8 Ottobre 2024
Economia

Comunità o mercato

di Enrico Marino

Osservando lo scenario che ci circonda alla luce dell’attuale crisi, appare evidente che l’Europa dei popoli non è nata; è nata invece l’Europa del denaro, nella quale gli Stati si sono sottomessi ai vincoli dei mercati finanziari, i soli a fare prestiti agli Stati da quando le loro banche centrali non possono farne più. Anzi, sotto la spinta degli spread sui loro debiti sovrani, gli Stati hanno adottato legislazioni suicide per garantire gli investitori internazionali a scapito dei loro stessi cittadini, con meccanismi, tipo il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) o il Trattato su stabilità, coordinamento e governance (Tscg) dell’Ue, che hanno introdotto vincoli tali per cui i parlamenti nazionali non possono più decidere il loro bilancio. Le politiche di austerità hanno di fatto scaricato i costi su classi medie e popolari, senza essere efficaci, generalizzando la miseria, senza permettere agli Stati di sdebitarsi e, per di più, portando incredibilmente ai vertici di molti Paesi personaggi largamente compromessi con le stesse centrali della finanza e della speculazione mondialiste. Renzi sostiene di essere avversato dai “poteri forti”, eppure proprio il Corriere della Sera – espressione di una corrente della casta economico finanziaria dominante nel Paese –, rilanciando le dichiarazioni del premier, nell’edizione di lunedi 29 settembre titolava: “Cancelliamo i contratti precari”. Questa è l’ennesima frottola amplificata e diffusa dai media di regime che, peraltro, potrebbe anche intendersi come involontaria confessione dell’inutilità a mantenere la categoria specifica dei “contratti precari” dal momento che, col jobs-act e la cancellazione dell’art. 18, di fatto tutti i contratti diverranno precari. Se, infatti, verranno abolite le tutele, che nel caso di insufficiente giustificazione obbligavano l’imprenditore a riassumere il lavoratore licenziato, l’asserita valenza di contratti a tempo indeterminato potrà essere azzerata in qualunque momento della vita lavorativa di un soggetto sulla base di una qualsivoglia arbitraria decisione aziendale.

Ma, al di là di un’analisi tecnica dei provvedimenti governativi, in questa sede, ci premeva sottolineare la valenza ideologica e la portata sociale del nuovo corso attuato in materia di lavoro dal centrosinistra con l’avallo e il sostegno del centrodestra.

Dovevamo vivere questi tempi ultimi, infatti, per osservare coi nostri occhi stravolgimenti che fino a qualche anno fa credevamo francamente impossibili. Dovevamo vivere questi tempi ultimi per assistere all’eversione della società naturale a favore della società civile e dei suoi infiniti “diritti” indotti da uno sporco lavoro di sobillazione di ogni istinto più basso, dalla promozione delle coppie gay, dell’aborto, dell’eutanasia, dell’eugenetica, della società multiculturale e (non a caso) del liberismo economico finanziario, cioè di tutti i concetti del relativismo e del radicalismo laico che sono i “valori” delle società occidentali prostrate al colonialismo culturale e politico d’oltre Oceano.

Ce ne ha recentemente fornito un lampante esempio il nostro giovane premier che, tornato dagli Stati Uniti quanto mai galvanizzato per il loro “efficiente” turbo-capitalismo, ha deciso di erogare ai lavoratori il Tfr non al momento della pensione o del licenziamento, bensì mensilmente in busta paga. Questa furbata, secondo il presidente del Consiglio e la sua allegra accolita di nuove leve, dovrebbe garantire alle famiglie italiane più soldi da spendere e quindi, miracolosamente, far ripartire un’economia in crisi di consumi. È un’antica ricetta neoliberista che tende a far spendere i meno abbienti per poterli così meglio spremere fino all’ultimo, facendo oltretutto apparire come un incremento di reddito la corresponsione ai lavoratori di somme che, in realtà, costituiscono loro accantonamenti a fini previdenziali.

Infatti, nel testo della Carta del Lavoro, che tracciava le basi programmatiche dell’economia della nuova Italia e dell’ordinamento corporativo, all’articolo 17 si può leggere: “Nelle imprese a lavoro continuo il lavoratore ha diritto, in caso di cessazione dei rapporti di lavoro per licenziamento senza sua colpa, ad una indennità proporzionata agli anni di servizio. Tale indennità è dovuta anche in caso di morte del lavoratore”.

La data della pubblicazione della Carta non è casuale: il 21 aprile del 1927, ossia anno V dell’Era fascista, è la data della fondazione di Roma, nonché – molto significativamente – della Festa dei lavoratori durante il ventennio mussoliniano. Già in questo elemento simbolico è rintracciabile una precisa scelta culturale, un ben riconoscibile animus informatore, che si riconnette al decorum latino e non al business dell’alta finanza a stelle e strisce.

