…. EreticaMente è una comunità filosofica non interessata alla politica, alle logiche partitiche, che interagisce liberamente con studiosi di diversa formazione e di differente pensiero, nel rispetto della visione del mondo di ognuno.
Hierocles d’Alessandria detto Hierocles il Pitagorico o Hierocles Platonicus è un filosofo neopitagorico del V secolo, allievo di Plutarco d’Atene, il fondatore del neoplatonismo ad Atene. Il suo Commentario sui Versi d’Oro di Pitagora (Commentarius in Aurea Carmina), integralmente conservato, pur non essendo un vero trattato dottrinale, contiene preziose indicazioni sul pitagorismo.
Versi XIII, XIV, XV e XVI
XIV. In seguito, osserva la giustizia nelle tue azioni e nelle tue parole.
XV. Non abituarti affatto a comportarti nella minima cosa senza regola e senza ragione.
XVI. Ma fai sempre questa riflessione, che dal destino è ordinato a tutti gli uomini di morire.
XVII. E che i beni della fortuna sono incerti, e che come si possono acquisire, si possono anche perdere.
Colui che rispetta se stesso diviene la sua guardia, per impedirsi di cadere in alcun vizio. Ora vi sono parecchie specie di vizi: il vizio della parte ragionevole è la follia; quello della parte irascibile, è la viltà; quello della parte concupiscibile, è l’intemperanza e l’avarizia; e il vizio che s’estende su tutte queste facoltà, è l’ingiustizia. Per evitare dunque tutti questi vizi, abbiamo bisogno di quattro virtù; della prudenza, per la parte ragionevole; del coraggio, per la parte irascibile; della temperanza, per la parte concupiscibile; e per tutte queste facoltà insieme, abbiamo bisogno della giustizia, che è la più perfetta di tutte le virtù, e che regnando nelle une e nelle altre, le racchiude tutte come proprie parti. Ecco perché questo Verso nomina la giustizia per prima, la prudenza in secondo luogo, e dopo la prudenza, mette i più eccellenti effetti che nascono da questa virtù, e che contribuiscono alla perfezione e all’integrità o totalità della giustizia; giacché ogni uomo che ragiona bene, e che si serve della prudenza, ha per secondo nelle cose lodevoli, il coraggio; nelle cose che accarezzano i sensi, la temperanza; e negli uni e negli altri, la giustizia. E così la prudenza si trova essere il principio delle virtù, e la giustizia il loro fine; e nel mezzo sono il coraggio e la temperanza; giacché la facoltà che esamina tutto con il ragionamento, e che cerca sempre il bene di ciascuno in tutte le azioni, affinché tutte le cose si facciano con ragione e nell’ordine, è l’abitudine della prudenza, vale a dire, la più eccellente disposizione della nostra essenza ragionevole, e grazie alla quale tutte le nostre altre facoltà sono in buono stato, dimodoché la collera sia vigorosa, e la cupidigia temperante; e che la giustizia correggendo tutti i nostri vizi, e animando tutte le nostre virtù, orni il nostro uomo mortale con la sovrabbondanza della virtù dell’uomo immortale; giacché è originariamente dallo spirito divino, che le virtù irraggiano nell’anima ragionevole, sono esse che costituiscono la sua forma, la sua perfezione e tutta la sua felicità. E dall’anima, queste virtù ricadono, per una segreta comunicazione, su quest’essere insensato, voglio dire, sul corpo mortale, affinché tutto quel che è unito all’essenza ragionevole sia riempito di bellezza, di decenza, e d’ordine. Ora il primo, e come la guida di tutti i beni divini, la prudenza, essendo ben fondata e consolidata nell’anima ragionevole, fa che si prenda la buona risoluzione in tutte le occasioni; che si sopporti coraggiosamente la morte, e che si soffra con pazienza e con dolcezza la perdita dei beni della fortuna; giacché non v’è che la sola prudenza che possa sostenere saggiamente e intrepidamente i cambiamenti di questa natura mortale, e della fortuna che la fugge. Infatti, è essa che conosce con la ragione la natura delle cose; essa sa che è una necessità indispensabile, che ciò che è composto di terra e d’acqua, si risolva in questi stessi elementi che lo compongono; essa non s’irrita affatto contro la necessità, e sebbene questo corpo mortale muoia, essa non conclude affatto che non via sia provvidenza, giacché conosce che dal destino è ordinato a tutti gli uomini di morire, che vi è un tempo prefissato per la durata di questo corpo mortale, e che venuto l’ultimo momento, non bisogna esserne contrariati, ma riceverlo, e sottomettersi volontariamente, come alla legge divina; giacché è quel che porta in sé propriamente la parola destino; significa, c
he Dio stesso con i suoi decreti, ha destinato, ha assegnato alla nostra vita mortale dei limiti necessari, e non se ne può prescindere, ed è proprio della prudenza il seguire i decreti degli Dei, cercando non di non morire, ma di morire bene. Similmente, essa non ignora la natura dei beni della fortuna; essa sa che arrivano oggi, e se ne vanno domani, secondo certe cause che sono destinate e segnate, alle quali è vergognoso resistere; giacché noi non siamo maestri di trattenere e di conservare quel che non è affatto in nostro potere. Ora certamente, né il corpo né i beni, in una parola, tutto quel che è separato dalla nostra essenza ragionevole, non è affatto in nostro potere: e siccome non dipende da noi l’acquisirli, tanto più non dipende da noi il conservarli quanto vogliamo. Ma di riceverli quando arrivano, e di renderli quando se ne vanno, e di riceverli e di renderli sempre con molta virtù, ecco quel che dipende da noi, ed ecco ciò che è proprio alla nostra essenza ragionevole, se essa non s’abitua affatto a comportarsi senza regola e senza ragione su tutti gli accidenti della vita; ma che s’abitui a seguire le regole divine che hanno definito e determinato tutto quanto ci può riguardare; è dunque in questo soprattutto che ciò che dipende da noi, e che è in nostro potere ha un’estrema forza; si è che possiamo ben giudicare delle cose che non dipendono affatto da noi, e non lasciarci strappare la virtù della nostra libertà, per l’affezione delle cose periture.
