazzini (cosa che poi gli costò la pelle), ma perché sapendo che per fare carriera come autore nell’Italia del dopoguerra occorreva la tessera del PCI, si iscrisse al partito comunista pur avendo avuto un fratello partigiano “bianco” della brigata Osoppo trucidato dai comunisti alle Malghe di Porzus.

Eppure, anche la qualità dell’assuefazione al disgusto di un individuo simile doveva avere un limite, perché in occasione degli scontri di Valle Giulia tra gli studenti figli della borghesia benestante e i poliziotti figli di operai, scelse senza esitazione questi ultimi.

“Caro compagno, cara compagna”, scrisse, “Vi odio, avete la stessa faccia cattiva dei vostri padri”.

Gli va dato atto di aver perlomeno intuito il fatto che quello che allora si presentava come un afflato rivoluzionario, era in realtà un’operazione di conservazione sociale della peggiore specie. Certamente non comprese l’ampiezza e la radicalità del mutamento in atto, destinato a cambiare il volto della sinistra e a influire profondamente sulla storia dell’intera Europa, ma gli va dato atto di un intuito di cui i “maitres a penser” di sinistra si sono rivelati perlopiù assolutamente sprovvisti.

Questo gli costò l’espulsione dal PCI, che venne ufficialmente motivata. con la sua omosessualità, il che era semplicemente ridicolo, perché che fosse un omosessuale era cosa ben nota da molti anni, e ancor più grottesco se pensiamo a come si è “evoluto” da allora l’atteggiamento degli eredi del PCI nei confronti dell’omosessualità. Ricordiamo per dirne una, che anni fa Rifondazione Comunista ha portato in parlamento un transessuale, e che oggi non c’è un gay pride dove non si facciano professioni di antifascismo e non si canti “Bella ciao”, ma come al solito “i compagni” contano sulla memoria corta della gente.

Questo ci dimostra anche un’altra cosa, che i vertici del PCI erano pienamente consapevoli della trasformazione in atto e della necessità di occultarla alla propria base, avevano pienamente sottoscritto il pactum sceleris, nonostante alcune prese di posizione ufficiali verso i contestatori, talvolta bollati come “maoisti” o “nazimaoisti”.

Giorgio Bocca è stato sul piano umano una figura ancor più discutibile di Pasolini, uno di quelli che per intenderci, nel periodo bellico sono traghettati per dirla con Stendhal, con estrema facilità dal nero al rosso, ma di cui si ricorda una roboante recensione dei Protocolli. Di solito, gli antifascisti più accaniti sono quelli che hanno qualcosa da nascondere, e nel caso di Giorgio Bocca si è trattato di un passato non solo di fascista, ma di antisemita.

Nei suoi ultimi anni, come altre vestali ipocrite della mitologia resistenziale, Bocca si è dedicato soprattutto a cercare di distruggere la credibilità come storico e la figura umana di Giampaolo Pansa. Giampaolo Pansa è uno storico con una formazione di sinistra, ma è un uomo intellettualmente onesto che nel suo libro Il sangue dei vinti ha deciso di rompere decenni di omertà e dire la verità sulla resistenza, che non è stata per nulla “guerra di liberazione”, ma guerra civile fratricida e soprattutto, una volta che la parte vinta è stata costretta a deporre le armi, mattanza feroce e indiscriminata non solo verso i fascisti, ma verso chiunque si pensava potesse essere un ostacolo alla creazione di un “nuovo ordine socialista”, cioè una dittatura di tipo sovietico in Italia.

Bocca si assunse, e non fu certo il solo, l’incarico di difensore d’ufficio della resistenza. Vediamo quello che ha scritto:

Il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. È una pedagogia impietosa, una lezione feroce”.

La falsità delle sue parole è immediatamente tangibile, infatti non si trattò di certo di autolesionismo. Pensiamo per esempio al fatto che gli attentatori di via Rasella a Roma ebbero tutto il tempo di consegnarsi per evitare la rappresaglia (prevista dalle leggi di guerra) sulla popolazione. Era piuttosto l’attuazione della strategia comunista: scavare un fossato di odio fra la popolazione e gli italiani che assieme all’alleato di ieri resistevano all’invasione.