Il Fascismo, in linea con la sua politica economica spiccatamente solidaristica, stava in quegli anni realizzando lo Stato sociale, mentre la democrazia post bellica e il nuovo ordine mondiale, verso il quale l’attuale classe politica sta conducendo il Paese, questo Stato sociale lo stanno liquidando per realizzare quel consesso universale che tanti “vantaggi” apporta ai paesi che ne fanno parte in termini di concorrenza esasperata e di dumping sociale, di piramidi finanziarie e di rovinose crisi economiche, di recessione e di austerità, di politiche neoliberiste e di abbattimento di diritti sociali, di delocalizzazioni industriali e di disoccupazione.

Lo Stato fascista era figlio di conquiste sociali rivoluzionarie, che facevano sentire tutti i cittadini italiani parte attiva di un’avventura collettiva.

C’era, pertanto, una precisa idea di civiltà dietro quelle conquiste e quell’architettura statuale, non certo le alchimie finanziarie partorite da qualche algoritmo di Wall Street, c’erano i costruttori di storia contro i mercanti e i banchieri, c’era la civiltà contro la contabilità.

Del resto, ogni politica economica, se non sostenuta da un progetto culturale e comunitario d’ampio respiro, non può che risultare sterile se non addirittura controproducente. Se si legifera, cioè, in base a meri ragionamenti utilitaristici ed egoistici, ogni riforma è destinata a rimanere lettera morta. Proprio perché l’economia – contrariamente a quello che comunemente si crede – non è una scienza matematica, bensì una scienza umana: è il regno degli uomini, non dei numeri. E se gli uomini sono educati all’egoismo e all’individualismo esasperato, come recita il verbo americano non c’è finanziaria che tenga.

Tutto questo Mussolini lo aveva lucidamente compreso. Nel Discorso per lo Stato corporativo (1933), tra i vari requisiti di un “corporativismo pieno, completo, integrale, rivoluzionario” il Duce sapeva infatti molto bene quale fosse quello veramente fondamentale. “Terza ed ultima e più importante condizione: occorre vivere un periodo di altissima tensione ideale. Noi viviamo in questo periodo di alta tensione ideale. Ecco perché noi, grado a grado, daremo forza e consistenza a tutte le nostre realizzazioni, tradurremo nel fatto tutta la nostra dottrina. Come negare che questo nostro, fascista, sia un periodo di alta tensione ideale? Nessuno può negarlo. Questo è il tempo nel quale le armi furono coronate da vittoria. Si rinnovano gli istituti, si redime la terra, si fondano le città”.

A noi, invece, è dato di vivere il tempo della crisi più grave esplosa all’interno di un sistema economico essenzialmente speculativo e finanziario, totalmente de-territorializzato­, bensì globalizzato, che rappresenta quindi una crisi strutturale, non congiunturale, del capitalismo, cioè del sistema del denaro.

La libertà del mercato dai confini e dalle regole presentata come il viatico per l’abolizione della povertà e la diffusione planetaria dello sviluppo, ha garantito in realtà l’assoluta libertà alla speculazione globale e alla ricerca del profitto incondizionato, al di fuori di qualunque effettiva tutela dei diritti del lavoro e in genere del bene diffuso dei popoli. Un progetto che sta impoverendo tutti, che limita ogni giorno di più le libertà individuali, che sta distruggendo mezzo secolo di conquiste sociali, solo per assicurare a corporation e grandi banche la possibilità di usare a loro piacere il pianeta, come un supermarket di risorse e mano d’opera, da comperare al minor prezzo, senza il seccante gravame di norme a tutela dell’ambiente o dei diritti dei popoli. Un progetto che ha posto in cima alla lista delle priorità gli interessi privati e dei “cartelli” finanziari traducendosi, ovunque applicato, nell’assoluto arretramento di ogni tutela sociale.

Ecco perché i contorsionismi cerebrali degli attuali nani economici suscitano una totale repulsione dinanzi alla limpida visione ideale e alla forza progettuale che traspaiono dalla lettera indirizzata da Benito Mussolini all’on. Biagi, presidente dell’Istituto di Previdenza sociale: “.. la celebrazione del 1° Ventennale del Fascismo coincida con un forte passo innanzi sulla strada della legislazione sociale, accorciatrice delle distanze:

a) aumento del sussidio di disoccupazione, lasciando inalterata la durata del medesimo;

b) diminuzione da 65 a 60 anni del limite massimo generale per le pensioni operaie e a 55 per determinate categorie di lavoratori. Esaminare come tali pensioni potrebbero essere aumentate;

c) aumento degli assegni familiari, la cui gestione, come dicemmo alla Rocca, deve far capo a una “Cassa unica per gli assegni familiari ai lavoratori italiani”;

d) aumento dei sussidi di maternità in rapporto al numero di figli.

Tutto ciò deve farsi possibilmente senza alterare le quote attuali dei contribuenti operai”.

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