Che dice dunque il giudizio prudente e saggio? Dice che occorre far buon uso del corpo e delle ricchezze mentre le abbiamo, e asservirle alla virtù: e quando siamo sul punto di perderle, occorre conoscere la necessità, e aggiungere a tutte le nostre altre virtù quella della tranquillità e dell’indifferenza; giacché il solo modo di conservare la pietà verso gli Dei, e la giusta misura della giustizia, è d’abituare la propria ragione a far buon uso di tutti gli accidenti, e d’opporre le regole della prudenza, a tutte le cose che ci sembrano arrivare senz’ordine, e a caso; giacché mai conserveremo la virtù, se la nostra anima non ha rette opinioni. Mai colui che si sia abituato a comportarsi senza regola e senza ragione in tutto quel che fa, seguirà gli esseri migliori di noi, siccome migliori di noi; ma li considererà come dei tiranni che l’obbligano, e che lo infastidiscono; mai avrà riguardo per coloro con i quali vive, e mai farà buon uso del suo corpo e delle sue ricchezze. Vedete coloro che fuggono la morte, o che sono posseduti dal desiderio di conservare le loro ricchezze; vedete in quali ingiustizie, in quali blasfemie si precipitano necessariamente, levando lo stendardo dell’empietà contro Dio, e negando la Sua provvidenza, quando si vedono cadere nelle cose che fuggono follemente, e facendo al loro prossimo ogni sorta d’ingiustizia, senza alcun riguardo, per rapirgli il suo bene, e per rapportare tutto alla propria utilità, per quanto loro è possibile. Così la ferita che a questi infelici fanno le false opinioni, diviene manifesta, e si vedono germinare da là tutti i più grandi mali, l’ingiustizia verso i propri simili, e l’empietà verso coloro che sono sopra di loro: mali da cui è esente colui, che obbedendo a questo precetto, attende coraggiosamente la morte con un giudizio purificato dalla ragione, e non crede che la perdita dei beni sia insopportabile. Da lì nascono tutti i movimenti e tutti i motivi che lo portano alla virtù; giacché da lì egli apprende che occorre astenersi dal bene altrui, non fare torto a nessuno, e non cercare mai il proprio profitto con la perdita e il danno del suo prossimo. Ora è quel che non potrà mai osservare colui che si persuade che la sua anima è mortale, e che abituato a comportarsi in tutto senza regola e senza ragione, non discerne affatto quel che vi è di mortale in noi, e che ha bisogno delle ricchezze, e quel che è suscettibile di virtù, e che la virtù aiuta e fortifica; giacché non v’è che questo giusto discernimento che possa portarci alla pratica della virtù, ed eccitarci ad acquisire quel che è bello e onesto; acquisizione alla quale ci spinge un movimento tutto divino, che nasce da questi due precetti, Conosci te stesso, e Rispetta te stesso. Giacché è per la nostra dignità, che occorre misurare tutti i nostri doveri, e nelle nostre azioni e nelle nostre parole; e l’osservanza dei nostri doveri non è altro che l’osservanza esatta e inviolabile della giustizia. Ecco perché la giustizia è messa qui alla testa di tutte le altre virtù, affinché divenga la misura e la regola dei nostri doveri. Osserva la giustizia, dice, e nelle tue azioni, e nelle tue parole. Non pronuncerai dunque mai alcuna blasfemia, né nella perdita dei tuoi beni, né nei dolori più acuti delle tue malattie, affinché tu non ferisca la giustizia nelle tue parole: e non rapirai mai il bene del tuo prossimo, e non macchinerai mai la perdita e l’infelicità di alcun uomo, affinché tu non ferisca la giustizia nelle tue azioni; giacché fintantoché la giustizia sarà come un presidio nella nostra anima, per guardarla e difenderla, noi adempiremo sempre tutti i nostri doveri, verso gli Dei, verso gli uomini, e verso noi stessi. Ora la regola migliore, e la misura migliore della giustizia, è la prudenza; è perché, dopo il precetto, Osserva la giustizia, aggiunge, e non abituarti affatto a comportarti in niente senza ragione, come la giustizia che non può sussistere senza la prudenza. Infatti non v’è di veramente giusto che quel che la prudenza perfetta ha limitato; è lei che non si comporta in niente senza ragione, ma che esamina e considera con cura che cos’è questo corpo mortale, quel di cui ha bisogno, e che è necessario al suo uso; ed è lei infine che trova tutto vile e spregevole, in confronto alla virtù, e che fa consistere tutta la sua utilità nella disposizione migliore dell’anima; in quella disposizione che dà a tutte le altre cose l’ornamento e il prezzo che esse possono ricevere. Ecco qual è lo scopo di questi Versi; è di far nascere nell’anima di coloro che li leggono, queste quattro virtù pratiche, con la loro esatta e vigile osservanza, e nelle azioni, e nelle parole; giacché uno di questi Versi ispira la prudenza, l’altro il coraggio, questo la temperanza, e quello che li precede tutti, esorta a osservare la giustizia che s’estende in comune su tutte le altre virtù: e questo Verso, Che i beni della fortuna sono incerti, e che come si possono acquisire, si possono anche perdere, è aggiunto qui, per far intendere che l’abitudine della temperanza è normalmente accompagnata dalla liberalità, virtù che regola l’ingresso e l’uscita nei beni della fortuna; giacché il riceverli, e il dispensarli quando la ragione lo vuole e l’ordina, questo solo tronca alla radice la meschinità e la prodigalità; e tutte queste virtù vengono da questo principio come da una sorgente primaria, voglio dire, rispettare se stessi: e questo precetto, rispettare se stessi, è racchiuso in quello, conosci te stesso, che deve precedere tutte le nostre buone azioni, e tutte le nostre conoscenze. Infatti, da dove sapremmo che dobbiamo moderare le nostre passioni e conoscere la natura delle cose? Giacché si dubita a questo proposito, in primo luogo, se ciò sia possibile all’uomo; e in secondo luogo, se sia utile. Parrebbe addirittura l’esatto contrario, che l’uomo di bene sia molto più infelice in questa vita, del malvagio, poiché non prende affatto ingiustamente da dove non deve prendere, e dispensa giustamente dove deve dispensare. E per quanto riguarda il corpo, è più esposto ai maltrattamenti, poiché non cerca affatto di dominare, e non corteggia servilmente coloro che dominano: dimodoché se non v’è in noi una sostanza che trae tutta la sua utilità dalla virtù, è invano che disprezzeremmo le ricchezze e le dignità. Ecco perché coloro che, pur essendo persuasi che l’anima è mortale, insegnano che non si debba abbandonare la virtù, sono piuttosto dei vani parlatori, che dei veri Filosofi; giacché se dopo la nostra morte non restasse qualcosa di noi, e qualcosa di natura tale da trarre tutto il suo ornamento dalla verità e dalla virtù, quale noi diciamo l’anima ragionevole, mai avremmo desideri puri delle cose belle e oneste, poiché il solo sospetto che l’anima è mortale, attutisce e soffoca ogni sollecitudine per la virtù, e spinge a godere delle voluttà corporali, quali che siano, e da qualunque parte vengano. Infatti, come possono quelle genti pretendere che un uomo prudente, e che fa appena uso della ragione, non debba concedere tutto al suo corpo, per il quale solo la stessa anima sussiste, poiché essa non esiste per se stessa, ma è un accidente di tale, o talaltra conformazione del corpo? Com’è possibile che abbandoniamo il corpo per amore della virtù, quando siamo persuasi che perderemo l’anima con il corpo; dimodoché questa virtù, per la quale avremmo sofferto la morte, non si troverà in nessun luogo, e non esisterà affatto? Ma questa materia è stata ampiamente trattata da uomini divini, che hanno dimostrato invincibilmente che l’anima è immortale, e che la virtù sola fa tutto il suo ornamento. Dopo aver dunque sigillato con il sigillo della verità quest’opinione sull’immortalità dell’anima, passiamo a quanto segue, aggiungendo a ciò che abbiamo già stabilito, che come l’ignoranza della nostra essenza comporta necessariamente dopo di essa tut
ti i vizi, la conoscenza di noi stessi, e il disprezzo di tutto quel che è indegno di una natura ragionevole, producono in tutto e per tutto l’osservanza sicura e ragionata dei nostri doveri, ed è in ciò che consiste la giusta misura di tutte le virtù in particolare: giacché mentre riguardiamo e consideriamo la nostra essenza come la nostra sola regola, troviamo in tutte le cose quel che è nostro dovere, e l’adempiamo secondo la retta ragione, conformemente alla nostra essenza. Tutto ciò che rende l’anima migliore, e che la conduce alla felicità adeguata alla sua natura, è veramente la virtù, e la legge della Filosofia: e tutto quel che non tende che a una certa convenienza umana, non sono che delle ombre di virtù che cercano le lodi degli uomini, e degli artifici di uno schiavo che simula, e che pone tutto il suo sforzo a sembrare virtuoso piuttosto che a esserlo veramente. Pensiamo di aver detto abbastanza su quest’argomento.