Eppure, la sua testimonianza sulla contestazione sessantottesca è sincera, attendibile e spietata, e ci consente di comprendere alcuni aspetti e conseguenze di quel movimento e di quel momento che finora non abbiamo preso in considerazione.

Nel libro L’inferno Bocca riferisce senza farne il nome, quindi assumendosene la responsabilità, le affermazioni di un magistrato, che spiega il fatto che proprio in quegli anni le associazioni di criminalità organizzata hanno fatto il grande salto che ha permesso loro di diventare onnipotenti e tentacolari a livello planetario innanzi tutto attraverso l’enorme business degli stupefacenti, il cui consumo assieme al giro d’affari delle organizzazioni malavitose si è enormemente ampliato grazie a una “cultura” di sinistra e hippy che ha presentato la tossicodipendenza come qualcosa di trasgressivo e liberatorio, plagiando un’intera generazione. In secondo luogo, perché all’epoca qualsiasi tentativo di rafforzamento dei poteri dello stato, anche in vista della lotta alla criminalità organizzata era visto come “autoritario” e (ovviamente) “fascista”.

Noi siamo consapevoli di vivere in una realtà storica in cui le nostre posizioni sono minoritarie, spesso fortemente minoritarie. Vivere ci sarebbe di fatto impossibile se l’appartenenza politica fosse l’unico criterio per rapportarci con chi ci sta attorno. Ci può capitare di apprezzare, persino stimare persone che politicamente e ideologicamente sono orientate agli antipodi rispetto a noi. Questo vale nella vita quotidiana, ma in una certa misura vale anche per i protagonisti della cultura che sappiamo oggi essere disgraziatamente pressoché del tutto orientata “a sinistra”.

Umberto Eco l’ho conosciuto in prima battuta come studente all’università attraverso i suoi testi di semiologia, poi ho avuto modo di apprezzare la verve e l’ironia del suo Diario minimo. Quando mi sono trovato più volte nella sala d’attesa del medico, le “Bustine di Minerva”, la rubrica condotta da Eco, era in pratica l’unica cosa leggibile della pila di “Espresso” che trovavo sul tavolino.

Quando Umberto Eco si è cimentato tardivamente in una carriera di romanziere, ho apprezzato molto i suoi primi due romanzi: Il nome della rosa e Il pendolo di Foucault, quelli successivi decisamente meno. Quando uscì nelle librerie accompagnato da un battage pubblicitario enorme, di dimensioni planetarie il brutto e insulso romanzo Il codice Da Vinci dell’americano Dan Brown, seguito da una ancora più brutta e invedibile trasposizione cinematografica, la mia stima per Umberto Eco crebbe ancora di più.

Il codice Da Vinci (il cui titolo è da considerare un insulto al nostro genio rinascimentale) tratta di una tematica esoterica simile a quella del Pendolo di Foucault, ma al confronto del libraccio scritto dall’americano, il romanzo di Umberto Eco spicca ancor di più come un capolavoro.

Tuttavia, la stima che avevo per Eco mi è crollata di colpo quando ho letto il suo ultimo romanzo Il cimitero di Praga. Qui Eco ci disegna un protagonista che scopriamo poco per volta essere l’individuo più spregevole che si possa immaginare, e costui, abile falsario e rabbioso antisemita, è appunto il reale autore dei Protocolli. Ora, la critica “nostra” ha tante volte chiarito che il problema riguardo a questo libro non è se esso sia “autentico” in termini di copyright letterario, ma se sia “veritiero” nel senso di indicare realmente lo svolgimento degli eventi mondiali dopo la sua comparsa, e presenti un’intuizione corretta delle forze che stanno dietro di essi.