Dall’uso che facciamo della nostra retta ragione, ne segue necessariamente che non ci comportiamo affatto leggermente verso tutti gli accidenti di questa vita che ci paiono arrivare senza alcun ordine; ma che li giustifichiamo generosamente, distinguendo esattamente le loro cause, e che li sopportiamo coraggiosamente senza lamentarci degli esseri che hanno cura di noi, e che distribuendo a ciascuno quel che gli è dovuto secondo il suo merito, non hanno dato la stessa dignità e lo stesso rango a coloro che non hanno mostrato la stessa virtù nella loro prima vita. Giacché come potrebbe essere che esistendo una provvidenza, ed essendo la nostra anima incorruttibile nella sua essenza, e orientandosi alla virtù o al vizio di sua scelta, e con proprio movimento, come potrebbe essere, dicevo, che gli stessi guardiani della Legge che vuole che ciascuno sia trattato secondo il suo merito, trattassero ugualmente coloro che non sono per niente uguali, e non distribuissero a ciascuno la fortuna, che si dice ogni uomo venendo al mondo sceglie lui stesso secondo la sorte che gli è toccata? Se non è dunque una favola che vi sia una provvidenza che distribuisce a ciascuno il dovuto, e che la nostra anima sia immortale, è evidente che invece d’accusare delle nostre disgrazie colui che ci governa, non dobbiamo prendercela che con noi stessi: ed è da qui che trarremo la virtù e la forza di guarire e di correggere tutte queste disgrazie, come i Versi seguenti c’insegneranno. Giacché trovando in noi stessi le cause di una così grande ineguaglianza, in primo luogo diminuiremo con la rettitudine dei nostri giudizi l’amarezza di tutti gli accidenti della vita: e poi con metodi sacri, e con buone riflessioni, come facendo rimontare a forza di remi la nostra anima verso ciò che è meglio, ci libereremo interamente di tutto quanto soffriamo di più spiacevole e di più penoso. Giacché di soffrire senza conoscere la causa di quel che si soffre, e senza congetturare almeno quanto ci può verosimilmente mettere in quello stato, è proprio di un uomo abituato a comportarsi senza ragione e senza riflessione in tutte le cose; quel che questo precetto ci proibisce espressamente; giacché è impossibile che colui che non ricerca la vera causa dei suoi mali, ne accusi gli Dei, sostenendo, o che non ve ne sono affatto, o che non hanno di noi la cura che dovrebbero avere: e questi empi sentimenti non aumenteranno solamente i mali che vengono dalla prima vita, ma ancora eccitano l’anima a commettere ogni sorta di crimini, e la privano del culto del suo libero arbitrio, tenendola nell’oblio delle cause di ciò che soffre qui in basso: ma per sapere come bisogna filosofare e ragionare su queste cose, ascoltiamo i Versi seguenti.
[…]
Versi LIV, LV, LVI, LVII, LVIII, LIX e LX LIV. Conoscerai anche che gli uomini s’attirano le loro disgrazie volontariamente, e per propria scelta.
LV. Che miserabili! Non vedono né sentono che i beni sono loro vicini.
LVI. Ve ne sono pochissimi che sanno liberarsi dei loro mali.
LVII. Tale è la sorte che acceca gli uomini, e toglie loro lo spirito. Simili a dei cilindri,
LVIII. Rotolano qua e là, sempre oppressi da innumerevoli mali;
LIX. Giacché la disputa funesta nata con loro, e che li segue dappertutto, li agita senza che se ne accorgano.
LX. Invece di provocarla e d’irritarla, dovrebbero fuggirla cedendo.
L’Ordine degli esseri corporei e incorporei è ben conosciuto, come molto esattamente conosciuta è anche l’essenza dell’uomo; si conosce quel che è, e a quali passioni è soggetta; e si sa che sta nel mezzo tra gli esseri che non cadono mai nel vizio, e coloro che non possono mai elevarsi alla virtù. Ecco perché essa ha le due inclinazioni che questi due legami le ispirano, talvolta vivendo là di una vita intelligente, & talaltra prendendo qui delle affezioni tutte carnali: il che ha fatto dire con molta ragione a Eraclito, che la nostra vita è la morte, e la nostra morte, la vita; giacché l’uomo cade e precipita dalla regione dei beati, come dice Empedocle il Pitagorico,
Esiliato dal soggiorno celeste, Errante e vagabondo, agitato dalle furie Della discordia in fiamme.
Ma egli vi risale e ritrova la sua antica abitudine, se fugge le cose di quaggiù, e questo spaventoso soggiorno in cui dimorano come dice lo stesso Poeta,
L’assassinio, la collera, e mille sciami di mali:
E nel quale coloro che vi cadono,
Errano abbandonati nelle nere campagne, Dell’ingiuria e del lutto.
Colui che fugge queste tristi campagne dell’ingiuria, è condotto da questo buon desiderio nella prateria della verità; e se la lascia, la caduta delle sue ali lo precipita in un corpo terrestre,
In cui beve a lunghi sorsi l’oblio della sua felicità.
Ed è a ciò che s’accorda il sentimento di Platone, che parlando di questa caduta dell’anima, dice, Ma quando non avendo più la forza di seguire Dio, essa non vede più questo campo della verità; per qualche disgrazia, riempita di vizio e d’oblio, essa s’appesantisce; e appesantita, finisce col perdere le sue ali e col cadere in questa terra, allora la Legge l’invia ad animare un animale mortale. E sul ritorno dell’anima nel luogo da cui essa è discesa, lo stesso Platone dice, l’uomo che ha superato con la sua ragione il disordine e il turbamento che gli vengono dalla miscela della terra, dell’acqua, dell’aria, e del fuoco, riprende la sua forma primitiva, e ritrova la sua abitudine primitiva; poiché egli ritorna sano e intero all’astro che gli è stato assegnato. Vi ritorna sano, perché è liberato dalle passioni che sono altrettante malattie; e questa guarigione non gli viene che per mezzo della virtù pratica: e vi ritorna intero, perché ritrova l’intendimento e la scienza come sue parti essenziali; il che non gli succede che per mezzo della virtù contemplativa. Da un altro lato lo stesso Platone insegna positivamente che è con la fuga dalle cose di questo mondo, che noi possiamo guarire e correggere l’apostasia che ci allontana da Dio; e stabilisce che questa fuga dai mali di quaggiù non è che la Filosofia, rivelando con ciò che questa sorta di passioni non si trova che nei soli uomini, e che non è possibile, che i mali siano esiliati da questa terra, né che possano avvicinare alla divinità, ma che sono sempre attorno alla terra che abitiamo, e si legano alla natura mortale, come provenienti dalla necessità sola; giacché gli esseri che sono nella generazione e nella corruzione, possono prendersela contro la natura: ed è questo il principio di tutti i mali; e per insegnare come bisogna fuggirli, Platone aggiunge: ecco perché bisogna fuggire da quaggiù al più presto: ora fuggire, significa lavorare per rassomigliare a Dio per quanto all’uomo è possibile; e rassomigliare a Dio, significa divenire giusto e santo con prudenza. Giacché colui che vuole evitare questi mali, deve cominciare con lo spogliarsi di questa natura mortale, non essendo possibile che coloro che vi sono vincolati e impantanati non siano riempiti di tutti i mali che la necessità vi fa germinare. Come dunque il nostro allontanamento da Dio, e la perdita delle ali, che ci elevavano verso le cose superiori, ci hanno precipitato in questa regione di morte in cui abitano tutti i mali; allo stesso modo lo spogliarsi di ogni affezione terrestre, e il rinnovamento delle virtù, come una rinascita delle nostre ali per guidarci al soggiorno della vita, dove si trovano i beni autentici, senza alcuna mescolanza di mali, ci ricondurranno alla felicità divina; giacché l’essenza dell’uomo che sta nel mezzo tra esseri che contemplano sempre Dio, e quelli che sono incapaci di contemplarlo, può elevarsi verso gli uni e abbassarsi verso gli altri, essendo a causa di questa natura anfibia, ugualmente portata ad assumere la somiglianza divina o la somiglianza brutale, secondo che riceva o rigetti l’intendimento e il buon spirito.
Colui dunque che conosce questa libertà, e questo duplice potere nella natura umana, conosce anche come gli uomini s’attirino tutti i loro mali volontariamente; e come sono disgraziati, e miserabili per propria scelta; giacché sebbene possano dimorare nella loro vera patria, si lasciano trascinare alla nascita dalla sregolatezza dei loro desideri; e sebbene possano distaccarsi prontamente da questo corpo miserabile, sprofondano volontariamente in tutte le difficoltà, e in tutti i disordini delle passioni. Ed è quel che il Poeta vuol far intendere, quando dice, non vedono né sentono che i beni sono loro vicini.
Questi beni sono qui la virtù e la verità. Non vedere che sono loro vicini, significa non essere affatto portati per se stessi a cercarli: e non sentire che sono loro vicini, significa non ascoltare gli avvertimenti, e non obbedire ai precetti che gli altri loro danno; giacché vi sono due mezzi per ritrovare la scienza, uno con l’istruzione, come per l’udito; e l’altro con la ricerca, come per la vista. Gli uomini sono dunque detti attirarsi i loro mali per propria scelta, quando non vogliono né apprendere dagli altri, né trovare da sé, come interamente privati di sentimento per i beni autentici, e con ciò interamente inutili; giacché ogni uomo che non vede affatto da sé, e che non intende affatto chi l’avverte, è interamente inutile e disperato: ma coloro che lavorano per trovare da sé, o apprendere dagli altri i beni autentici, sono costoro di cui il Poeta dice chesanno liberarsi dei propri mali, e che con la fuga dai lavori e dalle pene che si trovano quaggiù, si trasportano in un’aria pura e libera. Il numero [di costoro] è molto piccolo; giacché la maggior parte sono malvagi, sottomessi alle loro passioni, e come folli per l’inclinazione che hanno verso la terra, e s’attirano essi stessi questo male, per aver voluto allontanarsi da Dio, e privarsi essi stessi della sua presenza, e se possiamo osare dirlo, dalla sua familiarità, di cui avevano la fortuna di godere quando abitavano una luce pura. Quest’allontanamento da Dio è designato dalla sorte che acceca gli uomini, e che toglie loro lo spirito.
Infatti, è ugualmente impossibile che colui che è vuoto di Dio non sia insensato, e che l’insensato non sia vuoto di Dio; giacché è necessario che il folle sia senza Dio, e che colui che è senza Dio sia folle; e l’uno e l’altro, come non essendo affatto eccitati all’amore dei beni autentici, sono oppressi da innumerevoli mali, spinti da una disgrazia in un’altra disgrazia, come dei cilindri, per il peso delle loro empie azioni; non sapendo che fare, né che divenire, poiché si governano senza ragione e senza riflessione in tutti gli stati della fortuna; insolenti nella ricchezza, furbi e perfidi nella povertà, briganti se hanno la forza del corpo, blasfemi se sono valetudinari e infermi; piangono e si lamentano se non hanno figli, e se ne hanno, traggono da ciò dei pretesti di guerre, di processi e di guadagni ingiusti e disonesti. Per riassumere in una parola, non v’è nulla nella vita che non porti gli insensati al male; giacché essi sono pressati da ogni lato e ridotti alle strette dal vizio che hanno abbracciato volontariamente, e dal rifiuto che fanno di vedere la luce divina, e d’intendere quel che si dice loro dei beni autentici, e sprofondati nelle affezioni carnali, si lasciano trasportare in questa vita come da una violenta tempesta.
La sola liberazione da tutti questi mali è il ritorno a Dio; e questo ritorno non è che per coloro che hanno gli occhi e le orecchie dell’anima sempre aperti e attenti, per ritrovare i beni autentici; e che, per la facoltà che hanno di rialzarsi, hanno guarito il male legato alla nostra natura. Ora questo male legato alla nostra natura e che è nello stesso tempo un male acquisito, è l’abuso che facciamo della nostra libertà; giacché per far uso di questa libertà, cerchiamo sempre di disputare contro Dio, e d’andare a testa bassa contro le Sue leggi, senza fare attenzione ai grandi mali che ci facciamo noi stessi, con questa disgraziata opinione di credere poter resistere a Dio, ma vedendo solamente con una vista debole e confusa che possiamo scuotere il giogo delle leggi divine; giacché ecco quel che si chiama far uso d’una libertà piena e senza limiti, osare allontanarsi da Dio, ed entrare in una disputa funesta con Lui, disputando ostinatamente contro di Lui, e rifiutando di cederGli. S’Egli ci dice, tu non farai affatto questo, è proprio quello che vogliamo fare: e se ci dice, fai questo, è quello che non vogliamo; colmando così la misura delle nostre iniquità, e precipitandoci da ambo i lati in un’infinita miseria con questa doppia trasgressione della Legge di Dio, non facendo quel che essa ordina, e facendo quel che proibisce.
Quale rimedio troveremo dunque a questa disputa funesta che è qui detta, e nostra compagna, e nata con noi? e che è eccitata da questo disgraziato germe che è in noi, sempre opposto alla natura; e che per questa ragione, come una male domestico, ci ferisce e ci uccide senza che ce n’accorgiamo? Che dobbiamo opporgli?
Come arrestare la sua furia?
Certamente non v’è altra diga da opporre a questa facoltà che ci precipita in basso, se non quella di praticare, meditare, e amare, tutti i precetti che ci metteranno nelle vie della virtù divina; giacché ecco la liberazione dai nostri mali, che è conosciuta da così poche persone. Ecco ciò che ci fa vedere e sentire i beni che sono vicini a noi. Ecco ciò che ci libera dalle disgrazie che ci attiriamo volontariamente; ecco ciò che sopprime quest’infinità di affanni e di passioni che ci opprimono; e di conseguenza ecco il solo cammino per evitare quest’empia disputa, ecco la salvezza dell’anima, e la purgazione di questa sfrenata discordia, e il ritorno a Dio; giacché il solo mezzo di correggere con la facoltà che ci è propria, l’inclinazione che ci abbassa, è di non aumentare affatto quest’inclinazione, e di non aggiungere affatto mali su mali; ma divenuti obbedienti e sottomessi alla retta ragione, di fuggire questa malvagia disputa, gettandoci nella disputa tutta buona, vale a dire, non combattendo più per disobbedire a Dio, ma combattendo per obbedirGli con tutte le nostre forze. E questo combattimento non dev’essere chiamato disputa, ma acquiescenza alla volontà di Dio, ritorno alla legge divina, e sottomissione volontaria e perfetta, che sopprime ogni pretesto alla folle disobbedienza, e all’incredulità: giacché credo che tutte queste cose siano significate da quei Versi.
Infatti, per mostrare che gli uomini abbracciano il vizio per propria scelta, il Poeta dice, conoscerai che gli uomini s’attirano le loro disgrazie volontariamente. Ecco perché vanno chiamati disgraziati e miserabili; perché si precipitano nel vizio per scelta della propria volontà. Per far intendere, che rifiutano ostinatamente d’ascoltare i buoni precetti che si danno loro, egli dice che essi non vedono, né sentono che i beni sono loro vicini. E per mostrare che è possibile liberarsi di questi mali, in cui ci si è gettati volontariamente, inferisce questa riflessione, ve ne sono pochissimi che sanno liberarsi dei loro mali; facendo vedere con ciò, che poiché questa liberazione è l’effetto della nostra volontà, la schiavitù del peccato lo è pure di conseguenza. Dopodiché aggiunge la causa dell’accecamento, e della sordità di queste anime che si precipitano volontariamente nel vizio. Tale è la sorte, dice, che acceca gli uomini, e toglie loro lo spirito; giacché l’allontanamento da Dio ci getta necessariamente nella follia, e nella scelta temeraria e irriflessiva. Ed è quest’allontanamento che egli designa qui con questa parola, sorte, che ci esilia dal cuore degli spiriti divini per la disgraziata inclinazione verso quest’animale particolare e mortale. Egli ci mostra ancora le funeste conseguenze di questa scelta temeraria e sconsiderata; e c’insegna come i nostri peccati siano al tempo stesso volontari e involontari; paragonando la vita del folle al movimento del cilindro, che si muove al tempo stesso e in tondo e in linea retta, in tondo da sé, e in linea retta con la sua estremità. Giacché, come il cilindro non è più capace del movimento circolare attorno al suo asse, dal momento in cui è deformato, e s’allontana dalla linea retta; allo stesso modo, l’anima non conserva più i beni autentici, dal momento in cui è decaduta dalla retta ragione, e dall’unione con Dio: bensì erra attorno a beni apparenti, ed è portata fuori dal filo retto, sballottata dalle sue affezioni carnali; il che egli spiega con queste parole, rotolano qua e là,sempre oppressi da innumerevoli mali.
E poiché la causa di questa sorte che toglie lo spirito agli uomini, e del loro allontanamento da Dio, è l’abuso che essi fanno della loro libertà, egli insegna nei due Versi seguenti, come bisogna riformare quest’abuso, e servirsi di questa stessa libertà per ritornare a Dio: giacché per insinuare che non ci attiriamo le nostre disgrazie se non perché lo vogliamo, egli dice, la disputa funesta nata con loro, e che li segue dappertutto, li agita senza che se ne accorgano. E subito dopo, per far vedere che il rimedio è in nostro potere, aggiunge: invece di provocarla, e d’irritarla, dovrebbero fuggirla cedendo. Ma accorgendosi al tempo stesso, che abbiamo innanzitutto bisogno del soccorso di Dio, per evitare i mali, e per acquisire i beni, aggiunge improvvisamente una specie di preghiera, e rivolge a Dio un ritorno e uno slancio, solo mezzo d’attirare il suo soccorso.