Una cosa che non può certo essere sfuggita a un uomo dell’intelligenza di Eco, quindi Il cimitero di Praga penso si debba ritenere un atto di servilismo, una leccata di natiche nei confronti del potere cosiddetto democratico, comprensibile forse da chi debba farsi un nome, ingraziarsi le alte sfere per farsi una carriera, ma non in un uomo nella posizione di Eco.

Nondimeno, nel Pendolo di Foucault, Eco ci dà una testimonianza chiara, netta, precisa di cosa sia stato realmente il sessantotto, e lo fa nella forma di quello che dovrebbe essere un dialogo fra un vecchio comunista e un ex sessantottino, ma di fatto diventa un monologo nel quale il primo rampogna duramente il secondo.

Per voi è stata solo una stagione, avete cantato la Carmagnola e poi vi siete ritrovati in Vandea. Passerà presto. Per noi è stato diverso. Prima il fascismo anche se lo abbiamo vissuto da ragazzi, come un romanzo di avventure, ma i destini immortali erano un punto fermo. Poi il punto fermo della resistenza, specie per quelli come me che l’hanno guardata dal di fuori, e ne han fatto un rito di vegetazione, il ritorno della primavera, un equinozio o un solstizio, confondo sempre…Per alcuni Dio, e per altri la classe operaia, e per molti entrambi. Era consolante per un intellettuale, pensare che ci fosse l’operaio, bello, sano, forte, pronto a rifare il mondo. E poi l’avete visto anche voi, l’operaio c’era ancora, ma la classe no. Debbono averla ammazzata in Ungheria. E siete arrivati voi. Per lei è stato naturale, forse, ed è stata una festa. Per quelli della mia età no, era la resa dei conti, il rimorso, il pentimento, la rigenerazione. Noi avevamo mancato e voi arrivavate a portare il coraggio, l’entusiasmo, l’autocritica. Per noi che allora avevamo trentacinque o quarant’anni è stata una speranza, umiliante ma speranza. Dovevamo ridiventare come voi, a costo di ricominciare da capo. Non portavamo più la cravatta, buttavamo via il trench coat per comprarci un eskimo usato. Qualcuno ha dato le dimissioni dal lavoro per non servire i padroni (…).

E avete ceduto su tutti i fronti. Noi, con i nostri pellegrinaggi penitenziali alle catacombe ardeatine, rifiutavamo di inventare uno slogan per la Coca Cola perché eravamo antifascisti. Ci accontentavamo di quattro soldi alla Garamond perché il libro almeno è democratico. E voi adesso, per vendicarvi dei borghesi che non siete riusciti a impiccare, gli vendete videocassette e fanzines, li rimbecillite con lo zen e la manutenzione della motocicletta. Ci avete imposto a prezzi da sottoscrizione la vostra copia dei pensieri di Mao e coi soldi siete andati a comperarvi i mortaretti per la festa della nuova creatività. Senza vergogna. Noi abbiamo passato la vita a vergognarci. Ci avete ingannato, non rappresentavate nessuna purezza, era solo acne giovanile. Ci avete fatto sentire come vermi perché non avevamo il coraggio di affrontare a faccia aperta la gendarmeria boliviana, e poi avete sparato nella schiena a disgraziati che passavano lungo i viali. Dieci anni fa ci è capitato di mentire per tirarvi fuori di prigione, e voi avete mentito per mandare in prigione i vostri amici”.

L’unica attenuante che si può forse riconoscere al sessantotto, è che è stato un’enorme mistificazione, ma l’inganno non è partito da lì, affonda le sue radici molto più indietro nel tempo, è consustanziale alla storia stessa del movimento comunista, a partire dalla cosiddetta rivoluzione d’ottobre, quando la mostruosità tirannica che era stata creata in Russia fu presentata come “lo stato dei lavoratori”. Un secolo di menzogne, ma la verità è come l’olio, viene sempre a galla.

 

Nota: Nell’illustrazione, a sinistra un romanzo di Pier Paolo Pasolini, al centro L’inferno di Giorgio Bocca, a sinistra Il pendolo di Foucault di Umberto Eco.

 

 

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