* Estratto da A. Dacier, Les Commentaires d’Hiérocles sur les Vers doréz de Pythagore, tomo II, Paris, Rigaud, 1706. Nella nostra traduzione abbiamo voluto restare fedeli al francese settecentesco dell’originale; d’altra parte il testo è stato successivamente ripreso come A. Dacier, Commentaires d’Hiérocles sur les Vers dorés de Pythagore, in A. Fabre d’Olivet, Les Vers dorés de Pythagore, expliqués, Paris, Lucien Bodin Éditeur, 1907, ma con qualche lacuna e libertà; anche la numerazione dei Versi è quella del 1706.
(in collaborazione con la Rivista di Studi Tradizionali, Lettera e Spirito)
Commentari sui Versi d’Oro di Pitagora – Hierocles
Hierocles d’Alessandria detto Hierocles il Pitagorico o Hierocles Platonicus è un filosofo neopitagorico del V secolo, allievo di Plutarco d’Atene, il fondatore del neoplatonismo ad Atene. Il suo Commentario sui Versi d’Oro di Pitagora (Commentarius in Aurea Carmina), integralmente conservato, pur non essendo un vero trattato dottrinale, contiene preziose indicazioni sul pitagorismo.
Colui che rispetta se stesso diviene la sua guardia, per impedirsi di cadere in alcun vizio. Ora vi sono parecchie specie di vizi: il vizio della parte ragionevole è la follia; quello della parte irascibile, è la viltà; quello della parte concupiscibile, è l’intemperanza e l’avarizia; e il vizio che s’estende su tutte queste facoltà, è l’ingiustizia. Per evitare dunque tutti questi vizi, abbiamo bisogno di quattro virtù; della prudenza, per la parte ragionevole; del coraggio, per la parte irascibile; della temperanza, per la parte concupiscibile; e per tutte queste facoltà insieme, abbiamo bisogno della giustizia, che è la più perfetta di tutte le virtù, e che regnando nelle une e nelle altre, le racchiude tutte come proprie parti. Ecco perché questo Verso nomina la giustizia per prima, la prudenza in secondo luogo, e dopo la prudenza, mette i più eccellenti effetti che nascono da questa virtù, e che contribuiscono alla perfezione e all’integrità o totalità della giustizia; giacché ogni uomo che ragiona bene, e che si serve della prudenza, ha per secondo nelle cose lodevoli, il coraggio; nelle cose che accarezzano i sensi, la temperanza; e negli uni e negli altri, la giustizia. E così la prudenza si trova essere il principio delle virtù, e la giustizia il loro fine; e nel mezzo sono il coraggio e la temperanza; giacché la facoltà che esamina tutto con il ragionamento, e che cerca sempre il bene di ciascuno in tutte le azioni, affinché tutte le cose si facciano con ragione e nell’ordine, è l’abitudine della prudenza, vale a dire, la più eccellente disposizione della nostra essenza ragionevole, e grazie alla quale tutte le nostre altre facoltà sono in buono stato, dimodoché la collera sia vigorosa, e la cupidigia temperante; e che la giustizia correggendo tutti i nostri vizi, e animando tutte le nostre virtù, orni il nostro uomo mortale con la sovrabbondanza della virtù dell’uomo immortale; giacché è originariamente dallo spirito divino, che le virtù irraggiano nell’anima ragionevole, sono esse che costituiscono la sua forma, la sua perfezione e tutta la sua felicità. E dall’anima, queste virtù ricadono, per una segreta comunicazione, su quest’essere insensato, voglio dire, sul corpo mortale, affinché tutto quel che è unito all’essenza ragionevole sia riempito di bellezza, di decenza, e d’ordine. Ora il primo, e come la guida di tutti i beni divini, la prudenza, essendo ben fondata e consolidata nell’anima ragionevole, fa che si prenda la buona risoluzione in tutte le occasioni; che si sopporti coraggiosamente la morte, e che si soffra con pazienza e con dolcezza la perdita dei beni della fortuna; giacché non v’è che la sola prudenza che possa sostenere saggiamente e intrepidamente i cambiamenti di questa natura mortale, e della fortuna che la fugge. Infatti, è essa che conosce con la ragione la natura delle cose; essa sa che è una necessità indispensabile, che ciò che è composto di terra e d’acqua, si risolva in questi stessi elementi che lo compongono; essa non s’irrita affatto contro la necessità, e sebbene questo corpo mortale muoia, essa non conclude affatto che non via sia provvidenza, giacché conosce che dal destino è ordinato a tutti gli uomini di morire, che vi è un tempo prefissato per la durata di questo corpo mortale, e che venuto l’ultimo momento, non bisogna esserne contrariati, ma riceverlo, e sottomettersi volontariamente, come alla legge divina; giacché è quel che porta in sé propriamente la parola destino; significa, c
he Dio stesso con i suoi decreti, ha destinato, ha assegnato alla nostra vita mortale dei limiti necessari, e non se ne può prescindere, ed è proprio della prudenza il seguire i decreti degli Dei, cercando non di non morire, ma di morire bene. Similmente, essa non ignora la natura dei beni della fortuna; essa sa che arrivano oggi, e se ne vanno domani, secondo certe cause che sono destinate e segnate, alle quali è vergognoso resistere; giacché noi non siamo maestri di trattenere e di conservare quel che non è affatto in nostro potere. Ora certamente, né il corpo né i beni, in una parola, tutto quel che è separato dalla nostra essenza ragionevole, non è affatto in nostro potere: e siccome non dipende da noi l’acquisirli, tanto più non dipende da noi il conservarli quanto vogliamo. Ma di riceverli quando arrivano, e di renderli quando se ne vanno, e di riceverli e di renderli sempre con molta virtù, ecco quel che dipende da noi, ed ecco ciò che è proprio alla nostra essenza ragionevole, se essa non s’abitua affatto a comportarsi senza regola e senza ragione su tutti gli accidenti della vita; ma che s’abitui a seguire le regole divine che hanno definito e determinato tutto quanto ci può riguardare; è dunque in questo soprattutto che ciò che dipende da noi, e che è in nostro potere ha un’estrema forza; si è che possiamo ben giudicare delle cose che non dipendono affatto da noi, e non lasciarci strappare la virtù della nostra libertà, per l’affezione delle cose periture.
Che dice dunque il giudizio prudente e saggio? Dice che occorre far buon uso del corpo e delle ricchezze mentre le abbiamo, e asservirle alla virtù: e quando siamo sul punto di perderle, occorre conoscere la necessità, e aggiungere a tutte le nostre altre virtù quella della tranquillità e dell’indifferenza; giacché il solo modo di conservare la pietà verso gli Dei, e la giusta misura della giustizia, è d’abituare la propria ragione a far buon uso di tutti gli accidenti, e d’opporre le regole della prudenza, a tutte le cose che ci sembrano arrivare senz’ordine, e a caso; giacché mai conserveremo la virtù, se la nostra anima non ha rette opinioni. Mai colui che si sia abituato a comportarsi senza regola e senza ragione in tutto quel che fa, seguirà gli esseri migliori di noi, siccome migliori di noi; ma li considererà come dei tiranni che l’obbligano, e che lo infastidiscono; mai avrà riguardo per coloro con i quali vive, e mai farà buon uso del suo corpo e delle sue ricchezze. Vedete coloro che fuggono la morte, o che sono posseduti dal desiderio di conservare le loro ricchezze; vedete in quali ingiustizie, in quali blasfemie si precipitano necessariamente, levando lo stendardo dell’empietà contro Dio, e negando la Sua provvidenza, quando si vedono cadere nelle cose che fuggono follemente, e facendo al loro prossimo ogni sorta d’ingiustizia, senza alcun riguardo, per rapirgli il suo bene, e per rapportare tutto alla propria utilità, per quanto loro è possibile. Così la ferita che a questi infelici fanno le false opinioni, diviene manifesta, e si vedono germinare da là tutti i più grandi mali, l’ingiustizia verso i propri simili, e l’empietà verso coloro che sono sopra di loro: mali da cui è esente colui, che obbedendo a questo precetto, attende coraggiosamente la morte con un giudizio purificato dalla ragione, e non crede che la perdita dei beni sia insopportabile. Da lì nascono tutti i movimenti e tutti i motivi che lo portano alla virtù; giacché da lì egli apprende che occorre astenersi dal bene altrui, non fare torto a nessuno, e non cercare mai il proprio profitto con la perdita e il danno del suo prossimo. Ora è quel che non potrà mai osservare colui che si persuade che la sua anima è mortale, e che abituato a comportarsi in tutto senza regola e senza ragione, non discerne affatto quel che vi è di mortale in noi, e che ha bisogno delle ricchezze, e quel che è suscettibile di virtù, e che la virtù aiuta e fortifica; giacché non v’è che questo giusto discernimento che possa portarci alla pratica della virtù, ed eccitarci ad acquisire quel che è bello e onesto; acquisizione alla quale ci spinge un movimento tutto divino, che nasce da questi due precetti, Conosci te stesso, e Rispetta te stesso. Giacché è per la nostra dignità, che occorre misurare tutti i nostri doveri, e nelle nostre azioni e nelle nostre parole; e l’osservanza dei nostri doveri non è altro che l’osservanza esatta e inviolabile della giustizia. Ecco perché la giustizia è messa qui alla testa di tutte le altre virtù, affinché divenga la misura e la regola dei nostri doveri. Osserva la giustizia, dice, e nelle tue azioni, e nelle tue parole. Non pronuncerai dunque mai alcuna blasfemia, né nella perdita dei tuoi beni, né nei dolori più acuti delle tue malattie, affinché tu non ferisca la giustizia nelle tue parole: e non rapirai mai il bene del tuo prossimo, e non macchinerai mai la perdita e l’infelicità di alcun uomo, affinché tu non ferisca la giustizia nelle tue azioni; giacché fintantoché la giustizia sarà come un presidio nella nostra anima, per guardarla e difenderla, noi adempiremo sempre tutti i nostri doveri, verso gli Dei, verso gli uomini, e verso noi stessi. Ora la regola migliore, e la misura migliore della giustizia, è la prudenza; è perché, dopo il precetto, Osserva la giustizia, aggiunge, e non abituarti affatto a comportarti in niente senza ragione, come la giustizia che non può sussistere senza la prudenza. Infatti non v’è di veramente giusto che quel che la prudenza perfetta ha limitato; è lei che non si comporta in niente senza ragione, ma che esamina e considera con cura che cos’è questo corpo mortale, quel di cui ha bisogno, e che è necessario al suo uso; ed è lei infine che trova tutto vile e spregevole, in confronto alla virtù, e che fa consistere tutta la sua utilità nella disposizione migliore dell’anima; in quella disposizione che dà a tutte le altre cose l’ornamento e il prezzo che esse possono ricevere. Ecco qual è lo scopo di questi Versi; è di far nascere nell’anima di coloro che li leggono, queste quattro virtù pratiche, con la loro esatta e vigile osservanza, e nelle azioni, e nelle parole; giacché uno di questi Versi ispira la prudenza, l’altro il coraggio, questo la temperanza, e quello che li precede tutti, esorta a osservare la giustizia che s’estende in comune su tutte le altre virtù: e questo Verso, Che i beni della fortuna sono incerti, e che come si possono acquisire, si possono anche perdere, è aggiunto qui, per far intendere che l’abitudine della temperanza è normalmente accompagnata dalla liberalità, virtù che regola l’ingresso e l’uscita nei beni della fortuna; giacché il riceverli, e il dispensarli quando la ragione lo vuole e l’ordina, questo solo tronca alla radice la meschinità e la prodigalità; e tutte queste virtù vengono da questo principio come da una sorgente primaria, voglio dire, rispettare se stessi: e questo precetto, rispettare se stessi, è racchiuso in quello, conosci te stesso, che deve precedere tutte le nostre buone azioni, e tutte le nostre conoscenze. Infatti, da dove sapremmo che dobbiamo moderare le nostre passioni e conoscere la natura delle cose? Giacché si dubita a questo proposito, in primo luogo, se ciò sia possibile all’uomo; e in secondo luogo, se sia utile. Parrebbe addirittura l’esatto contrario, che l’uomo di bene sia molto più infelice in questa vita, del malvagio, poiché non prende affatto ingiustamente da dove non deve prendere, e dispensa giustamente dove deve dispensare. E per quanto riguarda il corpo, è più esposto ai maltrattamenti, poiché non cerca affatto di dominare, e non corteggia servilmente coloro che dominano: dimodoché se non v’è in noi una sostanza che trae tutta la sua utilità dalla virtù, è invano che disprezzeremmo le ricchezze e le dignità. Ecco perché coloro che, pur essendo persuasi che l’anima è mortale, insegnano che non si debba abbandonare la virtù, sono piuttosto dei vani parlatori, che dei veri Filosofi; giacché se dopo la nostra morte non restasse qualcosa di noi, e qualcosa di natura tale da trarre tutto il suo ornamento dalla verità e dalla virtù, quale noi diciamo l’anima ragionevole, mai avremmo desideri puri delle cose belle e oneste, poiché il solo sospetto che l’anima è mortale, attutisce e soffoca ogni sollecitudine per la virtù, e spinge a godere delle voluttà corporali, quali che siano, e da qualunque parte vengano. Infatti, come possono quelle genti pretendere che un uomo prudente, e che fa appena uso della ragione, non debba concedere tutto al suo corpo, per il quale solo la stessa anima sussiste, poiché essa non esiste per se stessa, ma è un accidente di tale, o talaltra conformazione del corpo? Com’è possibile che abbandoniamo il corpo per amore della virtù, quando siamo persuasi che perderemo l’anima con il corpo; dimodoché questa virtù, per la quale avremmo sofferto la morte, non si troverà in nessun luogo, e non esisterà affatto? Ma questa materia è stata ampiamente trattata da uomini divini, che hanno dimostrato invincibilmente che l’anima è immortale, e che la virtù sola fa tutto il suo ornamento. Dopo aver dunque sigillato con il sigillo della verità quest’opinione sull’immortalità dell’anima, passiamo a quanto segue, aggiungendo a ciò che abbiamo già stabilito, che come l’ignoranza della nostra essenza comporta necessariamente dopo di essa tut
ti i vizi, la conoscenza di noi stessi, e il disprezzo di tutto quel che è indegno di una natura ragionevole, producono in tutto e per tutto l’osservanza sicura e ragionata dei nostri doveri, ed è in ciò che consiste la giusta misura di tutte le virtù in particolare: giacché mentre riguardiamo e consideriamo la nostra essenza come la nostra sola regola, troviamo in tutte le cose quel che è nostro dovere, e l’adempiamo secondo la retta ragione, conformemente alla nostra essenza. Tutto ciò che rende l’anima migliore, e che la conduce alla felicità adeguata alla sua natura, è veramente la virtù, e la legge della Filosofia: e tutto quel che non tende che a una certa convenienza umana, non sono che delle ombre di virtù che cercano le lodi degli uomini, e degli artifici di uno schiavo che simula, e che pone tutto il suo sforzo a sembrare virtuoso piuttosto che a esserlo veramente. Pensiamo di aver detto abbastanza su quest’argomento.
Dall’uso che facciamo della nostra retta ragione, ne segue necessariamente che non ci comportiamo affatto leggermente verso tutti gli accidenti di questa vita che ci paiono arrivare senza alcun ordine; ma che li giustifichiamo generosamente, distinguendo esattamente le loro cause, e che li sopportiamo coraggiosamente senza lamentarci degli esseri che hanno cura di noi, e che distribuendo a ciascuno quel che gli è dovuto secondo il suo merito, non hanno dato la stessa dignità e lo stesso rango a coloro che non hanno mostrato la stessa virtù nella loro prima vita. Giacché come potrebbe essere che esistendo una provvidenza, ed essendo la nostra anima incorruttibile nella sua essenza, e orientandosi alla virtù o al vizio di sua scelta, e con proprio movimento, come potrebbe essere, dicevo, che gli stessi guardiani della Legge che vuole che ciascuno sia trattato secondo il suo merito, trattassero ugualmente coloro che non sono per niente uguali, e non distribuissero a ciascuno la fortuna, che si dice ogni uomo venendo al mondo sceglie lui stesso secondo la sorte che gli è toccata? Se non è dunque una favola che vi sia una provvidenza che distribuisce a ciascuno il dovuto, e che la nostra anima sia immortale, è evidente che invece d’accusare delle nostre disgrazie colui che ci governa, non dobbiamo prendercela che con noi stessi: ed è da qui che trarremo la virtù e la forza di guarire e di correggere tutte queste disgrazie, come i Versi seguenti c’insegneranno. Giacché trovando in noi stessi le cause di una così grande ineguaglianza, in primo luogo diminuiremo con la rettitudine dei nostri giudizi l’amarezza di tutti gli accidenti della vita: e poi con metodi sacri, e con buone riflessioni, come facendo rimontare a forza di remi la nostra anima verso ciò che è meglio, ci libereremo interamente di tutto quanto soffriamo di più spiacevole e di più penoso. Giacché di soffrire senza conoscere la causa di quel che si soffre, e senza congetturare almeno quanto ci può verosimilmente mettere in quello stato, è proprio di un uomo abituato a comportarsi senza ragione e senza riflessione in tutte le cose; quel che questo precetto ci proibisce espressamente; giacché è impossibile che colui che non ricerca la vera causa dei suoi mali, ne accusi gli Dei, sostenendo, o che non ve ne sono affatto, o che non hanno di noi la cura che dovrebbero avere: e questi empi sentimenti non aumenteranno solamente i mali che vengono dalla prima vita, ma ancora eccitano l’anima a commettere ogni sorta di crimini, e la privano del culto del suo libero arbitrio, tenendola nell’oblio delle cause di ciò che soffre qui in basso: ma per sapere come bisogna filosofare e ragionare su queste cose, ascoltiamo i Versi seguenti.
[…]
L’Ordine degli esseri corporei e incorporei è ben conosciuto, come molto esattamente conosciuta è anche l’essenza dell’uomo; si conosce quel che è, e a quali passioni è soggetta; e si sa che sta nel mezzo tra gli esseri che non cadono mai nel vizio, e coloro che non possono mai elevarsi alla virtù. Ecco perché essa ha le due inclinazioni che questi due legami le ispirano, talvolta vivendo là di una vita intelligente, & talaltra prendendo qui delle affezioni tutte carnali: il che ha fatto dire con molta ragione a Eraclito, che la nostra vita è la morte, e la nostra morte, la vita; giacché l’uomo cade e precipita dalla regione dei beati, come dice Empedocle il Pitagorico,
Ma egli vi risale e ritrova la sua antica abitudine, se fugge le cose di quaggiù, e questo spaventoso soggiorno in cui dimorano come dice lo stesso Poeta,
E nel quale coloro che vi cadono,
Colui che fugge queste tristi campagne dell’ingiuria, è condotto da questo buon desiderio nella prateria della verità; e se la lascia, la caduta delle sue ali lo precipita in un corpo terrestre,
Ed è a ciò che s’accorda il sentimento di Platone, che parlando di questa caduta dell’anima, dice, Ma quando non avendo più la forza di seguire Dio, essa non vede più questo campo della verità; per qualche disgrazia, riempita di vizio e d’oblio, essa s’appesantisce; e appesantita, finisce col perdere le sue ali e col cadere in questa terra, allora la Legge l’invia ad animare un animale mortale. E sul ritorno dell’anima nel luogo da cui essa è discesa, lo stesso Platone dice, l’uomo che ha superato con la sua ragione il disordine e il turbamento che gli vengono dalla miscela della terra, dell’acqua, dell’aria, e del fuoco, riprende la sua forma primitiva, e ritrova la sua abitudine primitiva; poiché egli ritorna sano e intero all’astro che gli è stato assegnato. Vi ritorna sano, perché è liberato dalle passioni che sono altrettante malattie; e questa guarigione non gli viene che per mezzo della virtù pratica: e vi ritorna intero, perché ritrova l’intendimento e la scienza come sue parti essenziali; il che non gli succede che per mezzo della virtù contemplativa. Da un altro lato lo stesso Platone insegna positivamente che è con la fuga dalle cose di questo mondo, che noi possiamo guarire e correggere l’apostasia che ci allontana da Dio; e stabilisce che questa fuga dai mali di quaggiù non è che la Filosofia, rivelando con ciò che questa sorta di passioni non si trova che nei soli uomini, e che non è possibile, che i mali siano esiliati da questa terra, né che possano avvicinare alla divinità, ma che sono sempre attorno alla terra che abitiamo, e si legano alla natura mortale, come provenienti dalla necessità sola; giacché gli esseri che sono nella generazione e nella corruzione, possono prendersela contro la natura: ed è questo il principio di tutti i mali; e per insegnare come bisogna fuggirli, Platone aggiunge: ecco perché bisogna fuggire da quaggiù al più presto: ora fuggire, significa lavorare per rassomigliare a Dio per quanto all’uomo è possibile; e rassomigliare a Dio, significa divenire giusto e santo con prudenza. Giacché colui che vuole evitare questi mali, deve cominciare con lo spogliarsi di questa natura mortale, non essendo possibile che coloro che vi sono vincolati e impantanati non siano riempiti di tutti i mali che la necessità vi fa germinare. Come dunque il nostro allontanamento da Dio, e la perdita delle ali, che ci elevavano verso le cose superiori, ci hanno precipitato in questa regione di morte in cui abitano tutti i mali; allo stesso modo lo spogliarsi di ogni affezione terrestre, e il rinnovamento delle virtù, come una rinascita delle nostre ali per guidarci al soggiorno della vita, dove si trovano i beni autentici, senza alcuna mescolanza di mali, ci ricondurranno alla felicità divina; giacché l’essenza dell’uomo che sta nel mezzo tra esseri che contemplano sempre Dio, e quelli che sono incapaci di contemplarlo, può elevarsi verso gli uni e abbassarsi verso gli altri, essendo a causa di questa natura anfibia, ugualmente portata ad assumere la somiglianza divina o la somiglianza brutale, secondo che riceva o rigetti l’intendimento e il buon spirito.
Colui dunque che conosce questa libertà, e questo duplice potere nella natura umana, conosce anche come gli uomini s’attirino tutti i loro mali volontariamente; e come sono disgraziati, e miserabili per propria scelta; giacché sebbene possano dimorare nella loro vera patria, si lasciano trascinare alla nascita dalla sregolatezza dei loro desideri; e sebbene possano distaccarsi prontamente da questo corpo miserabile, sprofondano volontariamente in tutte le difficoltà, e in tutti i disordini delle passioni. Ed è quel che il Poeta vuol far intendere, quando dice, non vedono né sentono che i beni sono loro vicini.
Questi beni sono qui la virtù e la verità. Non vedere che sono loro vicini, significa non essere affatto portati per se stessi a cercarli: e non sentire che sono loro vicini, significa non ascoltare gli avvertimenti, e non obbedire ai precetti che gli altri loro danno; giacché vi sono due mezzi per ritrovare la scienza, uno con l’istruzione, come per l’udito; e l’altro con la ricerca, come per la vista. Gli uomini sono dunque detti attirarsi i loro mali per propria scelta, quando non vogliono né apprendere dagli altri, né trovare da sé, come interamente privati di sentimento per i beni autentici, e con ciò interamente inutili; giacché ogni uomo che non vede affatto da sé, e che non intende affatto chi l’avverte, è interamente inutile e disperato: ma coloro che lavorano per trovare da sé, o apprendere dagli altri i beni autentici, sono costoro di cui il Poeta dice che sanno liberarsi dei propri mali, e che con la fuga dai lavori e dalle pene che si trovano quaggiù, si trasportano in un’aria pura e libera. Il numero [di costoro] è molto piccolo; giacché la maggior parte sono malvagi, sottomessi alle loro passioni, e come folli per l’inclinazione che hanno verso la terra, e s’attirano essi stessi questo male, per aver voluto allontanarsi da Dio, e privarsi essi stessi della sua presenza, e se possiamo osare dirlo, dalla sua familiarità, di cui avevano la fortuna di godere quando abitavano una luce pura. Quest’allontanamento da Dio è designato dalla sorte che acceca gli uomini, e che toglie loro lo spirito.
Infatti, è ugualmente impossibile che colui che è vuoto di Dio non sia insensato, e che l’insensato non sia vuoto di Dio; giacché è necessario che il folle sia senza Dio, e che colui che è senza Dio sia folle; e l’uno e l’altro, come non essendo affatto eccitati all’amore dei beni autentici, sono oppressi da innumerevoli mali, spinti da una disgrazia in un’altra disgrazia, come dei cilindri, per il peso delle loro empie azioni; non sapendo che fare, né che divenire, poiché si governano senza ragione e senza riflessione in tutti gli stati della fortuna; insolenti nella ricchezza, furbi e perfidi nella povertà, briganti se hanno la forza del corpo, blasfemi se sono valetudinari e infermi; piangono e si lamentano se non hanno figli, e se ne hanno, traggono da ciò dei pretesti di guerre, di processi e di guadagni ingiusti e disonesti. Per riassumere in una parola, non v’è nulla nella vita che non porti gli insensati al male; giacché essi sono pressati da ogni lato e ridotti alle strette dal vizio che hanno abbracciato volontariamente, e dal rifiuto che fanno di vedere la luce divina, e d’intendere quel che si dice loro dei beni autentici, e sprofondati nelle affezioni carnali, si lasciano trasportare in questa vita come da una violenta tempesta.
La sola liberazione da tutti questi mali è il ritorno a Dio; e questo ritorno non è che per coloro che hanno gli occhi e le orecchie dell’anima sempre aperti e attenti, per ritrovare i beni autentici; e che, per la facoltà che hanno di rialzarsi, hanno guarito il male legato alla nostra natura. Ora questo male legato alla nostra natura e che è nello stesso tempo un male acquisito, è l’abuso che facciamo della nostra libertà; giacché per far uso di questa libertà, cerchiamo sempre di disputare contro Dio, e d’andare a testa bassa contro le Sue leggi, senza fare attenzione ai grandi mali che ci facciamo noi stessi, con questa disgraziata opinione di credere poter resistere a Dio, ma vedendo solamente con una vista debole e confusa che possiamo scuotere il giogo delle leggi divine; giacché ecco quel che si chiama far uso d’una libertà piena e senza limiti, osare allontanarsi da Dio, ed entrare in una disputa funesta con Lui, disputando ostinatamente contro di Lui, e rifiutando di cederGli. S’Egli ci dice, tu non farai affatto questo, è proprio quello che vogliamo fare: e se ci dice, fai questo, è quello che non vogliamo; colmando così la misura delle nostre iniquità, e precipitandoci da ambo i lati in un’infinita miseria con questa doppia trasgressione della Legge di Dio, non facendo quel che essa ordina, e facendo quel che proibisce.
Quale rimedio troveremo dunque a questa disputa funesta che è qui detta, e nostra compagna, e nata con noi? e che è eccitata da questo disgraziato germe che è in noi, sempre opposto alla natura; e che per questa ragione, come una male domestico, ci ferisce e ci uccide senza che ce n’accorgiamo? Che dobbiamo opporgli?
Certamente non v’è altra diga da opporre a questa facoltà che ci precipita in basso, se non quella di praticare, meditare, e amare, tutti i precetti che ci metteranno nelle vie della virtù divina; giacché ecco la liberazione dai nostri mali, che è conosciuta da così poche persone. Ecco ciò che ci fa vedere e sentire i beni che sono vicini a noi. Ecco ciò che ci libera dalle disgrazie che ci attiriamo volontariamente; ecco ciò che sopprime quest’infinità di affanni e di passioni che ci opprimono; e di conseguenza ecco il solo cammino per evitare quest’empia disputa, ecco la salvezza dell’anima, e la purgazione di questa sfrenata discordia, e il ritorno a Dio; giacché il solo mezzo di correggere con la facoltà che ci è propria, l’inclinazione che ci abbassa, è di non aumentare affatto quest’inclinazione, e di non aggiungere affatto mali su mali; ma divenuti obbedienti e sottomessi alla retta ragione, di fuggire questa malvagia disputa, gettandoci nella disputa tutta buona, vale a dire, non combattendo più per disobbedire a Dio, ma combattendo per obbedirGli con tutte le nostre forze. E questo combattimento non dev’essere chiamato disputa, ma acquiescenza alla volontà di Dio, ritorno alla legge divina, e sottomissione volontaria e perfetta, che sopprime ogni pretesto alla folle disobbedienza, e all’incredulità: giacché credo che tutte queste cose siano significate da quei Versi.
Infatti, per mostrare che gli uomini abbracciano il vizio per propria scelta, il Poeta dice, conoscerai che gli uomini s’attirano le loro disgrazie volontariamente. Ecco perché vanno chiamati disgraziati e miserabili; perché si precipitano nel vizio per scelta della propria volontà. Per far intendere, che rifiutano ostinatamente d’ascoltare i buoni precetti che si danno loro, egli dice che essi non vedono, né sentono che i beni sono loro vicini. E per mostrare che è possibile liberarsi di questi mali, in cui ci si è gettati volontariamente, inferisce questa riflessione, ve ne sono pochissimi che sanno liberarsi dei loro mali; facendo vedere con ciò, che poiché questa liberazione è l’effetto della nostra volontà, la schiavitù del peccato lo è pure di conseguenza. Dopodiché aggiunge la causa dell’accecamento, e della sordità di queste anime che si precipitano volontariamente nel vizio. Tale è la sorte, dice, che acceca gli uomini, e toglie loro lo spirito; giacché l’allontanamento da Dio ci getta necessariamente nella follia, e nella scelta temeraria e irriflessiva. Ed è quest’allontanamento che egli designa qui con questa parola, sorte, che ci esilia dal cuore degli spiriti divini per la disgraziata inclinazione verso quest’animale particolare e mortale. Egli ci mostra ancora le funeste conseguenze di questa scelta temeraria e sconsiderata; e c’insegna come i nostri peccati siano al tempo stesso volontari e involontari; paragonando la vita del folle al movimento del cilindro, che si muove al tempo stesso e in tondo e in linea retta, in tondo da sé, e in linea retta con la sua estremità. Giacché, come il cilindro non è più capace del movimento circolare attorno al suo asse, dal momento in cui è deformato, e s’allontana dalla linea retta; allo stesso modo, l’anima non conserva più i beni autentici, dal momento in cui è decaduta dalla retta ragione, e dall’unione con Dio: bensì erra attorno a beni apparenti, ed è portata fuori dal filo retto, sballottata dalle sue affezioni carnali; il che egli spiega con queste parole, rotolano qua e là, sempre oppressi da innumerevoli mali.
E poiché la causa di questa sorte che toglie lo spirito agli uomini, e del loro allontanamento da Dio, è l’abuso che essi fanno della loro libertà, egli insegna nei due Versi seguenti, come bisogna riformare quest’abuso, e servirsi di questa stessa libertà per ritornare a Dio: giacché per insinuare che non ci attiriamo le nostre disgrazie se non perché lo vogliamo, egli dice, la disputa funesta nata con loro, e che li segue dappertutto, li agita senza che se ne accorgano. E subito dopo, per far vedere che il rimedio è in nostro potere, aggiunge: invece di provocarla, e d’irritarla, dovrebbero fuggirla cedendo. Ma accorgendosi al tempo stesso, che abbiamo innanzitutto bisogno del soccorso di Dio, per evitare i mali, e per acquisire i beni, aggiunge improvvisamente una specie di preghiera, e rivolge a Dio un ritorno e uno slancio, solo mezzo d’attirare il suo soccorso.
* Estratto da A. Dacier, Les Commentaires d’Hiérocles sur les Vers doréz de Pythagore, tomo II, Paris, Rigaud, 1706. Nella nostra traduzione abbiamo voluto restare fedeli al francese settecentesco dell’originale; d’altra parte il testo è stato successivamente ripreso come A. Dacier, Commentaires d’Hiérocles sur les Vers dorés de Pythagore, in A. Fabre d’Olivet, Les Vers dorés de Pythagore, expliqués, Paris, Lucien Bodin Éditeur, 1907, ma con qualche lacuna e libertà; anche la numerazione dei Versi è quella del 1706.
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